Letture e riletture


21.12.06
Contributo inviato da Simona Magnoni
Stanza 411 di Simona Vinci
Stanza 411 racconta di una storia d'amore, come la mia, come la tua, come altre mille nel mondo. Non è l'originalità di ciò che viene raccontato, ma l'essenzialità e l'immediatezza con la quale viene raccontata che mi hanno colpita.
Viene messa a nudo quella parte di noi che quasi sempre, nelle storie d'amore, all'altro celiamo per pudore o chissà cosa d'altro, schermandoci dietro barriere che ci fanno apparire più forti e distaccati di quanto siamo realmente, quasi superiori, intoccabili, inafferrabili. Qui si racconta di che cosa si sente, ci ciò che si desidera, ma soprattutto cosa si prova, non tanto nel cuore quanto sulla pelle, nello stomaco...
È un racconto allo specchio, il racconto di una donna e di mille di noi, di come nell'amore, che sia sentimento o passione, spesso ci annulliamo o soffriamo pur di averlo e annullandoci e soffrendo continuiamo a inseguirlo come fosse l'unico modo per poter vivere, per sentirci vive.
Ed è vero, io lo penso: solo nell'amore, che esso sia divertente e felice o triste e massacrante, eterno o sfuggente, solo in esso assaporiamo la vita vera, anche se a volte la vita è amara.
Simona



19.12.06
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Vergogna di John Maxwell Coetzee (traduzione di Gaspare Bona)
Il racconto scivola intrigante sin dalle prime righe, con la semplicità d'una scrittura che rimanda la sensazione di essere seduti su di una slitta, al polo. Sembra prendere per mano il lettore e condurlo nella prima fila delle grandi occasioni. È schietto, sin da subito diretto e mordace, tanto che in una manciata di pagine si ha già la percezione del gusto corposo, del boccone pieno. Un appetito che accompagna la lettura sempre in bilico tra languore e sazietà.
John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, ha sempre raccontato il realismo e Vergogna non manca l'appuntamento. Disillusione narrata per mezzo del protagonista prof. David Lurie, cinquantenne, pelle bianca, insegnante alla università di Cape Town. L'opera si snoda dentro spazi fisici e temporali relativamente limitati, stretti entrambi nella morsa degli accadimenti ineluttabili. Ridotti a nulla quando il racconto volge alla fine.
Tutto è disegnato sullo sfondo post-Apartheid del Sudafrica. Quel realismo che fende impertinente le opere di Coetzee, scava anche qui sentieri impietosi, tanto nel rappresentare lo squallore medio di un uomo medio, mediamente occidentale, di pelle bianca; quanto nel tratteggio della gratuita violenza dell'uomo nero, proposta come diritto acquisito dal nuovo corso della storia sudafricana. L'esito perverso del riscatto.
Coetzee dipinge la desolazione di una esistenza costruita sui punti saldi della razionalità occidentale, definiti tali anche da sociologi dello spessore di Zygmunt Bauman: benessere economico e culturale, fuga da responsabilità affettive, relazioni brevi e fugaci, costruzione razionale di una comoda e asettica solitudine (cfr. di Z. Bauman, Voglia di comunità, ed. Laterza 2003; Amore liquido, ed. Laterza 2005, entrambi tradotti in italiano da S. Minucci).
Questo accade subito, sin nelle prime pagine, non come semplice provocazione, ma alla stregua di uno schiaffo violento e inatteso.
Il protagonista ha architettato la propria esistenza tenendo al guinzaglio sentimenti e passioni. Si dedica all'insegnamento con scrupolo, ma senza troppi entusiasmi, ricambiato con la stessa moneta leggera dai propri studenti. L'interesse professionale - David è studioso di poesia inglese - si adagia sin dentro la sua vita privata, ma senza una vera convinzione. Esso appare insignificante e piatto, in sintonia con l'esistenza del protagonista. David lavora a un'opera che non ha in realtà né capo né coda, né pregio alcuno, se non nella velleità disegnata dalle fantasie dell'autore. Ma è l'unico territorio emotivo che il protagonista frequenta. Arreso a due divorzi, con una figlia a centinaia di chilometri, nessuna voglia di tentare un altro legame affettivo, il prof. Lurie appare ormai privo di vita emotiva. Anche le passioni sembrano razionalmente organizzate, dalla prostituta del giovedì al tentativo di produrre un'opera sul poeta inglese Byron. Porte disegnate sul muro.
Tutto incomincia, la vita del prof. Lurie viene scossa, quando gli eventi cancellano dal muro anche quella idea fantastica di accesso, costruita così accuratamente, tanto che David s'era persuaso che una finzione potesse davvero sostituire la realtà. Serrata anche quella porta, il protagonista sembra rigettato nella vita vera dalla sua incontenibile e mai sopita passione verso le donne.
E le ritrova, le donne, vive, nella loro carne, nei loro sentimenti, in quella femminilità complessa che il protagonista sembra aver vissuto finora in modo confuso, approssimato, ma soprattutto dentro una semplificazione comoda ed egoista.
Dopo la breve e sconvolgente relazione con la sua studentessa Melanie, causa dello scandalo traumatico e pretesto narrativo per i successivi eventi, sulla scena il femminino matura e si compie gradualmente. In sequenza, compaiono la preside della sua facoltà, l'ex moglie, la figlia, una contadina nera, l'animalista convinta. La versione classica del materno femminino è appena accennata nella figura di donna matura, madre di Melanie, sullo sfondo. Mentre l'occhio indugia più insistentemente su di una maternità all'esordio, nel ventre della propria figlia Lucy e in quello della contadina nera sua vicina.
Il femminino si fa man mano protagonista del racconto per il tramite della risolutezza della figlia, giovane donna fedele alla sue scelte di vita anche quando diventano scomode, pericolose, ai limiti del possibile. Il femminino è tracciato nel suo attaccamento alla terra, a una piccola fattoria, tormentato da violenza e sottomissione, ma vivo, fecondo. In quella terra nascono ancora figli, emozioni forti, sentimenti pervasivi, rabbia. Contraltare all'apatia del protagonista che incarna un'esistenza pressoché anonima, conchiusa dentro regole d'una moralità tanto normale quanto oppressiva, che riesce a inibire ogni forma di creatività, da quella artistica e letteraria (l'opera del prof. Lurie ristagna) a quella erotica e sentimentale, ridotta a mera funzione sessuale, nonostante il sincero desiderio del protagonista d'accedere a forme più sublimi di entrambe.
È un racconto in cui si confrontano e si contrappongono generi, culture, generazioni. Persino gli animali, i cani, assumono a tratti una funzione centrale. L'ingenuità naturale della bestia la destina inesorabilmente a vittima e diventa sede di compassione, ma anche rinascita di quella solidarietà che fra gli uomini sembra scomparsa. Lontano da inclinazioni retoriche, Coetzee disegna il sentimento della pietà, in prossimità dell'ultimo congedo, nel rapporto tra il protagonista e i cani. Le relazioni fra gli uomini appaiono ormai segnate dalla estraneità. È necessario introdurre animali sofferenti, corpi straziati di bestie, per destare un segno di pietà. L'insistenza di Coetzee sulle procedure per la uccisione di animali affetti da malattie inguaribili, fino alla meticolosa descrizione del trasporto e dell'incenerimento delle carcasse, non è deriva maniacale né del racconto né del protagonista. David è ormai solo, isolato dal mondo degli uomini trova conforto nel fiato d'un cane azzoppato, nella fisicità di quella lingua che gli insaliva la mano mentre egli intona due note demenziali a un vecchio mandolino, simbolo d'una creatività che non cresce, d'una vita che non palpita più, della sua vecchiaia che sente incombente, ineluttabile. Ma l'animale non valuta, non apprezza, non giudica. Il cane sente, semplicemente sente e semplicemente gli ricambia pietà. Il cane zoppo è il ventiquattresimo a morire fra le sue braccia quella domenica mattina. Muore alla fine del ventiquattresimo capitolo.
Carlo Giuseppe Diana



9.12.06
Jean-Claude Izzo, Total Khéops (trad. it. di Barbara Ferri Casino totale)
Il sapore della vita, il sapore della morte. L'alcol e le sigarette, il fumo e i figli degli immigrati in una città d'approdo, un porto, di mare e umanità. Il sole e il mediterraneo, la cucina e le donne, gli amori perduti e quelli mai dimenticati, le sensazioni forti, i muscoli che dolgono, le botte e la miseria, economica e umana, i valori e il pudore. La verità, la riservatezza, la chiusura, il non dire, il saper capire. La sensualità sincera vitalità, la violenza e la vera meschinità. Nell'intrico avviluppante, tutti i personaggi balzano dalla pagina a tutto tondo, vivono muoiono aiutano fuggono respirano bevono negano mangiano disperano lottano amano. E con loro Fabio Montale il poliziotto, ragazzo smarrito e uomo fatto che si ritrova nel Casino totale, Total Khéops, come dicono i gruppi rap della periferia marsigliese.
Giulio Pianese, ovvero Zu



