Letture e riletture


31.3.05
Recensione inviata da Dontyna
Appena ho finito di leggere Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber ero troppo sconvolta per scriverne. Così mi sono data un po' di tempo, ma l'effetto collaterale non è scomparso. Meno male, dato che parliamo di un libro che, uscito in Inghilterra nel 2002, ha venduto più di 4 milioni di copie ed è stato tradotto in 22 paesi (in italiano, da Elena Dal Pra e Monica Pareschi per Einaudi). Dunque almeno 4 milioni di lettori non si sono lasciati scoraggiare dalla mole del volume e hanno accettato l'invito del narratore, che si rivolge al lettore interloquendo direttamente con lui, a lasciarsi trasportare per 985 pagine nell'atmosfera vittoriana della Londra del 1875: "Attento. Tieni la testa a posto: ti servirà. La città in cui ti conduco è vasta e intricata, e tu non ci sei mai stato prima" [...] "All'inizio, quando mi hai scelto, non ti sei reso conto fino in fondo delle mie proporzioni, né ti aspettavi che ti avrei catturato così, e così in fretta".
Dopo questo incipit così allettante è facile perdersi incantati nelle storie dei protagonisti, seguendo il fruscio delle gonne di Sugar, seducente prostituta diciannovenne, per i vicoli sporchi di Church Lane o inciampando in qualche tappeto della sontuosa, ma inquietante dimora del ricco profumiere William Rackam a Notting Hill. La vita di questi affascinanti personaggi si intreccerà inevitabilmente quando Mr Rackam, invaghito dall'intelligenza e dalla maestria delle prestazioni sessuali di Sugar, le propone di giuragli fedeltà eterna diventando la sua mantenuta... Riga dopo riga l'intimità dei personaggi è violata dalla curiosità del lettore, prontamente soddisfatta dalla prosa accattivante dell'autore, che, dopo vent'anni di lavoro e ricerca, ha saputo ricreare al meglio il quadro della società vittoriana inglese dei bassifondi e delle alte sfere aristocratiche.
A libro concluso, vi asscuro che ne sentirete la mancanza e bramerete che la storia continui per altre 100, 200 pagine. Purtroppo, dovrete accontentarvi di rileggerlo e rileggerlo, aspettando forse il film o un seguito (improbabile) che il finale aperto lascia sperare.
dontyna (Coffeeee pleeasee!!!!)



30.3.05
Contributo inviato da b.georg

Antica amicizia elettrica. Omaggio, utilizzo, citazione, parodia, titolazione e link a Oblio, di D. F. Wallace.

Spesso diciamo cose tanto per dire, ma sulla superficie di quello che diciamo si mostrano i nostri modi di pensare, di collegare o separare le cose tra loro e con noi, in definitiva la nostra collocazione. È interessante e ozioso provare a ricostruirle quei modi, cioè smontarli. Oltretutto bisogna sapere che anche questo tentativo di ricostruzione è una cosa detta "tanto per dire", quindi non possiede una verità superiore, ma solo una verità interna, relativa alle regole di questa pratica (pensate che verità relativa sia un ossimoro? In effetti). Potrebbe, anzi dovrebbe, essere essa stessa sottoposta al medesimo trattamento (pensate che un insieme non può contenere se stesso, come fosse oltre il limite della propria definizione? Sembrerebbe proprio così).
Smontare discutendo (diversamente da montare narrando) è un gioco che si fa con celata leggerezza - o evidente pesantezza - e la sua utilità in genere è farci credere di disperdere la nostra inconsapevolezza rispetto agli schemi che usiamo, illuderci necessariamente di man mano scoprirli, recitarne la distanza da noi, e quindi ritrovarsi alla fine apparentemente senza schemi, nudi e che non sappiamo più cosa pensare. Uno strip poker del cervello. E una nudità che tuttavia coincide curiosamente con tutti gli abiti che indossiamo, o meglio: con la nostra possibilità di indossarli, e la riflette, la raccoglie, la lega. Di nuovo contraddizioni. Infatti non dico che funzioni sempre, anzi a ben vedere è un gioco che non funziona mai, per principio, e l'imperfezione è la sua regola di spostamento. Ma era necessario giocarlo. Almeno credo. Consiste nel rinunciare a costruirsi un passato di convenienza? O non è comunque sempre il futuro a determinare il passato?

