Letture e riletture


28.12.07
Recensione inviata da Jane Bowie
Anthony O'Neill, Il Lampionaio di Edimburgo (traduzione di Roldano Romanelli)
[titolo originale: The Lamplighter]
Un libro di Edimburgo. Un thriller gotico, ambientato nel tardo '800 che conta su una serie di personaggi bizzarri, ma soprattutto conta sul protagonista assoluto: la cupa, misteriosa capitale scozzese.
Una giovane orfana viene prelevata dall'orfanotrofio di Fountainbridge e trasportata in una misteriosa casa appena fuori città. Qualche anno dopo, la città è terrorizzata da una serie di sanguinosi, mostruosi omicidi. Il legame tra i due momenti sarà svelato soltanto nelle pagine finali di un noir molto noir che si spiega con passo lento ma regolare, adatto ai ritmi e le velocità del momento storico, e che frena il troppo correre del lettore del 21° secolo. Un passo che segue ora il goffo e pedante Ispettore Groves, ora i due eccentrici investigatori dilettanti, l'anziano McKnight, professore universitario di Filosofia, e Canavan, il giovane irlandese custode del cimitero, appassionato autodidatta in pieno stile ottocentesco. Due fili apparentemente incompatibili che pian piano si avvicinano fino a svelare in un incalzante dialogo narrativo ciò che tormenta Evelyn, l'orfana tornata da donna nella sua città natale.
Una narrazione che contiene e cita tanta altra narrativa di Edimburgo, che racchiude in sé la personalità della città. La dialettica tra il bene e il male assoluti riprende volutamente quella di Robert Louis Stevenson (nato a Edimburgo nel 1850) in Dottor Jekyll e Mr Hyde, specchio della natura schizofrenica di una città divisa nettamente in due: la ricchezza, l'eleganza, lo spazio della New Town neoclassica, e la povertà, la sporcizia, gli spazi angusti della Old Town medievale. Il duo McKnight-Canavan, echi di Holmes e Watson di Arthur Conan Doyle (nato a Edimburgo nel 1859) inseguiranno la soluzione del caso con le armi della filosofia e della teologia, strumenti altamente sviluppati e raffinati nella Edimburgo assetata di conoscenze e studio nel corso dei secoli (Adam Smith, morto a Edimburgo nel 1790; John Knox, morto a Edimburgo nel 1572).
Forse Il Lampionaio di Edimburgo poteva essere soltanto ciò, talmente radicato è nel tessuto della città stessa. Le strade e i luoghi sono tutti percorribili e accessibili a chiunque volesse seguire le orme dei vari personaggi. Ecco la città: cupa, nera, densa di mistero, dalla sua elegante New Town alle viscere orripilanti e luride del Cowgate. Ed ecco la testa di Evelyn, ed ecco che a volte perdiamo l'orientamento e non sappiamo più se stiamo passeggiando nell'una o nell'altra.
Jane Bowie (granepadane)