3.12.06
Contributo inviato da Simona Magnoni
Aldo Nove, Milano non è Milano
Da sempre ci vivo a Milano e da sempre mi dico: "ma io non la conosco questa città!". La curiosità di saperne qualcosa di più l'ho sempre avuta e qualche giorno fa, uscendo da una libreria, dove avevo accuratamente scelto alcuni libri, questo l'ho preso al volo, quasi alle casse.
L'ho letto in una sera, o poco più. L'ho trovato fresco e immediato. Per ricordarci qualcosa che abbiamo sicuramente studiato o per accorgerci di qualcosa che magari abbiamo sotto il naso tutti i giorni.
Simona



2.12.06
Contributo di Lula
Carlo Molinaro, La parola rinvenuta
La grandezza dei poeti sta nell'indovinare la vita degli altri esprimendo se stessi. La descrizione di momenti esistenziali, di paesaggi, di stati d'animo, risveglia un fondo sopito, qualcosa che forse sarebbe restato ignoto per sempre. Io non credo di poter esprimere un giudizio universalmente accolto, cosa impossibile da verificarsi, ma i versi di Carlo mi fanno eco dentro e sono una bella, nobile compagnia.
Sto pensando di acquistare altre copie del libro e di donarlo, sarei finalmente soddisfatta di ciò che ho acquistato.
Lula



3.11.06
Contributo inviato da Simona Magnoni
Paolo Teobaldi, La badante. Un amore involontario
Leggendolo mi sono sentita a casa. Ho risentito la voce di nonna Iolanda, di mamma e papà e mi sembrava di essere lì, a casa, perché è di quella che io definisco "casa mia" che Paolo Teobaldi racconta. Di posti dove puoi lasciare la chiave nella toppa, come Cagli o Pianello, e dove i fulminanti sono i fiammiferi; delle gobbe del Catria, del Monte Acuto, del verde del Petrano, del Nerone e di come i bambini, come me quando ero bambina, pensino: "a Pianello non succede mai niente"...
Lo consiglio, a chi ha voglia di leggere questo cantore pesarese di una delle nostre province, a chi è nostalgico, romantico, ma anche ironico.
Simona



4.10.06
Recensione inviata da Carlo
David Foster Wallace, Consider the Lobster and Other Essays
(edizione italiana, nella traduzione di Adelaide Cioni e Matteo Colombo: Considera l'aragosta)

La subdola abilità con cui riesce a farti ingollare saggi chilometrici su chissà quali argomenti è perfino sinistra (qualità che lo espone a quelle derive di "omnipubblicabilità" che infestano la produzione di illustri colleghi, e le cui avvisaglie - ora lo dico - emergono qua e là anche in questo libro). So bene che se c'è un autore che può generare (e genera) fideismo il suo nome è Wallace, ma non è questo il caso: una lucida percezione dell'impietoso rapporto VitaMedia/LibriDaLeggere mi consente di liquidare senza remore una lettura sgradita; al limite mi fido di una penna familiare, questo sì.
Così, io che ignoro (e mi disinteresso di, risoluto a persistere nella lacuna) qualsiasi nozione appena afferente al tennis, ho gradito diversi passaggi di Roger Federer as Religious Experience (ammetto di barare un po', qui: l'articolo copre, col pretesto del tennis, dinamiche applicabili a ogni sport).
Allo stesso modo, ho apprezzato (con variabile trasporto, metto le mani avanti) i saggi di Consider the Lobster and Other Essays, sui cui soggetti non sempre avrei scommesso; è che quando scopri di cosa si tratta, ti sei sei già infilato fra le pieghe di quella prosa ricca e articolata, fatta di note e subordinate interminabili, sigle, dettagli tecnici pynchoniani, neologismi, rigore e licenze che trovi indistintamente in narrativa e non-fiction di DFW. Alla fine sta qui il punto: la curiosità quasi infantile (sia che nasca spontaneamente o sia indotta da una richiesta editoriale), la contagiosa avidità per l'approfondimento - una specie di reverse-engineering del Mondo - veicolate dalla passione per lo strumento linguistico, conferiscono ai saggi di Wallace gli stessi caratteri che te ne fanno amare la fiction.

1. Succede per Big Red Son che, dopo un breve resoconto statistico sulle auto-mutilazioni dei maschi americani, traccia un ritratto agrodolce (il bilancio è decisamente tragico, per la verità) dell'industria dell'entertainment per adulti, osservata dall'interno, in occasione degli AVN (Adult Video News) Awards (la consueta attenzione per i dettagli tecnici e la scientifica freddezza con cui se ne dà conto risultano spesso, dato il tema, in momenti esilaranti: vedere il glossario dei termini usati sul set);
2. Certainly the End of Something or Other... parte dai cosiddetti GMNs, Great Male Narcissists (Mailer, Roth e - soprattutto - Updike, il cui romanzo Towards the End of Time è alla base del saggio), per esaminare il rapporto tra diverse generazioni di autori e rispettivo pubblico: i giovani degli anni sessanta/settanta, allevati nel conformismo, per i quali le trasgressioni updikiane rappresentavano un modello di emancipazione e individualismo al quale ambire, e quelli cresciuti negli anni '90, vittime dell'impatto di quella stessa libertà sulla famiglia;
3. Some Remarks on Kafka's Funniness... è un breve trattato sulla trascurata (i giovani americani ne sarebbero perfino vaccinati) funniness (mi azzardo a tradurla in "comicità") kafkiana, radicata nell'onirico potere evocativo e - specialmente - nella letteralizzazione di concetti che abitualmente affrontiamo in chiave metaforica (in questo senso, il Bombardini de La Scopa del Sistema - avido e deciso a mangiare ed espandersi fino a occupare l'intero Universo - mi sembra il frutto di un simile esercizio);
4. Authority and American Usage prende a pretesto la recensione di A Dictionary of Modern American Usage di Bryan A. Garner, per ragionare attorno all'evoluzione della lingua americana, qui Standard White English (contaminata dagli infiniti dialetti) e del suo impiego, con le implicazioni filosofiche e ideologiche che scaturiscono dallo scontro fra Descrittivismo e Prescrittivismo. Tutto dalla non scontata prospettiva di uno SNOOT (acronimo usato dalla famiglia Wallace per designare il Grammar Nazi);
5. in The View From Mrs. Thompson's, Wallace racconta il suo 11 Settembre a Bloomington, filtrato dal teleschermo di un'anziana signora;
6. How Tracy Austin Broke My Heart si lega in qualche modo al saggio su Federer, non solo perché tratta di tennis (ancora una recensione, questa volta un'autobiografia), ma soprattutto perché mostra il ramo discendente di quella parabola che è la carriera di un campione, la metà umana del semidio ritratto nell'agiografia apparsa sul NY Times: il genio sportivo, puro istinto, cieco e quasi soprannaturale, che si scontra con una fallibilità tutta umana;
7. Up, Simba è la (lunga) cronaca di un viaggio al seguito del Senatore ed eroe del Vietnam McCain, durante la campagna elettorale per il 2000. Ancora una volta, l'esasperata attenzione ai dietro le quinte ben rappresenta le dinamiche che reggono campagna e politica in genere, responsabili, si ipotizza, della distanza che separa nuove generazioni e res publica (i toni chiaroscurali che ritraggono il Candidato sono emblematici di questa diffidenza);
8. il "title-track", Consider The Lobster, è un articolo sul Maine Lobster Festival, scritto per Gourmet, che presto volge in trattato etico-neurologico sulla condizione dell'aragosta, immersa - secondo ricetta - ancora viva nell'acqua bollente (o soppressa secondo metodi alternativi), e sulla di lei capacità (fisiologica, prima che filosofica) di provare dolore: crudo, tecnico ed equilibrato, non mancherà di generare empatia fra il lettore e il pregiato crostaceo. Ad ogni modo, ho sempre preferito l'astice;
9. Joseph Frank's Dostoevsky raccoglie alcune riflessioni su FMD, dall'etica e le questioni morali, alla caratterizzazione dei personaggi, a partire dalla biografia a cura di Joseph Frank. Confesso che avrei voluto leggere qualche riga in più - come mi sarei aspettato - su alcuni dei tanti punti lambiti in poche pagine: la sensazione finale non è quella beata sazietà offerta da altri pezzi della raccolta;
10. Host è il più lungo fra i saggi, dedicato al mondo dell'editoria radiofonica e dei talk-show, qui rappresentato da John Ziegler, speaker conservatore della KFI. Il sistema gerarchico di digressioni e commenti fatto di frecce e caselle (che letteralmente fagocita il resto) tiene traccia del torrenziale flusso di idee, ma è una delle più snervanti prove di resistenza cui sottoporre un lettore (credo che in origine le note - qui ridotte a un diagramma in bianco e nero - fossero colorate in funzione del ruolo nel pezzo). Non so se attribuire al layout l'impressione (non comune, in CTL e Wallace in genere) di avere per le mani qualcosa di (molto) meno dell'alchimia perfetta fra fiction e saggistica raggiunta in altre occasioni, o se in Host, Wallace stesso - soluzioni tipografiche a parte - non fosse poi così ispirato.
Carlo (Lo Scaffale)