Spesso invece invochiamo la sincerità. Io non sono tanto sicuro che la sincerità sia un valore. Ognuno sa piuttosto poco di se stesso; come dice il poeta, che qui le citazioni son sempre le stesse, "io sono quello che tra tutti non incontrerò mai" (eppure ne parla, no?). Quindi sincerità sembra che significhi: attingere a un grado più elaborato, anzi più tortuoso, di menzogna, o di costruzione se si preferisce. Costruire è una bella cosa, farlo tortuosamente forse no (che lenza...).
Se fosse davvero possibile essere "sinceri", non si dovrebbe infatti giungere molto presto al silenzio? Ammesso che al fondo non ci sia un nocciolo - un se stesso da sempre deciso - un grumo inesploso da dipanare con interminabile logorrea; piuttosto uno spazio vuoto, la non-cosa che ci permette di farci attraversare, di attraversare e di rimanere in qualche modo coesi, cioè di essere diversi da un sasso, ammesso che sappiamo davvero cosa sia un sasso.
Si arriverebbe a un curioso "silenzio parlante", che poi è stranamente proprio quello del sasso, o dell'animale o di noi stessi nel divenire sassi o animali o altro.

(e sai che stai scrivendo tutto questo perché ti si possa rinfacciare con disprezzo questa assurdità, ti si possa dire la vanagloria di una ricerca che non vuole ammettere la sconfitta, il fatto che hai cercato un significato in ogni cosa intorno a te materiale o ideale senza trovarlo, e poi in te stesso e in una narcisistica e presunta diversità dall'uomo medio comune, in certi aspetti cruciali e superiori, per così dire centrali, significativi, in un fantasticato talento che ti faceva destinato a far differenza nel mondo con la tua centralità presunta e prospettica, centralità costituita dal fatto di essere in realtà semplicemente il centro esatto di tutte le esperienze che hai vissuto nell'intero corso dei tuoi anni di vita cosciente, fino alla decisiva scoperta della tua inesistenza stessa come individuo giocato e destinato, più ancora della tua medietà incurabile, e allora hai deciso - questa è il centro dell'accusa cui ti sei apparecchiato - di cercarlo grossolanamente diremmo nelle non-cose, nel nulla, nell'assenza inutile e nello sfondamento, come se un significato a tutti i costi si potesse cavare dallo zero se non si può dall'uno; e sai soprattutto che stai scrivendo questa confessione verbosa tra parentesi per sviare ancor più le tracce usando smaccatamente le parole di un romanzo alla moda, tic di filosofi mai stati troppo di moda e altro ancora qui incastonato tra una riga e l'altra e rapinato persino dai giornali e ora come non bastasse - e infatti non bastava e l'hai detto - stai facendo conseguente e didascalica autodenuncia al plagio stesso, quasi ad alludere - e a smentire l'allusione col rivendicarla alla luce del sole - che tutta questa premura che dallo scritto trasuda verso una direzione possibile anche fosse una non direzione o la circospetta anatomia della propria direzione la stai torturando con tecniche da rigattiere post-moderno dentro lo scritto e rinviando all'infinito, la stai immergendo nell'incurabile inconcludenza e la mostri stupidamente fiero come il pescatore solleva in trionfo il pneumatico in disuso appeso all'amo, quando tutti se ne sono già andati via intoni il tuo estenuante karaoke)

Ma non è a questa sincerità che si pensa quando si invoca la sincerità.
Ciò cui si mira è un tentativo di scuoiarsi per vedere "cosa c'è sotto", e scuoiarsi è un'attività complicata, che oltretutto sporca il soggiorno. Ma "dentro" probabilmente non abbiamo segreti, solo gli organi interni, il dentro è tutto fatto di fuori. Ciò che ci accade e che siamo, è tutto in superficie, perfettamente visibile: una visibile e determinata modulazione di carne. Siamo già nella verità, e come non potremmo? Non serve cercare di entrare negli altri, dato che noi siamo già negli altri, e nel contempo separati da essi, da sempre o anche prima, oppure non sapremmo per esempio parlare o fare un sacco di altre cose che normalmente facciamo "con" gli altri, dentro e fuori dagli altri, tra cui primariamente desiderare, soffrire ed essere indifferenti.