27.12.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
John Maxwell Coetzee, Aspettando i barbari (traduzione di Maria Baiocchi)
Un percorso nell'animo umano raccontato attraverso l'indagine introspettiva di un magistrato di un impero non meglio definito, funzionario di una tranquilla cittadina di frontiera. La vita è scombussolata all'improvviso dall'arrivo degli ispettori militari dalla "capitale". In verità epoca e localizzazione geografica dei luoghi sono intuibili, forse, appena accennate da indizi vaghi e indefiniti. Così come vaghi e indiziari restano gli argomenti a sostegno di un'imminente invasione che il popolo barbaro starebbe preparando a danno dell'Impero, tanto che sproporzionata appare subito la controffensiva militare messa in moto. Sperequazione che Coetzee sembra volere ben evidente per introdurre la sensazione del ridicolo dove fonda subito dopo impietosamente il tragico.
Ed è proprio lì, sulla linea di confine che si attende il nemico, il barbaro devastatore della ordinata e ricca civiltà imperiale. Su quella linea si snoda l'intera vicenda: si torturano innocenti, perseguitano popolazioni nomadi e primitive famiglie di pescatori, nella insopportabile attesa del pericolo. Un'angoscia che si fa ragion di stato, propulsore emotivo che arma l'esercito anche a danno degli stessi sudditi, e realizza il calpestio tribale di quelle moderne leggi su cui la civiltà imperiale ha fondato la propria fierezza e l'orgogliosa distinzione dai popoli primitivi. Un'angoscia che azzera il tempo, livella civiltà e l'umanità torna alla condizione animale, allo statuto dell'istinto.
Un libro sull'attesa del pericolo, scritto attorno alle sue conseguenze, alle paure, all'ansia di chi dovrà combattere un nemico, alla resistenza ostinata di fronte alle ragioni dell'Impero di chi non vede nemici, e alla preda inconsapevole che per nemico è scambiato, volutamente scambiato.
L'attesa angosciosa del potere tanto simile a quella del suddito/funzionario che lo replica è così diversa da quella del cittadino che non perde nè lucidità nè dignità e paga sulla propria pelle le conseguenze d'una coerenza che appare più come l'ineluttabile che scelta morale.
Anche qui Coetzee non manca di rapportarsi ai sentimenti umani della passione e dell'amore nel modo più vero. Essi non restano sospesi neppure dinanzi a una tragedia epocale. Il protagonista vive fino in fondo tutte le contraddizioni della situazione narrata. Egoismo e miseria del proprio sé si amalgamano alla compassione per la crudeltà che si consuma sull'altro, nella sua terra, e sopra il suo corpo. Un'esplosione di ribellione e di forza inattesa in lui risolte in resistenza ostinata davanti alla violenza gratuita fino a trasformarlo da funzionario dell'impero a martire, ma non a suddito. Molto riporta a L'uomo in rivolta di Albert Camus.
Carlo Giuseppe Diana



26.12.07
Recensione inviata da Dario Arena
Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue
È un'autrice completamente fuori dal coro dei bravi mestieranti delle parole. Quattro donne in assedio sette giorni tra le mura sgretolate di un condominio di Mitrovica. Guerra nei Balcani.
È un libro contro ogni logica umanitaria: "La logica dei mercenari del bene: dovunque ci sia un conflitto, instaurate la monarchia della commiserazione. Proteggiamo i più deboli!, e 'fanculo se ti chiedi quando i più deboli non sono per caso anche i più stronzi."
Da un'intervista a Peacereporter: "Io mi accontento di inoculare un dubbio, di sottolineare crepe e tagli con un evidenziatore."
Babsi Jones innesta l'Amleto nel proprio taccuino balcanico, in perfetta osmosi con la Storia raccontata. Attraverso domande che aprono crepe, esternazioni che abortiscono riferimenti, racconti egocentrici di gelo che rilasciano sangue, consegna al lettore le più cupe riflessioni. E dopo averlo schiaffeggiato, bombardato e annichilito, lo trascina insieme a sé fuori dal condominio, malconcio e in overdose di dubbi. Non esiste una parola, una sola parola tra le 254 pagine del racconto, che possa spiegare.
Dall'unica bonaccia che conosce, quella del "torpore dei medicinali", nei Balcani "dove stagionalmente si accatastano i morti", Babsi Jones espelle parole come sudori acidi, flashback come aliti fetidi, tempi reali come umori cinici, contraddizioni come passi storici. Tratteggia a pennellate sporche incubi e verità, inventa macro con batterie esaurite, corrompe certezze umanitarie, demolisce comode speranze con la sua guerra.
La prosa di SLMPDS, scritta sulle macerie e fra le macerie, contiene pagine ferite che devono essere lette, mostrate con orgoglio, riferite. Magari possano essere rappresentate in scena, per non dimenticare.
Dario Arena