2.10.06
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi
Vorrei cominciare dalle note dell'autore dopo il racconto. Tabucchi dichiara nelle note di aver intrecciato fatti storici, sentimenti personali e ricorrenze familiari. Lo spazio storico degli eventi raccontati è lì già precostituito (1938 vigilia e preparazione del regime salazarista in Portogallo, della seconda guerra mondiale, in piena dittatura franchista) e il personaggio andrà a occuparlo crescendo e forgiandosi pian piano nell'immaginazione dell'autore. Tutto nasce con la morte del giornalista reale che ispira il personaggio Pereira. Appunto la morte, il sentimento di morte, segnerà costantemente il personaggio. Nel racconto la morte non sarà mai sottesa, nascosta, non detta, ma resterà un argomento disvelato senza tabù, già dalle prime righe del romanzo. L'argomento, di solito cupo, è però trattato sul filo dell'ironia con passaggi giocosi (il sorriso della foto della moglie morta e i quotidiani colloqui con lei) perché contrapposto alla vita, alla voglia di vivere dichiarata dal giovane Monteiro Rossi e alla vitalità dell'amore che lega questi a Marta. La cupezza dell'idea di morte si spegne nel sentimento filiale di Pereira verso i due ragazzi, trasformandosi in speranza di cambiamento, in impulsi vitali e interrogativi che scuotono il personaggio. Così, in questo quadro il sentimento che lega Tabucchi alla figlia, accennato nelle note, non resta estraneo al racconto e sembra giocare un ruolo decisivo nell'abbandono graduale dell'atteggiamento depressivo iniziale di Pereira. La vitalità della gioventù fatta propria grazie al sentimento filiale, sembra la spinta necessaria a Pereira per trasformare la rassegnazione in ribellione, attraverso un percorso di lenta maturazione. E ancora, i buoni sentimenti del cattolico non mancano al fondo dell'animo di Pereira e sembrano più il terreno sul quale si consuma la contraddizione intima di un'epoca che la declamazione di principi inderogabili, soprattutto attraverso il racconto dei fatti per bocca di Padre Antònio.
Infine il sogno, tutto ciò che è sogno o fantasia non può rappresentarsi in quel racconto. Più volte Pereira dichiara apertamente che i sogni nulla hanno a che fare con questa storia. Si tratta evidentemente di un altro piano di lettura del romanzo, il più provocatorio per un verso e il più orgogliosamente e rigorosamente separato dai sentimenti umani: la struttura di un processo. Quel "sostiene" che regge il racconto del personaggio lo isola da ogni contaminazione sentimentale e ne fa il freddo testimone della propria storia. Posizione rigidamente osservata durante tutto il racconto/testimonianza, anche dinanzi alla vile uccisione, morte tragica e violenta, di Monteiro Rossi personaggio/figlio. L'atteggiamento di Pereira, pur culminando in un atto di ribellione e di pubblica denuncia, resta glaciale sotto il profilo emozionale, a custodia della separatezza dei sentimenti personali che sembra debbano restare in qualche modo puri, non contaminati da indagini d'ogni tipo e devono, almeno quelli, preservarsi fuori dalla violenza di ogni valutazione non condivisa dal soggetto.
Come ho già detto, a me pare rilevante nel romanzo la tensione che sta fra le età, sia come filo di comunicazione tra diversità sia quale campo magnetico tra vita e morte. È un po' il groviglio di sentimenti davanti al pensiero e alla figura di un figlio: la sua poca vita vissuta che spinge quell'altra ancora da vivere; la sua vitalità che a volte si fa voracità, i suoi piccoli progetti, il futuro da lui immaginato e il suo corpo giovane. L'idea del tempo che si consuma e che inevitabilmente richiama la sensazione delle cose che invecchiando moriranno, risulta magicamente un sollievo. È un po' come vivere dentro quel corpo giovane, delle sue stesse sensazioni e rubargli un po' di vitalità senza sottrarre nulla a lui. L'immagine deprimente dell'invecchiamento e della morte diluiscono in una promiscuità (vita/morte) più accettabile dove anche l'ultimo istante di vita può accogliere un progetto. Non è tanto l'idea che una parte di sé sopravvivrà alla morte attraverso il figlio; non un semplice gioco di tempi dove si proiettano immagini, quanto la sensazione presente, attuale d'essere lì in quel corpo, adesso, con una parte di sé.
Carlo Giuseppe Diana



30.9.06
Recensione inviata da Matteo Ferrario
James G. Ballard, L'isola di cemento (traduzione di Massimo Bocchiola)
Maestro di una fantascienza concentrata sul presente e sulla psicopatologia, Ballard ha dimostrato nel corso della sua carriera un interesse costante per quello che egli stesso ha definito spazio interno: una sorta di paesaggio interiore, unica landa di realtà ipotizzabile da uno scrittore in un mondo che si spinge ben più in là della fiction. Questa inversione - la narrativa che cerca di impossessarsi dell'ultimo nocciolo di realtà, mentre il mondo reale acquista la fisionomia di un romanzo - rimette in discussione il ruolo stesso dell'autore che, al pari di uno scienziato alle prese con una materia di studio del tutto sconosciuta, può solo formulare ipotesi e verificarle sul campo.
Se in Crash (1973) vengono esplorati i meandri di una sessualità pervertita dalla tecnologia, L'isola di cemento, uscito a un solo anno di distanza, offre una soluzione ambigua a questo processo. Punto di non ritorno o riscossa della mente sull'aggressività di un mondo "brutale, erotico e sovrailluminato"? Prigione definitiva o estrema via di uscita? L'isola in questione, entro cui si svolge l'azione dell'intero romanzo, non è che uno spartitraffico triangolare circondato da svincoli e sopraelevate dell'autostrada. Sullo sfondo delle strutture possenti dei viadotti, le superfici vitree dei palazzi per uffici londinesi.
Robert Maitland, architetto quarantenne diviso tra un matrimonio in crisi e i viaggi di lavoro in compagnia dell'amante, sta percorrendo a tutta velocità con la sua Jaguar un raccordo autostradale. A seguito dell'esplosione di una gomma, perde il controllo e precipita giù lungo la scarpata.
Più che dal cemento, l'isola in cui rimane intrappolato è dominata dall'erba altissima, subito pronta a inghiottire i resti dell'auto. Ma in Ballard non c'è traccia di utopie regressive o ambientaliste. Quella che prende forma nell'esiguo triangolo di verde incolto, vicinissimo al traffico e al centro direzionale della città, eppure isolato in una sorta di bolla spazio-temporale, non è la rivalsa della natura ma quella della psiche.
È un processo che si sviluppa nella più totale assenza di sentimenti. Quello di Maitland, a tratti lucido e a tratti fiaccato dal delirio, è comunque e sempre puro calcolo. Il modo in cui si serve dei due abitanti dell'isola, un ex acrobata cerebroleso e una prostituta nevrotica in fuga dai suoi problemi, è figlio della fredda perversione delineata in Crash. L'isola è lo spazio interno di Maitland, il paesaggio spirituale e psichico cui ha avuto accesso solo uscendo di strada con la sua auto. Denso di rimandi simbolici, l'incidente è il momento chiave che ne schiude la visione.
Nonostante l'auto distrutta e le ferite, l'isola ci appare fin da subito come il luogo più facile da lasciare. In fondo è lo stesso Maitland a rendersene conto: basterebbe percorrere il tunnel e servirsi del telefono di soccorso. Nel giro di qualche ora potrebbe fare ritorno nel suo asettico e confortevole habitat borghese. Se non lo fa è solo perché questo triangolo d'erba in cui è precipitato, da luogo ostile e inabitabile, si trasforma via via in un sicuro limbo, una pausa dal mondo. "L'isola sono io" pensa aggirandosi fra i resti di rifugi antiaerei e di case elisabettiane, patetiche vestigia chiuse fuori per sempre dal presente della metropoli.
I pezzi delle auto abbandonate nella sterpaglia diventano utensili per l'uomo del XX secolo, improvvisamente messo di fronte a bisogni primari. Il vino acquistato in viaggio diventa moneta di scambio per avere accesso alle fonti di sostentamento di Proctor, l'acrobata demente e sfigurato che vive nascosto al resto degli umani. Il rapporto con Jane, l'altra abitante dell'isola, contempla anche il sesso ma come estrema forma di sfruttamento reciproco. Per Maitland, la richiesta di denaro da parte della ragazza è addirittura un gesto liberatorio: dopo tutti gli investimenti emotivi cui l'hanno costretto le transazioni del passato, finalmente è al sicuro.
Attraverso una narrazione ipnotica, scandita dallo stormire dell'erba e dallo scintillio delle auto sfreccianti sui viadotti, da albe e tramonti riflessi dai palazzi di vetro, Ballard ci accompagna con la decisione dei suoi migliori romanzi a un epilogo tutt'altro che rassicurante.
Matteo Ferrario