È assai probabile che se tutti provassero a essere sinceri in questo secondo e vano modo, singhiozzando uno nelle braccia dell'altro a tarda sera e tirando fuori le paure private più terrificanti e i pensieri di fallimento e impotenza e le terribili piccinerie bell'e buone, denuncerebbero, "dietro" ai propri atti, sentimenti comuni: passione, invidia, vanagloria, paura, senso di vuoto, desiderio di compiutezza, piacere, narcisismo, pietà e così via. Non credo scoprirebbero niente di nuovo. Ora, questo sarebbe "vero"? Cioè: il vero di noi è ciò che ci fa coincidere con noi stessi? Detto diversamente: saremmo con ciò "più vicini" a noi stessi o agli altri? Ammesso che sia desiderabile: non è forse il permanere di una distanza ciò che permette di articolare una relazione? Potremmo scoprire le rispettive colpe o mancanze e i rispettivi punti di solidità, i pregi a cui cercare di somigliare o gli insormontabili difetti che ci condannano; ma cosa distinguerebbe questa volontà di sapere circa noi o gli altri, dalla volontà di possederli o possederci? E c'è impegno più complicato, tortuoso, impossibile e inutile che tentare di possedere qualcuno o se stessi?

Inventare un discorso su di sé per giungere a un "qualcosa", a un dato, a un "vero-di-sé" collocato dentro di noi che ci faccia permanere nell'essere che siamo, significa a ben vedere sottoporsi a un giudizio etico già deciso, già stabilito, già regnante e a cui si deve uniformare il discorso, su ciò che è bene e ciò che non lo è; e questo giudizio è una profezia che si avvera, cioè ci fa diventare ciò che il giudizio decide sia "essere una persona", quindi magari avere passioni negative, o positive o qualsiasi altra cosa. Niente di male, in sé.
Credo però che quell'attività prepotentemente tautologica che è la costruzione di comuni modi di vivere-assieme, non consista nello scoprire la rispettiva verità, che è già tutta alla luce del sole (o non sarebbe) ma nel costruire forme di transitare gli uni negli altri. Riti, se si vuole chiamarli così. Forme pienamente vuote. Agio, anche se spesso disagio.
Scrivere può anche essere uno di questi riti che, come gli altri, ci fa diventare ciò che già siamo, spostandoci tuttavia impercettibilmente di lato e aprendo una nuova distanza. Non per costruirci sopra la nostra sincera verità. Per distruggerla, magari.

Non ci sono ovunque serrature, né chiavi, solo porte girevoli e noi tra gli altri siamo queste porte. È sensato pensare che meno la porta è ostruita, più assolve alla sua funzione di transito. Scrivere è dunque forse un modo di scartare, e lo scritto è uno scarto. Quando lo diciamo bello è perché parla di sé (parlando d'altro) e piegato amorevolmente su di sé, si narra. Così possiamo alla fine persino amare noi stessi, e il nostro corpo che piega e segna il mondo, operazione la più ovvia e complicata di tutte.

b.georg (falso idillio)



