Letture e riletture


18.8.06
Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose (traduzione di Chiara Gabutti)
Romanzo denso, in cui frase richiama immagine, immagine parola, parola frase, e ogni episodio ha lo spessore di una fisarmonica chiusa, per cui il racconto in qualsiasi punto potrebbe schiudersi quasi all'infinito. Vita sparsa a piene mani, senza indulgenze; e senza indulgere si succedono e s'intrecciano le descrizioni, mentre nell'occhio della mente si accendono riflessioni o dilemmi insolubili sulle dinamiche di interazione del vivere. Che è fatto di piccole cose. Che ospitano in sé le grandi.
Grande è la scrittura: sintetica ed efficace, unica e preziosa, spesso spiazzante, con le similitudini a sgranare una sorpresa dietro l'altra, con le metafore a rispecchiare la ricchezza di uno sguardo che sa cogliere l'essenza alla superficie, restituendo in parole il lirismo ruvido della materia.
L'intreccio procede per quadri dinamici pregnanti in sé, ma il cui senso si riempie grazie al comporsi del mosaico narrativo: così ciascuna vicenda assume significato a tutto tondo nella giustapposizione delle altre, come un dipinto medianico che prenda forma inaspettata a partire da un coacervo di macchie cromatiche.
Un libro da leggere; da leggere e rileggere. Non foss'altro perché alla rilettura si coglie il carattere di ouverture vera a propria del primo capitolo, che annuncia temi e toni dell'intera opera. Opera in cui a capitoli alternati (e poi a sequenze di capitoli) la narrazione procede partendo dal presente (per tuffarsi nella memoria viva come la carne) o dal passato (con puntate via via più esplicite a ciò che sarà dopo).
Ci sono libri che per essere apprezzati davvero vanno assaporati al momento giusto. Se non l'hai ancora letto, spero che quel momento venga presto anche per te.
Giulio Pianese, ovvero Zu



16.8.06
Contributo di Massimo Morelli
Gorilla Blues di Sandrone Dazieri. È un buon prodotto di genere, anche se sospetto che non sia il migliore della serie (è il terzo). Comunque gli ingredienti ci sono tutti e l'idea dell'investigatore con la doppia personalità è buona. La trama scricchiola molto nel finale, ma complessivamente non mi è dispiaciuto.
Massimo Morelli



15.8.06
Sandrone Dazieri, La cura del gorilla
Il secondo romanzo della serie amplia le prospettive geografiche e moltiplica le implicazioni tematiche connesse alle gesta del gorilla, investigatore scisso e scosso. La storia riattacca dove si era conclusa la precedente; dall'ospedale milanese in cui si trova ricoverato, il nostro parte in cerca di tranquillità nella natìa Cremona, ma naturalmente si ritroverà invischiato in vicende poco chiare, gravi soprusi, feroci delitti e con l'aiuto dei suoi fidi aiutanti proverà a risolvere gli enigmi conducendo in contemporanea un paio di scalcagnate indagini che lo porteranno in quel di Torino.
Il coinvolgimento di immigrati albanesi fa sì che vengano toccati i temi dello sfruttamento e del lavoro nero, oltre ad altri orrori. Parallelamente ci si muove nell'ambito dei centri occupati e della politica extraparlamentare (extrasociale, più propriamente), nell'ambiente degli squatter e dei rave, con una sottolineatura delle distanze generazionali.
Violenza: come nel realistico narrare di Osvaldo Soriano, qui le botte sono botte e i personaggi le sentono davvero; ma c'è di peggio.
Sesso: diversi personaggi femminili, relazioni più articolate, situazioni complesse a vari livelli.
Il protagonista sviluppa maggiormente anche il suo rapporto col "socio". La strana schizofrenia è un vero e proprio confronto tra due personaggi distinti, che avviene sia per il tramite delle solite comunicazioni scritte, sia per quello più sfumato del limitare tra sonno e sogno. Il tutto, bravo Dazieri, funzionale al racconto.
Immagino interessante anche la resa cinematografica (ove la scelta di Claudio Bisio per il ruolo sembra curiosamente rievocare un suo antico monologo di schizofrenia urbana).
Giulio Pianese, ovvero Zu



14.8.06
Recensione inviata da Laura Caroniti
Seme di metallo, di Maurilio Barozzi
Un latrare alle stelle. Una storia raccontata su due binari, una voce che affila la Storia e le voci di un borgo a raccontare le storie in corollario, è questo lo scheletro di Seme di metallo (Curcu & Genovese), nuovo libro di Maurilio Barozzi dopo il buon esordio narrativo avuto con Spagna, edito per i tipi di Giunti.
Seme di metallo nasce come romanzo sulla storia dell'impianto della Montecatini a Mori, centro del Trentino situato tra il bosco e il fiume Adige, che da borgata agricola vede il suo passaggio a paese industriale, con gli effetti collaterali del cambiamento: dall'invidia del posto fisso, e remunerato più dell'andare a "giornata" nei campi, alle prime malattie che colpiscono indifferentemente uomini e animali.
La denuncia sociale, però, è solo un fil rouge che lega la vicenda della fabbrica di alluminio alla presenza e all'alternanza di uno straniero, Isidoro Cavada, che arriva a Mori in un giorno qualunque dopo la Grande Guerra. Un uomo di silenzio e al silenzio votato, corrotto solo dalle costellazioni cui parla.
Isolato e alienante, quello di Cavada è un personaggio in evoluzione, quasi un romanzo di maledizione in formazione, privo di contatti con gli altri paesani, mai scandito dalla partizione delle giornate comuni, è un cane sciolto, senza dio e devozione, un outsider toccato dal disprezzo del branco che al branco scaglierà i primi strali di una premonizione calcata di inferno.
Il "matto del fiume", come chiamano Cavada i paesani, solito vivere di espedienti e ai margini del resto, circondato dal timore che spesso si riserva all'incapacità di comprendere l'altro, un altro fuori schema, romperà gli argini del silenzio come il fiume che straripa con quella piena predetta dalle sue stesse parole e dette a dei ragazzini insieme alla minaccia di una costruzione che con sé porterà morte e dolore.
E nel momento in cui, nel 1928, dopo la piena dell'Adige, inizia l'insediamento della Montecatini, gli sconvolgimenti proseguono come in una catena di montaggio da fabbrica, mutando abitudini e aspettative negli abitanti del paese che inizieranno una feroce caccia all'uomo quando, in un giorno d'agosto, si troverà in uno stagno il cadavere di una ragazza...
Noir d'autore, con scrittura precisa e netta come il taglio di un bisturi, il romanzo di Barozzi mantiene un'andatura costante che per contrasto aumenta nel lettore un disagio che si fa asfissia, fino a un finale rocambolesco e nervoso, rapido e parzialmente atteso, che riprende la bellezza di certi passi messianici disseminati nel libro.
Da leggere. Non per avallare alcuna maledizione, non per credere alla verità di alcun seme di metallo che giustifichi dolore e abiezione. Da leggere per disertare un dubbio, non una realtà, noi lettori resi martiri dall'innocenza di un rosario di menzogne.
Laura Caroniti



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