18.8.06
Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose (traduzione di Chiara Gabutti)
Romanzo denso, in cui frase richiama immagine, immagine parola, parola frase, e ogni episodio ha lo spessore di una fisarmonica chiusa, per cui il racconto in qualsiasi punto potrebbe schiudersi quasi all'infinito. Vita sparsa a piene mani, senza indulgenze; e senza indulgere si succedono e s'intrecciano le descrizioni, mentre nell'occhio della mente si accendono riflessioni o dilemmi insolubili sulle dinamiche di interazione del vivere. Che è fatto di piccole cose. Che ospitano in sé le grandi.
Grande è la scrittura: sintetica ed efficace, unica e preziosa, spesso spiazzante, con le similitudini a sgranare una sorpresa dietro l'altra, con le metafore a rispecchiare la ricchezza di uno sguardo che sa cogliere l'essenza alla superficie, restituendo in parole il lirismo ruvido della materia.
L'intreccio procede per quadri dinamici pregnanti in sé, ma il cui senso si riempie grazie al comporsi del mosaico narrativo: così ciascuna vicenda assume significato a tutto tondo nella giustapposizione delle altre, come un dipinto medianico che prenda forma inaspettata a partire da un coacervo di macchie cromatiche.
Un libro da leggere; da leggere e rileggere. Non foss'altro perché alla rilettura si coglie il carattere di ouverture vera a propria del primo capitolo, che annuncia temi e toni dell'intera opera. Opera in cui a capitoli alternati (e poi a sequenze di capitoli) la narrazione procede partendo dal presente (per tuffarsi nella memoria viva come la carne) o dal passato (con puntate via via più esplicite a ciò che sarà dopo).
Ci sono libri che per essere apprezzati davvero vanno assaporati al momento giusto. Se non l'hai ancora letto, spero che quel momento venga presto anche per te.
Giulio Pianese, ovvero Zu



16.8.06
Contributo di Massimo Morelli
Gorilla Blues di Sandrone Dazieri. È un buon prodotto di genere, anche se sospetto che non sia il migliore della serie (è il terzo). Comunque gli ingredienti ci sono tutti e l'idea dell'investigatore con la doppia personalità è buona. La trama scricchiola molto nel finale, ma complessivamente non mi è dispiaciuto.
Massimo Morelli



15.8.06
Sandrone Dazieri, La cura del gorilla
Il secondo romanzo della serie amplia le prospettive geografiche e moltiplica le implicazioni tematiche connesse alle gesta del gorilla, investigatore scisso e scosso. La storia riattacca dove si era conclusa la precedente; dall'ospedale milanese in cui si trova ricoverato, il nostro parte in cerca di tranquillità nella natìa Cremona, ma naturalmente si ritroverà invischiato in vicende poco chiare, gravi soprusi, feroci delitti e con l'aiuto dei suoi fidi aiutanti proverà a risolvere gli enigmi conducendo in contemporanea un paio di scalcagnate indagini che lo porteranno in quel di Torino.
Il coinvolgimento di immigrati albanesi fa sì che vengano toccati i temi dello sfruttamento e del lavoro nero, oltre ad altri orrori. Parallelamente ci si muove nell'ambito dei centri occupati e della politica extraparlamentare (extrasociale, più propriamente), nell'ambiente degli squatter e dei rave, con una sottolineatura delle distanze generazionali.
Violenza: come nel realistico narrare di Osvaldo Soriano, qui le botte sono botte e i personaggi le sentono davvero; ma c'è di peggio.
Sesso: diversi personaggi femminili, relazioni più articolate, situazioni complesse a vari livelli.
Il protagonista sviluppa maggiormente anche il suo rapporto col "socio". La strana schizofrenia è un vero e proprio confronto tra due personaggi distinti, che avviene sia per il tramite delle solite comunicazioni scritte, sia per quello più sfumato del limitare tra sonno e sogno. Il tutto, bravo Dazieri, funzionale al racconto.
Immagino interessante anche la resa cinematografica (ove la scelta di Claudio Bisio per il ruolo sembra curiosamente rievocare un suo antico monologo di schizofrenia urbana).
Giulio Pianese, ovvero Zu



14.8.06
Recensione inviata da Laura Caroniti
Seme di metallo, di Maurilio Barozzi
Un latrare alle stelle. Una storia raccontata su due binari, una voce che affila la Storia e le voci di un borgo a raccontare le storie in corollario, è questo lo scheletro di Seme di metallo (Curcu & Genovese), nuovo libro di Maurilio Barozzi dopo il buon esordio narrativo avuto con Spagna, edito per i tipi di Giunti.
Seme di metallo nasce come romanzo sulla storia dell'impianto della Montecatini a Mori, centro del Trentino situato tra il bosco e il fiume Adige, che da borgata agricola vede il suo passaggio a paese industriale, con gli effetti collaterali del cambiamento: dall'invidia del posto fisso, e remunerato più dell'andare a "giornata" nei campi, alle prime malattie che colpiscono indifferentemente uomini e animali.
La denuncia sociale, però, è solo un fil rouge che lega la vicenda della fabbrica di alluminio alla presenza e all'alternanza di uno straniero, Isidoro Cavada, che arriva a Mori in un giorno qualunque dopo la Grande Guerra. Un uomo di silenzio e al silenzio votato, corrotto solo dalle costellazioni cui parla.
Isolato e alienante, quello di Cavada è un personaggio in evoluzione, quasi un romanzo di maledizione in formazione, privo di contatti con gli altri paesani, mai scandito dalla partizione delle giornate comuni, è un cane sciolto, senza dio e devozione, un outsider toccato dal disprezzo del branco che al branco scaglierà i primi strali di una premonizione calcata di inferno.
Il "matto del fiume", come chiamano Cavada i paesani, solito vivere di espedienti e ai margini del resto, circondato dal timore che spesso si riserva all'incapacità di comprendere l'altro, un altro fuori schema, romperà gli argini del silenzio come il fiume che straripa con quella piena predetta dalle sue stesse parole e dette a dei ragazzini insieme alla minaccia di una costruzione che con sé porterà morte e dolore.
E nel momento in cui, nel 1928, dopo la piena dell'Adige, inizia l'insediamento della Montecatini, gli sconvolgimenti proseguono come in una catena di montaggio da fabbrica, mutando abitudini e aspettative negli abitanti del paese che inizieranno una feroce caccia all'uomo quando, in un giorno d'agosto, si troverà in uno stagno il cadavere di una ragazza...
Noir d'autore, con scrittura precisa e netta come il taglio di un bisturi, il romanzo di Barozzi mantiene un'andatura costante che per contrasto aumenta nel lettore un disagio che si fa asfissia, fino a un finale rocambolesco e nervoso, rapido e parzialmente atteso, che riprende la bellezza di certi passi messianici disseminati nel libro.
Da leggere. Non per avallare alcuna maledizione, non per credere alla verità di alcun seme di metallo che giustifichi dolore e abiezione. Da leggere per disertare un dubbio, non una realtà, noi lettori resi martiri dall'innocenza di un rosario di menzogne.
Laura Caroniti



31.7.06
Santo Piazzese, Il soffio della valanga
Convincente e godibile questo noir raffinato che non si ferma alla crudezza dei fatti.
Il movimento procede tanto nella moltiplicazione sensoriale quanto nell'ispessimento cronologico: così, i sapori del quotidiano s'intrecciano con le amarezze del vivere contaminato dal crimine, mentre affondano nella nostalgia di un sentire antico, da fotografia seppiata.
Il protagonista compariva già nei primi due romanzi dell'autore palermitano, narrati però dal punto di vista di un investigatore improvvisato. Qui si passa al racconto in terza persona e il commissario Vittorio Spotorno, incarnando l'eroismo della sobrietà non distaccata, funge da cardine, fulcro e collegamento per il dipanarsi del poliziesco, per l'approfondimento dei personaggi, per il riverbero del passato sul presente.
Giulio Pianese, ovvero Zu



14.6.06
Recensione inviata da Annamaria De Simone
Benedetta Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne
"Fortunato sei tu, Lettore, se non appartieni a quel sesso che, privato della libertà, è interdetto da tutti i beni... Un sesso a cui, come sola felicità, come uniche e sovrane virtù, si lasciano l'ignoranza, la servitù e la facoltà di passare per stupido, se questo gioco gli piace". (Marie de Gournay, 1626)
Di certo non fu questa la facoltà che esercitarono di preferenza le donne di cui racconta Benedetta Craveri in Amanti e regine. Il potere delle donne, uscito nel 2005 presso Adelphi e già giunto alla quinta ristampa.
L'autrice insegna letteratura francese, ed è dalla storia di Francia che il libro trae la sua materia femminina. La rassegna delle regine e delle favorite dei re di Francia, da Caterina de' Medici (secolo XVI) a Maria Antonietta (fine Settecento), è nata nelle pagine culturali della Repubblica, dove ci aveva deliziato qualche estate fa, fino a costituire un libro a sé.
Circa venti ritratti di donne che, dal limitato cantuccio dovuto al pregiudizio misogino della società moderna, hanno saputo o almeno tentato di agire sul governo monarchico, sul gusto culturale, sulla moda, sul mecenatismo artistico, grazie al potere che il rango o il letto accordavano loro.
Le figure di Diana di Poitiers, della "regina Margot", di madame de Montespan, della marchesa di Pompadour ci vengono presentate con il supporto di una quantità di fonti, letterarie e documentarie (memorie, lettere private), e insieme a loro quelle dei re di cui furono mogli o compagne, dei personaggi di corte e della società mondana dell'epoca.
L'impianto è storico-biografico più che narrativo, ma il libro riesce comunque a catturare l'attenzione del lettore con una prosa scorrevole e con gusto attento a cogliere i moventi e i risvolti psicologici delle diverse vicende.
Annamaria De Simone