14.12.07
Recensione inviata da Dario Arena
V.M. 18 di Isabella Santacroce
La Satancroce, semidea di nicchia della quale qualcuno sarà contento di far parte, il sottoscritto no, ha impostato una storia di perversioni a tinte forti, nei temi e nei personaggi. Percorre, maestra del travestitismo, i sentieri della degenerazione degli istinti mediante manifesti ragionati, ragionamenti scellerati e gotiche iniziative portati avanti dalla protagonista, giovane dominatrice in un collegio di educande in possesso di una mente e un corpo assatanati. Chissà quanto di sé ha profuso l'autrice nel quattordicenne personaggio. A cui fanno compagnia, peraltro, grottesche figure interpreti di scene perfettamente integrate dalla loro caricatura. Figure che non sembrano affatto fuori posto: il grottesco, infatti, non è forse una versione distorta, alle volte perversa della realtà?
Singolare e immutabile dalla prima all'ultima pagina la struttura dei paragrafi: divisi da punti a capo, sono privi al loro interno di punti semplici. Altrettanto singolare la scelta di ripetere anche molte volte interi paragrafi o righe. Più che percosse alla pazienza di chi sta leggendo, li definirei briciole appiccicose ben integrate - ma in numero eccessivo - nelle perverse collosità di cui è intrisa la storia.
Ipotizzo infatti che l'autrice abbia adottato nella prosa una scrittura barocca, pretenziosa d'eleganza e un po' stucchevole per rendere deglutibili i paragrafi più osceni: una scrittura neutrale non avrebbe probabilmente rappresentato adeguato corrispettivo alle azioni efferate compiute dalle protagoniste. Una scrittura al contrario eccessivamente aggressiva avrebbe definitivamente sprofondato negli inferi la lettura e reso difficile l'arrivo alle ultime righe.
Nella maggioranza delle pagine la "morale" del lettore è oggetto di reiterate intimidazioni, per l'utilizzo di toni forti alternati ad alcune citazioni erudite, richiami classici ed egocentriche riflessioni religiose e sataniche: non si riesce, da ciò, a trarre una... morale. Ad ogni modo, se si è in possesso di un buon fegato, in entrambi i sensi metaforico e letterale del termine, meglio si possono assimilare le nefandezze raccontate nel romanzo, contro le quali si impatta in un continuo crescendo. Se proprio il lettore non reggesse il ritmo degli scontri, può essere utile un'azione interruttiva sotto forma di un'altra lettura o una sospensiva ossigenatoria di qualche giorno.
Non è infatti un libro per tutti. Occorre, appunto, o un buon fegato o un minimo di preparazione mentale, mirata al superamento temporaneo, o all'aggiramento, di personali blocchi moralistici, pregiudizi sessuali e sovrastrutture culturali che potrebbero pregiudicare l'arrivo al finale, non proprio inatteso.
Il blog dell'autrice contiene commenti che vanno dalle minacce di morte alla genuflessione eterna per lei: leggendo storie estreme come questa, è in effetti difficile darne giudizi intermedi.
Target: gli amanti del genere, e i più scafati... La copertina è intrigante, la prosa è valida e coerente, l'intreccio inesistente.
Dario Arena



3.12.07
Mikel Capelli, A passo d'angelo
In questo bel libricino d'esordio, uscito nel 2007 per Untitl.Ed, s'alternano la prosa agrodolce che accompagna la straordinaria quotidianità di un cammino sacro e i versi aspri che ti parlano, piani o enigmatici, raccontando la sacra straordinarietà del quotidiano.
Giulio Pianese, ovvero Zu



RISORSE
:: Antelitteram
:: Babelteka
:: Biblit
:: BNCF
:: Bookcrossing
:: Classici stranieri
:: De Bibliotheca
:: Google print
:: Il blog del Mestiere di Scrivere
:: il compagno segreto
:: Incipitario
:: Passepartout festival
:: Project Gutenberg
:: RaiLibro
:: Ti presto i miei libri
:: Wuz

:: Bloglines
:: Free deep linking
:: G-Mail
:: globe of blogs

:: aNobii
:: CuT'n'PaStE
:: Lessico da amare
:: Reti relazionali
:: Filter - B.A. 4.0
:: Zu, lessico dislessico
RIFERIMENTI

referer referrer referers referrers http_referer


:: Legàmi (Google) ::
:: Legàmi (Technorati) ::



Ricevi un avviso via e-mail
quando ci sono nuovi interventi in
Letture e riletture

inserisci tuo indirizzo e-mail

:: anteprima ::
grazie a FeedBlitz



TORNA SU

INTRECCI
Biblit ::
BrodoPrimordiale ::
contaminazioni ::
fogliedivite ::
Fragments of wishdom ::
Fuori dal coro ::
granepadane ::
Gruppo di lettura ::
Incipiterazioni ::
La Nonna Volante ::
La stanza di Phoebe ::
liberilibri ::
Libreria Ocurréncia ::
licenziamento del poeta ::
Marsilio black ::
preferireidino ::
Sbloggata ::
Skip intro ::
Taccuino di I.Massardo ::
Tequila ::
Tigro ::
Verba manent ::
vocenarrante ::
Zuccate ::
Zu, letture e riletture ::
Zu-ppa-zu-ppa--ppa ::





This page is powered by Blogger. Isn't yours?