29.3.05
Recensione inviata da Davide L. Malesi
Leggete Estate, di René Frégni. È una storia d'amore e di morte e si può leggerla in un'ora circa, salvo poi tornarvi (io ho già deciso che vi tornerò). Non fatevi ingannare dall'etichetta in copertina: Noir. Ultimamente va assai di moda questa etichetta: e va bene, i libri bisogna pur venderli. Ma dire che Estate è soltanto un Noir è riduttivo, Estate è una storia d'amore e di morte (scusate se è poco). Storia d'amore e di morte con una bella sventagliata di ossessioni, angosce, tormenti, fallimenti, errori che saltano fuori, esplodono lungo il percorso, d'illusioni che si perdono lungo il percorso. Estate è, senza mezzi termini, un romanzo pieno di cose terribili. La protagonista femminile, Sylvia, a pagina 113 dice cose terribili. Vi strazieranno, quelle frasi lì, se avete mai amato in vita vostra. Qualunque sia il significato che date alla parola: amore. E il protagonista maschile, l'io narrante, a pagina 134 dice: "... il dolore non rende buoni. Le vittime di ieri sono spesso i mostri di oggi". Che a me sembra una cosa terribile. A voi, non so. Comunque.
L'azione si svolge nel sud della Francia. Forse per un che d'incalzante e di affannato nella narrazione, è come una folata di vento che trasporta polvere, miserie, la cenere delle nostre illusioni e pure qualche cosa d'imponderabile e prezioso, com'è il gesto - o il temperamento, o la necessità, o quel che vi pare - di essere pronti a tutto per amore. Pronti a tutto. Vorrei a questo punto precisare che Estate è, per i primi sei capitoli - fino a pagina 106 - un romanzo spaventosamente prevedibile. Sappiamo quel che accadrà perché ci sembra inevitabile, ci sembra già scritto. C'è un uomo, una donna, una scogliera (vi s'incontrano l'uomo e la donna), c'è un ristorante (dove lavora l'uomo, e dove l'uomo e la donna s'incontrano per la seconda volta, anzi è lei che viene a cercarlo quella seconda volta), c'è un'estate, c'è il viso della donna - "Avrei potuto dire che aveva tratti fini, regolari?... Erano sconcertanti. Mi respingevano e mi chiamavano. Mi sorridevano e mi insultavano...". C'è il corpo della donna - "... i suoi seni. Minuti, parevano anch'essi arroganti quanto gli occhi" -, c'è che la donna sta scrivendo un romanzo autobiografico, è una cattiva scrittrice, e come certe cattive scrittrici è tuttavia abile a trasformare in romanzo la vita sua e degli altri, se ci si mette d'impegno. C'è che la donna è bella, fin troppo (va detto che una donna difficilmente può trasformare in romanzo la vita degli altri, se non è molto bella). C'è poi un altro uomo. Un uomo, una donna, una scogliera, un ristorante che si chiama Le Petit Farci, l'estate, il viso della donna, il corpo di lei, un altro uomo, un brutto romanzo autobiografico - scritto dalla donna - che s'intitola Pasta al pomodoro. E un gran bel romanzo che s'intitola Estate.
Aggiungo per amor di completezza che se Estate è, per oltre cento pagine, un romanzo spaventosamente prevedibile, fa presto a cambiar registro. E a diventare un romanzo spaventosamente imprevedibile. Restandolo fino alla fine, da pagina 107 a 136. Poi: Estate è pure un romanzo spaventoso, tout court. O meglio, è un romanzo spaventoso anche prima di pagina 107. Ci sono dentro sentimenti, angosce, ossessioni, pensieri che fanno paura. E fa paura la freddezza con cui l'io narrante riesce a dirceli. Sapete, noi viviamo in un'età di piccole passioni e di piccoli sentimenti e di piccole vendette e di piccole miserie e di piccole morti. Queste cose - queste piccole cose - sono la vita, la nostra vita, e noi le accettiamo. E invece: la freddezza con cui l'io narrante mette in piazza, condivide con noi, le sue enormi passioni e i suoi feroci sentimenti e le sue turpi miserie e le sue tragiche morti, è a tratti disumana. O meglio: distante dall'umanità nostra. L'io narrante, nonché protagonista, di Estate appartiene evidentemente a un'umanità che contempla enormi passioni e feroci sentimenti e turpi miserie e tragiche morti (senza le morti, tecnicamente parlando, un romanzo d'amore e di morte non si può fare).
Le morti, in Estate, sono due. Una violenta, febbrile, scatenata, notturna. L'altra ancor più violenta, però calma, lenta, gentile, diurna. Poiché la seconda morte non è una morte fisica, la segnalo nel caso a qualcuno di voi sfuggisse: pagg. 131 e 132. Il dialogo nel giardino della clinica psichiatrica. Casomai non ve ne accorgeste subito, pensateci bene e converrete col sottoscritto che quel dialogo è, né più né meno, una morte. E che l'io narrante ci racconta quella morte, ch'è un po' anche la sua, con una freddezza disumana, o più precisamente distante dall'umanità nostra. Poi: la seconda morte ha anche il suo bravo funerale. Poiché è un funerale metaforico ve lo segnalo, nel caso a qualcuno di voi sfuggisse: pagg. 134 e 135. Il dialogo nel ristorante. Casomai non ve ne accorgeste subito, pensateci bene e converrete col sottoscritto che quel dialogo è, per come stanno le cose in Estate, un funerale. E che l'io narrante ci racconta quel funerale, ch'è un po' anche il suo, con una freddezza ch'è assai distante dall'umanità nostra. E per questo forse più umana. Forse si è più umani con enormi passioni e feroci sentimenti e turpi miserie e tragiche morti, che con modeste passioni e modesti sentimenti e insignificanti vendette e miserie dappoco e piccole morti. Mi fermo qui, sono al punto in cui rischio di diventare mistico e probabilmente non mi capireste, perché è sempre difficile entrare nel misticismo di qualcun altro. Leggete Estate, di René Frégni. Storia d'amore e di morte. E concludo: storia d'amore e di morte tradotta magistralmente da Claudia Zonghetti. Anche se l'autore è un uomo e l'io narrante è al maschile han fatto bene a farlo tradurre a una donna, questo libro, mi sa. Spesso le donne riescono a capirle meglio, certe cose.
davide l. malesi



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