8.6.06
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Tiziano Sclavi, Il tornado di valle Scuropasso. Un thriller ufologico, Mondadori 2006
A otto anni dalla pubblicazione di Non è successo niente, quello che a detta dello stesso autore doveva essere il suo ultimo romanzo, Tiziano Sclavi per nostra fortuna ci ha ripensato.
Come consuetudine di questo scrittore riservato e umilissimo, eppure tra i più innovativi che si siano visti in Italia negli ultimi vent'anni, Il tornado di valle Scuropasso è ben più del thriller ufologico promesso nel sottotitolo.
Mentre molti suoi contemporanei italiani si affannano a tracciare una linea di confine fra letteratura e intrattenimento, per poi cercare cittadinanza nella prima, Tiziano Sclavi non si pone nemmeno il problema. Il fatto che i più lo conoscano come il creatore di Dylan Dog, ignorando o sottovalutando una produzione letteraria di primissimo livello, gli importa così poco che inserisce nel nuovo romanzo un estratto dalla sceneggiatura di Memorie dall'invisibile, una delle storie più celebri dell'indagatore dell'incubo.
Con una lingua sempre più scarna, Tiziano Sclavi plasma un testo di centocinquanta pagine che si divorano con la facilità di un fumetto ma non per questo sono meno sofferte.
Come il Bret Easton Ellis di Lunar park, ma con lo sguardo atterrito di Sogni di sangue e l'ironia di Nero o Dellamorte Dellamore, Sclavi parte da una materia autobiografica che in realtà è solo l'involucro del mondo che vuole farci intravedere.
Proprio dagli smottamenti e dalle deformazioni di questa superficie - la vita isolata dello scrittore presso la cittadina di Buffalora, dopo il divorzio che l'ha visto ricadere in un abisso di solitudine e depressione - possiamo intuire l'esistenza di una o più realtà parallele, in cui gli elementi di genere non sono che strumenti per sondare la psiche del protagonista e portarne alla luce i fantasmi.
Del miglior Sclavi c'è tutto: la paura del mondo esterno, l'incombere della figura della madre, lo sguardo impietoso sull'ingannevole calma della provincia lombarda, la riconosciuta influenza di Buzzati, la capacità di avviluppare il lettore in un racconto circolare fatto di apparizioni, allucinazioni, segni.
Un grande romanzo sulla malattia mentale e sul peso del passato. Bentornato Tiziano.
Matteo Ferrario



23.5.06
Contributo inviato da occhidisale
Stefano di Lauro, ÒperÉ
L'ho letto come si leggono le parole che avresti voluto sentire ma che nessuno dice. E non so se è perchè è veramente appena uscito che non ne avevo sentito parlare, perché è un libro da incontrare a tutti i costi.
Una storia così antica come quella di Orfeo e Euridice, di Lauro la riscrive e la rivive con potenza e dolore, acido il suo personaggio, turbinose le sue vicende e glaciale l'ambientazione: un videogioco.
Di contro, un calore enorme e l'amore puro distillato dalla distanza dei due: lui il giocatore del videogioco che ha come obiettivo ritrovare lei, la Sua Euridice, vederla morire e riportarla in vita. Riportarla in vita cercando l'unico modo possibile che il videogioco gli permette, un diabolico congegno che lo mette davanti allo specchio imbarazzante delle nostre peggiori paure, al meccanismo di autodistruzione per cui, anche nel mito, Orfeo inspiegabilmente si gira e la perde.
Un'avventura incalzante, una storia d'amore senza riscatto e senza melodrammi, dura come una roccia, una lezione di verità sul villaggio globale e sulle declinazioni della vita sleale che ci tocca di vivere.
Molti generi e stili letterari si mischiano in questo libro la cui quarta riporta giustamente: tra noir, poesia e scienza. L'unica cosa da fare è non perderlo.
occhidisale



15.5.06
Contributo di Codex
Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Ho fatto la pace con Gadda. Perennemente indecisa sul libro che voglio mi faccia compagnia sui mezzi atm e da ansiolitico prima di addormentarmi, a metà aprile la scelta è ricaduta su Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Col suo multiforme e incontenibile uso del linguaggio, l'ingegnere elettrotecnico è riuscito a farmi sentire un'ignorante con incolmabili lacune lessicali; col suo modo di narrare ingarbugliato e complesso ha istillato nella mia testa il timore d'essere stata colpita da una forma galoppante del morbo d'Alzheimer o da una precoce menopausa. Allora io, che sono dura a morire e cj ho la testa dura, ho tirato fuori l'antidoto: ho continuato a leggere il pasticciaccio come fosse un libro scritto in una lingua straniera che conosci un po' sì e un po' no. Spesso l'importante non è capire tutto ma percepire il senso; la tecnica ha funzionato, ha tonificato le mie frustrazioni e mi ha fatto andare oltre, portandomi alla convinzione che il Signor Gadda è stato uno dei nostri più grandi romanzieri. Complesso, poetico, ironico, colto, nevrotico, sensibile, acuto, grottesco: in poche parole un genio del nostro tempo. Un ingegnere col vizio del multiskill, capace però di fermarsi un attimo e regalarci una meravigliosa descrizione della città eterna:
Roma gli apparì distesa come in una mappa o in un plastico: fumava appena, a porta San Paolo: una prossimità chiara d'infiniti pensieri e palazzi, che la tramontana avea deterso, che il tepido sopravvenire di scirocco aveva dopo qualche ora, con la cialtroneria abituale, risolto in facili imagini e dolcemente dilavato. La cupola di madre-perla: cupole, torri: oscure macchie de' pineti. Altrove cinerina, altrove tutta rosa e bianca, veli da cresima: uno zucchero in una haute pate, in un mattutino di Scialoia. Pareva n'orloggione spiaccicato a terra, che la catena de l'acquedotto claudio legasse... congiungesse... alle misteriose fonti del sogno.
Codex



12.5.06
Pino Cacucci, Mastruzzi indaga
Un investigatore sui generis, un tizio piuttosto male in arnese che vivacchia sul limitare tra l'autoconfinamento e l'emarginazione vera e propria. Dei casi che non sono tali, in quanto non risolvibili; una città di contrasti economico-sociali, ingiustizie e miserie ordinarie e straordinarie, ma comunque trattate senza enfasi.
Una serie di raccontini che stupiscono per come riescono ad abbinare brevità e compiutezza. Il meccanismo del poliziesco che funge da grimaldello per scardinare i mascheramenti della realtà urbana circostante. Svelandone la quotidiana amarezza, si propone l'unico parziale antidoto: umanità dai modi bruschi e scostanti ma autentici, senza permettere al disincanto di deragliare in cinismo.
Giulio Pianese, ovvero Zu



3.5.06
Recensione inviata da Gianpaolo Armani
La violenza di Isidoro Cavada - il protagonista di Seme di metallo, l'ultimo romanzo di Maurilio Barozzi (ed. Curcu & Genovese, Trento, pp. 216, euro 14), ambientato nel Trentino del 1920 - è la violenza della natura e degli esseri terreni. Cavada, il forestiero che arriva in paese al termine della Grande guerra senza una storia, sembra uno spirito malvagio, piuttosto che un uomo. O, vista la sua predizione, un animale che ha la capacità di avvertire le disgrazie. Eppure, nonostante tutto, il meschino ambiente in cui si trova ad agire non lo smarca completamente facendolo risaltare come un personaggio negativo in un contesto positivo. "Figliolo, non vorrai che venga giù ora, lasciando qui il poiàt col fuoco, allora sì che lo ritrovo, il carbone. Ci sono in giro tanti di quei ladri, e violenza... Tanta violenza. Non la userai mica per far del male, quella zappa?", dice il fabbro mentre costruisce la carbonaia. No, in una terra boscosa, in cui spiccano gli elementi naturali, duramente stilizzati, gli unici valori sociali sui quali questo vagabondo è misurato dai paesani sono quelli della frequentazione della messa o della voglia di lavorare. Una terra che, ironia della sorte, sarà poi violentata e sformata da una fabbrica enorme, estremo simbolo del lavoro.
Lessi il manoscritto già nel 2002, in occasione della sua premiazione al concorso Pungitopo, nelle Marche, con il vecchio titolo di "Vergine in Bilancia", e già allora espressi tale considerazione, ma adesso, con questo titolo più gelido del ghiaccio e alcune modifiche strutturali, penso che l'importanza dell'ambientazione cresca notevolmente. Anzi, oltre a Cavada e la fabbrica di alluminio, direi che proprio l'ambiente è il vero protagonista del romanzo. Pure la struttura, che ricorda le narrazioni orali da osteria, portate avanti senza troppo ordine né consapevoli prese di distanza, riproduce tale sensazione. E il finale suggerisce di considerare l'autore come il semplice estensore di una vicenda nella quale egli stesso è compreso, annullando la cesura tra chi narra e chi è protagonista.
L'ambiente, dunque. Un ambiente che pare rifiutare il progresso e l'ignoto. Un ambiente conservatore che - in ultima analisi - trova proprio in questo essere conservatore la forza di mantenere coesa la sua popolazione, i suoi abitanti, la sua comunità. Anche quando, e qui si annida la critica, magari non dovrebbe esserlo.
E così: nella terra del romanzo, la novità - sotto forma di una fabbrica o di un forestiero che la predice - stenta a trovare spazio. Come se quella terra fosse freddamente distaccata, di metallo appunto. Il caso però, forse ancora più violento degli uomini e della terra in cui Seme di metallo è ambientato, fa sì che le novità che fanno capolino in paese siano effettivamente temibili. In primo luogo il forestiero che predice la sventura di un'alluvione (e la nascita dello stabilimento), sopravvive rubando e commettendo crimini abietti senza alcun rispetto per la morale, l'etica e la cultura del paese che gli ha dato asilo. Ma pure la fabbrica di alluminio che portò lavoro, certo, ma anche un carico di malattia e di diseconomie dalle quali il paese non riuscì a liberarsi, nemmeno dopo la chiusura: venticinque anni di improduttività e una pietraia di 22 ettari (come spiega l'autore nel sito del libro).
Insomma, la forza del romanzo sta proprio nella descrizione di un mondo arido e compatto anche nei suoi pregiudizi. E il suo pessimismo, quasi nichilismo, forse, scaturisce dalla casualità che rende tali pregiudizi tragicamente veritieri. Quasi come se la natura umana fosse governata da forze maligne che non permettono nemmeno la speranza nel riscatto. Scrive Maurilio Barozzi nell'ultimo dei brevi flash contrassegnati da una data: "Ora LA FABBRICA, nata in quel giorno di piena quando Virgo toccò Libra, dorme. Ma la piena tornerà, la pietra sarà risvegliata dalla mano dell'uomo che - delirante - penserà di averla creata. Invece sarà solo un'altra storia".
E anche il colpo di scena finale, sovvertendo la dinamica che pareva essere dietro alla trama raccontata in un'ennesima nuova verità rimasta fino ad allora nell'ombra, contribuisce ad alimentare il pessimismo. Nello stesso tempo, tale rivelazione, l'unico elemento di dolcezza - possiamo chiamarlo così? - suona quasi come un'ultima confessione, l'estremo tentativo che l'uomo, giunto alla fine della sua vita, mette in atto per salvare se stesso e il mondo che lo circonda. E probabilmente non è ininfluente il fatto che tale tentativo, in un mondo essenzialmente dominato da un'umanità gelidamente virile, sia messo in atto da una donna.
Gianpaolo Armani



12.4.06
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Luciano Bianciardi, La vita agra, Rizzoli 1962
Opera dai molti punti di contatto con la biografia dello scrittore, e forse per questo tendente a dilungarsi in dettagli non indispensabili quanto a darne altri per scontati, La vita agra di Luciano Bianciardi è comunque un romanzo scorrevole e scritto in un bell'italiano: musicale, vivo e denso di toscanismi. Il dubbio che resta, una volta terminata la lettura, è semmai un altro: ma cosa aveva di tanto agro, la vita in questione? Lavorare cinque ore al giorno a delle traduzioni insieme alla tua ragazza, tu spaparanzato sul letto vocabolario alla mano, lei seduta a scrivere. Sveglia alle dieci, due o tre caffè in vari bar della zona, lettura quotidiano. Pennichella pomeridiana. Passeggiata serale. Rispettive letture. Verso mezzanotte si va a letto. D'accordo, un po' di ore settimanali vanno perse per dar retta a creditori, esattori e "tafanatori" vari, nonché per spartire i soldi delle sigarette, quelli per le rate del mobilio, quelli per il ginecologo della fidanzata, quelli che vanno alla moglie e al bambino rimasti al paese natio, ma tutto considerato, siamo onesti: sarebbe da metterci la firma.
Insomma, quello che prestando ascolto a contemporanei e studiosi della sua opera era motivo di frustrazione per Bianciardi - l'aver scritto un libro arrabbiato che non aveva fatto arrabbiare nessuno, anzi gli aveva dato il successo e spalancato le porte dei salotti buoni - è il principale limite di La vita agra: un romanzo astioso, forse, disilluso, ma tutt'altro che scomodo o eversivo.
Dopo un incipit piuttosto lento, che come altre parti del romanzo si abbandona a una digressione/sfoggio di erudizione non indispensabile al progredire della storia, veniamo calati in un'atmosfera di calda rievocazione autobiografica. Dopo aver seguito come giornalista le condizioni di lavoro dei minatori maremmani e le drammatiche vicende legate a un'esplosione di grisú in un pozzo, il protagonista abbandona moglie e figlio per trasferirsi a Milano. Il motivo è una non meglio precisata "missione", che prevede di far saltare, fisicamente o metaforicamente, "il torracchione di vetro e di cemento" da cui si è deciso delle sorti di quei minatori.
Presto accantonata a favore di una bohème vicina a I giorni di Clichy di Henry Miller, questa "missione" suona più come un espediente narrativo che una ragione di fondo dell'opera. Se ne riparlerà solo verso la fine, quando il narratore smetterà per un attimo di preoccuparsi delle bollette, delle "segretariette secche" che gli tocca vedere in centro ogni volta che va a consegnare il lavoro e del rischio di ammalarsi di bronchi senza copertura sanitaria, per abbozzare una terrificante utopia regressiva: fatta tabula rasa del settore terziario e del secondario, abolita la plastica, con un po' di impegno si riuscirà anche a dimenticare come si coltiva la terra. Si godrà dei suoi frutti spontanei. Anzi, ancora meglio: si rinuncerà al ferro. Le auto e gli altri utensili verranno abbandonati come carcasse ai bordi delle strade e scherzati dai bambini. In assenza di rasoi, gli uomini avranno barbe lunghe. Le donne saranno finalmente libere dai pregiudizi estetici dell'epoca e potranno ingrassare. Sarà una società di improvvisatori eloquenti e specializzati nell'arte di monologare per strada. Facendo a meno anche della carta, la letteratura sarà tramandata per via orale, e quindi sopravviveranno solo i capolavori.
In uno scenario simile, comunque più da incubo che da sogno, La vita agra non ci sarebbe pervenuto. Non sufficientemente convinto della strada imboccata, cerca di puntellare la "storia di vita vissuta" con inserti storici o sociologici che non bastano a farne un romanzo-pamphlet. Pochi dialoghi, e nemmeno memorabili. Un registro costantemente altalenante tra diario e invettiva qualunquista contro una Milano fatta di nebbia, traffico, supermercati, donnette smunte e iperattive. Bersagli più che condivisibili, quelli scelti da Bianciardi, ma è la scrittura a non essere sempre un'arma acuminata. Certo, il congegno tiene, e soprattutto nella seconda parte si volta pagina con una certa facilità. Manca però la magia. Mancano personaggi memorabili cui affezionarsi. Manca insomma la capacità, che invece hanno i romanzi di John Fante o dello stesso Miller, di partire da una storia piccola per affrontare a viso aperto i temi che contano.
Matteo Ferrario



6.4.06
Chitra Banerjee Divakaruni, La maga delle spezie (traduzione di Federica Oddera)
Scrittura forte, temi definitivi, atti decisivi connotano un romanzo intriso di magia e concretezza, un racconto capace di evocare e comunicare l'intensità di ogni singolo gesto e pensiero, attraverso un linguaggio che con naturalezza sa rendere poesia la sua diretta semplicità.
La storia è quella di una donna che ha rinunciato alla normalità dell'esistenza per diventare maga. È un sortilegio a traslarla dall'India natìa all'America, dove lotterà con determinazione facendosi tramite umano per portare l'aiuto soprannaturale a chi ne ha bisogno. E dove si troverà a fronteggiare la prova più difficile sapendo di dover resistere al travolgimento di un amore proibito.
Aspre dicotomie si propongono in modo anche drammatico: due mondi apparentamente inconciliabili sono India e America, sacro e profano, spirito e secolo, tradizione e modernità. Tuttavia, possibili sintesi si intravedono tra gli opposti grazie alla commistione culturale e alla conciliazione transgenerazionale, grazie alle spezie che sono spiritualità e materia insieme, grazie all'anima che si esprime attraverso il corpo. Corpo vivo e presente nella mutevolezza delle sue forme e dei sensi, che abbracciano e illustrano colori, sapori, aromi, profumi.
Tra gioie e dolori altrettanto ardenti si vive il dramma di doversi decidere, sballottati tra libero arbitrio e sottomissione all'ineluttabile, con la consapevolezza che in qualche modo si pagherà per le scelte compiute. Un percorso interiore che va di pari passo con le tensioni esterne, acuite ad arte da una scansione temporale che trasmette il senso dell'incombenza accelerando sapientemente l'accavallarsi degli eventi.
Giulio Pianese, ovvero Zu



10.2.06
Sandrone Dazieri, Attenti al gorilla
Si divora in avida scioltezza, grazie al linguaggio immediato e alla storia che funziona senza strafare.
Moltiplica l'interesse un protagonista doppiamente caratterizzato e che ha di certo titolo all'uso del plurale, ma anche gli altri personaggi sono delineati in maniera abbastanza efficace.
L'investigazione si svolge tra la Milano dei centri sociali e la Brianza dell'alta borghesia, ambienti rispettivamente contornati da reietti quali i punkabbestia e rettili quali gli sfruttatori. In assenza di supereroi, con realismo e verosimiglianza (a parte la questione del "socio") si racconta il barcamenarsi senza menarsela di chi conserva viva sul fondo della carcassa una coscienza capace di contrastare il marciume immenso frapposto tra l'ingiustizia e la verità.
Giulio Pianese, ovvero Zu



22.1.06
Recensione inviata da Ettore Gabrielli
Emma Cannavale, Di storie, magie e altri demoni
Emma Cannavale vive la scrittura come una pulsione quasi incontrollabile, un bisogno di creare vite, mondi, fantasie; è lei stessa a sottolinearlo nell'introduzione a questa sua prima raccolta di racconti che conferma pienamente, nel bene e nel male, questo approccio.
Il linguaggio dell'autrice è spontaneo, ricco, a volte travolgente nella volontà di immergere a viva forza il lettore nel suo immaginario. Il rovescio della medaglia è il rischio di lasciare alle parole il sopravvento sul racconto, di amarne eccessivamente il suono a scapito dell'economia delle storie. Per buona parte del libro, fortunatamente, la scrittura si presenta equilibrata, efficace e diretta, ma senza perdere di ricchezza; un giusto equilibrio tra descrizione, pensiero e azione che valorizza il registro stilistico dell'autrice senza cadere in eccessi. Questi racconti intrecciano il quotidiano con la fiaba e la poesia, evidenziano una spiccata attenzione all'introspezione dei personaggi e una manifesta voglia di rendere in maniera forte e concreta sensazioni, emozioni, aspetti del mondo attraverso la sensibilità dell'autrice.
Non tutti i racconti qui presenti sono perfettamente riusciti; alcuni appaiono piccoli spunti incompiuti (Capriccio, Flatus Vocis, Dalle 8 alle 17); altri si limitano, sotto la forma ricca della scrittura, a piccoli racconti o favolette che scivolano senza incidere particolarmente (La spettatrice, Finn). Con l'eccezione della brevissima e romantica "fuga" di Sulla luna, è piuttosto nei racconti più lunghi che emergono le qualità dell'autrice.
La partita, ad esempio, presenta un'interessante costruzione narrativa: frammenti di racconti slegati tra loro, diversi per protagonisti, luogo e tempo, sono uniti dalla presenza dello stesso pezzo degli scacchi, un vecchio cavallo di legno intarsiato, che attraversa i secoli e le mani dei vari attori; quasi un muto simbolo del caso, degli incroci invisibili del destino. Questi brevi intermezzi formano così un quadro unito e coerente, tenuti assieme con una naturalezza e semplicità sorprendenti.
Dalle nuvole è un toccante racconto dove protagonista è un ragazzino che sta attraversando quel periodo di incomprensibile magia della crescita, in cui la vita inizia ad affacciarsi tra i giochi di fanciullezza. Il libraio inizia in tono lieve, immedesimando il lettore in un personaggio che si rivelerà tutt'altro da quello che appare, con un colpo di scena d'effetto che spiazza anche per il distacco dal tono e dalle tematiche mostrate nelle altre storie.
In chiusura di volume si trova infine Salpetriere, diario di una donna rinchiusa in un ospedale psichiatrico e dei suoi sogni di fuga, a rappresentare una giusta summa dell'immaginario dell'autrice; con i suoi racconti Cannavale sembra infatti voler costruire un unico universo, nel quale il confine tra la realtà e la fantasia dei sogni o delle fiabe diventa labile, indefinito, dove il fantastico emerge senza bisogno di spiegazioni, solamente per esistere e mostrare come possa esserci una strada per comprendere meglio la vita e il proprio spazio.
Si riceve da questi racconti la sensazione rassicurante dell'esistenza di una magia benevola (che si avverte ben più forte di quella maligna e diabolica), di miracoli capaci di salvare, di consolare, di placare le paure dell'animo. Ma questa consapevolezza è al contempo dolorosa e malinconica, una volta rapportata alla sua assenza nel mondo oltre queste pagine.
Da qui l'impressione che il messaggio finale che l'autrice dissemina tra le sue parole, sempre che se ne voglia trovare uno, sia una esortazione a guardarsi intorno, a cercare quegli incanti da lei narrati; ma, soprattutto, a crearsene di nuovi ogni giorno.
Indice dei racconti: Oltre; Dall'alto; Sirene; Finn; Sulla luna; La spettatrice; La partita; Flatus Vocis; Dalle 8 alle 17; Dalle nuvole; Capriccio; Il libraio; Salpetriere.
E.G.



10.1.06
Antonio Skármeta, Il postino di Neruda (traduzione di Andrea Donati)
Mamma mia com'è seccante leggere un libro dopo aver visto il film, questo libro dopo quel film: anche se di tempo ne è passato parecchio, alle scene e ai personaggi fatti di parole si sovrappongono le immagini fissate sulla pellicola. Sorgono in continuazione importuni paragoni e il rischio di perdere il ritmo e il sapore propri del (bel) romanzo che si sta leggendo non è trascurabile.
La storia narrata si nutre di poesia e fisicità, parole d'amore e sensualità sudata, fatiche di mente e di corpo analogamente premiate con l'apice della passione. Mario Jiménez pende tanto dalle labbra del Poeta quanto da quelle di Beatriz, travolgente bellezza locale. La via dei versi gli si erge innanzi quale rocca insormontabile, ma il varco dei sensi stimolerà gli sforzi tesi a una superiore dimensione espressiva.
Il suo alter ego cinematografico appariva meno prestante, ma come predestinato, forse perché Troisi, nella sua delicata malinconia, era poetico già nell'essere. Degli altri personaggi, la madre "guardiana della soglia", pur semplice e pratica, nel libro si distingue per la sua conoscenza dell'opera di Neruda, a testimoniare forse quella poeticità cilena diffusa cui accenna altrove anche Jodorowsky.
Sullo sfondo delle vicende personali, si ode il rimbombo ottuso dei potenti di sempre, che passano dalle blandizie alla dura opposizione, dalle scorrettezze al maledetto golpe. A patirne le conseguenze sarà non solo il poeta dell'amore, alle prese con l'impegno politico diretto nella gloria e nella disgrazia, ma anche chi più che le parole fa gorgogliare l'amata, non venendo meno all'ardente pazienza che lo anima.
Giulio Pianese, ovvero Zu



9.1.06
Riflessioni inviate da Silvia Colangeli
Lo sbrego di Antonio Moresco
La Letteratura non è un mito!
"Io non ho mai letto niente". Proprio così comincia il saggio di Antonio Moresco sulla lettura, commissionatogli e edito dalla Scuola Holden di Alessandro Baricco.
"Per me leggere non è leggere" continua qualche riga dopo. Non è qualcosa che si fa nei ritagli di tempo, prima di andare a letto, in metropolitana o in autobus, seduti semplicemente in poltrona. È qualcosa di più per Moresco. Di misterioso, di incredibile: "quella cosa che da qualche parte c'è, anche se non so cos'è". Afferma di volersi avvicinare il più possibile, attraverso questo saggio, a quella cosa inspiegabile.
Leggere è un'attività prettamente umana, scaturita da un processo culturale iniziato migliaia di anni fa. Ma ancor prima, sostiene Moresco, frutto di un'evoluzione biologica, se non addirittura chimica: "quando si sono formati gli elementi primari che hanno dato vita al nostro pianeta, sono sorti i componenti chimici che, nell'arco di miliardi di anni, sono diventati infine la materia fluida a cui abbiamo dato nome di inchiostro che lascia il segno su una superficie di carta".
Per meglio farci comprendere la straordinarietà e allo stesso tempo l'assurdità che spinge gli uomini a stare fermi di fronte a un oggetto inanimato e stratificato senza fare assolutamente nulla, Moresco adotta il punto di vista di un cane: "Cosa cavolo gli sarà successo", par domandarsi il bassotto di Moresco, osservandolo di fronte a un libro a gambe spalancate: "Eppure non sembra morto!".
La misteriosità di questa azione umana, questa morte apparente, viene condensata da Moresco nella parola impiegata come titolo: sbrego, termine altrettanto criptico. Cercando sul programma Thesaurus i suoi sinonimi, scopro che egli ha voluto condensare in "sbrego" tutti i significati possibili del termine. Leggere è infatti un'esperienza esaustiva (sbrigo), un corrosivo grattare (sfrego), qualcosa che incanta (strego).
Moresco confessa di aver iniziato relativamente tardi, di essere un cosiddetto "lettore forte" soltanto da alcuni anni; dimostrazione che non è mai troppo tardi per cominciare. D'altronde, egli è già emblema della speranza di ogni aspirante scrittore di arrivare alla pubblicazione: ha esordito a quarantatre anni con un romanzo intitolato proprio Gli esordi.
Fatica molto per ricordare il primo libro letto; evento che, in quanto a rivelazione e piacere, paragona alla prima volta che si è chiuso in bagno a masturbarsi. Fu un libro di Salgari, gli sovviene d'improvviso, un titolo non più in commercio, introvabile, che leggeva clandestinamente in seminario (in uno sperduto convento vicino a Mantova), fingendo di meditare su Ave Maria e Padre Nostro, in un periodo della sua rocambolesca vita in cui era stato conquistato da una fervida fede religiosa, così come sarà poi per il grande ideale comunista.
Dopo aver concluso la telefonata con il suo redattore, Dario Voltolini, anch'egli scrittore e volto noto dell'editoria contemporanea, avergli ripetuto più volte di non poter scrivere un saggio sulla lettura, poiché in realtà egli non crede di aver mai letto niente, il telefono squilla di nuovo. È proprio Emilio Salgari all'altra parte della cornetta. Voltolini possiede una serie di voci campionate, ipoteticamente appartenenti agli scrittori che sa amati da Moresco; le usa per incalzarlo a scrivere questo libro. Dopo Salgari, infatti, sarà la volta di Stendhal, Cervantes, Céline... il saggio è costruito sul ritmo di queste chiamate dall'aldilà, dal paradiso degli scrittori.
Quando pensiamo ai grandi autori, quelli citati da Moresco, complice anche il modo in cui li abbiamo studiati a scuola, pensiamo a loro come a dei mostri, personaggi leggendari, storici, mitici, le cui opere hanno un carattere quasi sacro. Pur riconoscendo in questo modo la loro grandezza, allo stesso tempo non facciamo che disumanizzarli, allontanarli, decretarli davvero morti e sepolti. Il complesso di inferiorità che soggiace a questo pensiero, ci spinge a non sentirci mai pronti per affrontarli.
Moresco, invece, immagina di parlare al telefono con Stendhal. Di aver piacevolmente conversato con Kafka davanti a una birra, di aver bevuto vodka con Cechov, mangiato una fetta di torta ai lamponi preparata dalla Dickinson. Così, scopriamo che questi mostri della letteratura erano ancor prima uomini e donne, che grossomodo avevano i medesimi problemi della nostra vita quotidiana, che amavano, soffrivano, che, proprio come noi, hanno fatto errori e sopportato rimpianti. Le loro opere diventano confessioni, svelamenti, spesso grandi superamenti di sé, ancor prima che capolavori letterari.
Questo processo di smitizzazione trova il suo culmine, e mezzo più efficace, nella derisone caricaturale di alcuni evidenti difetti fisici: "I baffetti del cazzo" di Salgari, la voce nasale di Stendhal, i suoi occhi "conficcati in quel testone scimmiesco tutto pieno di riccioli e di basette arricciate col ferro", Kakfa e le sue enormi orecchie a sventola, "formidabili sculture ossee ai lati della testa". Queste prese in giro finiscono per distruggere l'idea dello scrittore specchio e immagine della grandezza e bellezza delle sue opere. Melville non era altro che un ex mozzo, Faulkner uno "sbarellone", Walt Whitman un "pederasta vagabondo", Flaubert "un meraviglioso bietolone normanno che non aveva paura di stare fermo a trapanare la vita". Un "povero nevrotico epilettico ed ex deportato" scrive Delitto e Castigo, I fratelli Karamazov, "un effeminato buono a nulla" scrive La recherche, un irlandese "sradicato alcolizzato e un po' debosciato" scrive l'Ulisse, "una testa di cazzo austriaca piena di sé come un uovo" scrive L'uomo senza qualità, un impiegato di banca "molto, molto imbrillantinato" scrive La terra desolata. Nei confronti di Céline Moresco non ha ritegno né alcuna pietà. "Gente fuori posto che aveva sbagliato tutto" scrisse grandi capolavori.
Il senso di questa operazione distruttiva, a mio avviso, sta nel trasformare la letteratura in un incontro; per questo Moresco afferma di non aver mai letto nulla in vita sua. Egli ha solamente incontrato altri esseri umani.
Sebbene in realtà non abbia mai bevuto una birra insieme a Kafka, leggendo Il Castello, Il Processo, le Lettere a Milena, è come se l'avesse fatto. E Kafka diviene un "dolce amico", sempre pronto a cogliere il punto nevralgico di ogni cosa, "l'amico più grande, indistruttibile". Moresco racconta di "sentirsi a casa" tra le sue frasi, nelle sue "parole semplici, indiscutibili, impenetrabili, limpide", sensazione che ha provato soltanto con Leopardi. In un momento di sconforto, descritto nel saggio, che in alcune parti assomiglia più a uno scritto autobiografico, confessa di voler morire bruciato con I Canti nella tasca dei jeans; una vecchia e usurata edizione Zanichelli che porta sempre con sé. "Leopardi è stato l'amico della giovinezza e dell'intera vita. Il primo ed ultimo amore".
Così, anche la lettura viene depurata da tutti quei luoghi comuni che la fanno apparire noiosa, statica, un'attività culturalmente alta e appartenente solo a certi ceti sociali, qualcosa da fare in salotto alla luce di una bella lampada, bevendo una tazza fumante di the. Moresco confessa di aver letto i più bei libri, di aver fatto gli incontri che hanno cambiato la sua vita, seduto su un water, su una moquette impregnata di piscio, con le trappole per topi che scattavano nel silenzio della notte.
"Ci sono libri, o per meglio dire universi fatti intravedere per un istante in qualche fugace forma alfabetica, talmente ricchi che non se ne può perdere un palpito, una parola, un respiro. Io non lo so, ma certe volte, da qualche piccola cosa narrata, mi arriva, mi si apre una fessura che mi fa intravedere [...]".
Così come immagina di esser potuto andare d'accordo con Kafka, Cechov e Cervantes, dalla sola lettura delle loro opere, è altrettanto certo che con altri autori non avrebbe fatto che litigare, pur amando profondamente i loro romanzi o poesie. Con le donne, invece, ne è certo, avrebbe avuto meno problemi. Avrebbe amato "la ferina" Emily Bronte, scrittrice ribelle "con la faccia da lupa e da cagna della letteratura", trovato adorabile Virginia Woolf, non appena abbandonato "quel gheriglio di signora intellettuale vittoriana e modernista con la puzza al naso e un po' snob", e anche l'altra Emily, "l'americana", la Dickinson, quella "donnina nevrastenica e combattente", piena di solennità, tenerezza e pensiero.
Soltanto davanti a Goethe, Dante e Shakespeare, Moresco stesso dimostra di soffrire di quel complesso d'inferiorità di cui noi tutti soffriamo, ciò per cui credo abbia scritto questo libro: per tentare di estinguerlo. Egli non se la sente di parlare al telefono con "quel letterato di corte di sessant'anni, tronfio, che si spostava irrigidito come un busto, che ha scritto una cosa così profonda e così leggera, e così atroce come Le affinità elettive".
L'incontro con questi grandi autori e opere del passato lo porta inevitabilmente, e in modo assai facile, a inveire contro "la merda" pubblicata negli ultimi decenni. "Tutte queste povere larve vestite che dirigono collane editoriali, coi loro omologhi che scrivono libri consentiti e richiesti, obbedienti allo spirito del tempo e ai suoi conformismi e alle sue piccole gratificazioni medianiche ed economiche, morti viventi, feti normalizzati e allevati, con le loro piccole carriere, le loro scalate [...]". Moresco confessa di trovarsi più a suo agio con gli extracomunitari che ogni notte bivaccano sbronzi sugli scalini del Duomo di Milano, piuttosto che con tutta quella gente che gira intorno ai libri.
Dopo aver descritto questo quadro nero dell'editoria contemporanea, egli specifica immediatamente, a scanso di equivoci, di non aver comunque smesso di credere nella letteratura, da sognatore, da stupido, da stupido sognatore qual egli è.
Al popolo degli stupidi sognatori Moresco dedica questo libro.
Silvia Colangeli



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