Letture e riletture


22.11.03
Recensione inviata da ranafatata
L'amante di Abraham B. Yehoshua (traduzione di Arno Baehr)
È il terzo romanzo di Yehoshua che leggo, ed è quello che mi è piaciuto di più, anche perché la tecnica dell’alternanza dei punti di vista dei personaggi per dare forma alla storia - spesso adottata dall’autore – raggiunge in questo caso una perfezione esemplare che la dice lunga sui diversi significati che la realtà può assumere a seconda di chi ne è protagonista e di chi, eventualmente, la racconta.
La storia – che è una storia “intima”, personalissima, anche perché i vari personaggi la raccontano in prima persona - è ambientata a Haifa, durante la guerra del Kippur.
La guerra, che è in un certo senso la causa che innesca la vicenda, rimane sullo sfondo, mentre invece rimbalza di continuo in primo piano la difficile convivenza tra israeliani e palestinesi, narrata all’interno di una quotidianità che ci è perlopiù sconosciuta.
Così, l’ostinata ricerca del misterioso "amante" da parte di Adam ci dà la possibilità di spiare il rapporto del proprietario israeliano di una grande officina meccanica con i suoi operai palestinesi, e con il giovane Na'im in particolare; è il pretesto per farci conoscere i pensieri dei vari personaggi che si alternano e si rincorrono, ricostruendo la storia della ricerca di quest'uomo che sembra scomparso nel nulla; ci guida fino al deserto, per raccontarci la guerra con gli occhi di Gabriel, e fino ai vicoli dei quartieri ortodossi di Gerusalemme.
Pian piano il deserto ha cominciato a tingersi di rosso, e sull’orizzonte è fiorito improvviso un sole rotondo, come se qualcuno l'avesse sollevato al di sopra del Canale di Suez in fiamme – come se fosse anche lui uno strumento di guerra che prendeva parte alla battaglia. E verso il tramonto, il sole pareva riversarsi su di noi, come se l'avessero bombardato, e tutto – le nostre facce, le autoblinde e le armi che avevamo nelle mani – si è tinto di porpora.
ranafatata



19.11.03
Recensione inviata da AleRooTs
Ryszard Kapuscinski - Il Negus (traduzione di Vera Verdiani)
Un esempio da fornire quando si tratta di chiarire cosa si intende per inchiesta giornalistica. O anche cosa significhi rendere interessante la storia. Oltre che ovviamente una scrittura scorrevole e accattivante. Tutto questo nel libro-reportage che il giornalista polacco ha costruito a partire dalle testimonianze raccolte in terra etiopica, andando a cercare e ad ascoltare gli ex-cortigiani dell'imperatore Hailè Selassiè. E proprio la vita, le azioni e, per quanto possibile, i pensieri dell'autocrate, e dell'Etiopia che gli stava ai piedi, vengono ripercorsi attraverso le parole di chi lo ha servito fedelmente, partendo dagli anni del massimo splendore fino al momento della destituzione, ad opera dell'esercito ribelle. I racconti dei dignitari sono solo saltuariamente intervallati da considerazioni dell'autore, che interrompe il flusso dei discorsi unicamente per chiarire il contesto storico e permettere la totale comprensione del susseguirsi degli eventi.
Ale



18.11.03
Rilettura inviata da Elisabetta Mori
Ivo Andric, Il ponte sulla Drina (traduzione di Bruno Meriggi)
Il ponte del Visir, la vita sulla "porta"
Tra le tante opere monumentali danneggiate dalle guerre, c'è il famoso Ponte di Visegrad, conosciuto come “Ponte di Mehmed Pasa Sokolovic”, il visir che lo fece costruire, oppure solo “Ponte sulla Drina” dal titolo del libro del Nobel Ivo Andric. Oltre ad esser stato danneggiato durante il conflitto, negli ultimi anni aveva sofferto a causa delle inondazioni provocate dall’attività della centrale idroelettrica di Visegrad.
Ma il ponte non è solo il titolo del più famoso libro di Andric, è l'epopea di tutto un popolo, posto alla confluenza di due mondi, il cristiano e l'islamico, di due imperi, l'asburgico e l'ottomano, crogiolo di diverse culture, crocevia di razze, religioni, civiltà diverse. Testimone di avvenimenti storici e drammi quotidiani, della gioia e più spesso della sofferenza, il ponte sulla Drina è stato per secoli l'emblema di un mondo arcaico ed affascinante basato sui valori dell'onore e della dignità, un mondo lontano dal nostro tempo e dallo spazio europeo.
Ecco un breve assaggio:
Nel pilastro centrale del ponte, sotto "la porta", si trova un'apertura più grande, uno stretto e lungo uscio privo di battenti, simile a una gigantesca feritoia. Nel pilastro, si racconta, c'è una grande stanza, un'oscura sala in cui vive Arpin il Moro. Lo sanno tutti i bambini, nei cui sogni e nelle cui fantasie il misterioso personaggio svolge una parte importante. Si crede che colui al quale egli appare debba morire. [...] Spesso i ragazzi, dalla riva, osservano quell'apertura buia come un abisso che atterrisce eppure attrae. [...]
Sul ponte e vicino al ponte sbocciano gli amori, avvengono i primi incontri, si svolgono i primi lavori e gli affari, i litigi e gli accordi, gli appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra, vengono messi in vendita le prime ciliege e i meloni, i salep del mattino e il pane caldo. Ma qui si raccolgono pure i mendicanti gli storpi e i tignosi [...] vengono esposti appelli e proclami, venivano, fino al 1878, impiccate o impalate le teste [...] dei giustiziati [...ma] non possono attraversare il ponte né cortei nuziali né funerali senza che prima ci si fermi alla "porta".
Elisabetta Mori



15.11.03
Recensione inviata da Babsi Jones (di ex-ju e clorofilla)
Alessandro Marzo Magno, Il leone di Lissa - viaggio in Dalmazia
Servono scrittori nomadi, dice il maestro Rumiz: servono scrittori viandanti che sappiano entrare nei soggetti che la realtà tiene a margine, che sappiano dedicare a questi margini il tempo delle parole, andarsi a cercare gli uni e le altre, le facce degli stranieri al confine ed i paragrafi lunghi. Servono scrittori nomadi, è così: non è un caso che il capolavoro concordemente riconosciuto della storia jugoslava, quel Black lamb and grey falcon di lady Rebecca West di cui ancora nessuno ha ancora tentato il reprise, sia proprio un diario di viaggio.
Nella stesura della pagina e nel movimento della strada, della barca e della bicicletta c’è la stessa aspirazione al dubbio, la stessa volontà di scoperta. Viaggio e letteratura s’imbastardiscono a vicenda, in un intreccio di vocaboli e treni perduti, viaggio e letteratura hanno ritmo di virgole e ruote, bagaglio emotivo e fatica comune. Non è l’elogio della fuga celebrato da più di una generazione; è piuttosto il cammino ininterrotto del narratore che comprende d’essere il lontano figlio del figlio del figlio di quel rapsodo che a piedi percorreva le valli e le genti per cantar(n)e la storia. Il lapidario “dove andiamo non importa, ma dobbiamo andare” di Jack Kerouac sarebbe venuto a darne conferma un mucchio di secoli dopo.
Servono scrittori nomadi, ed è interessante scoprire che Alessandro Marzo Magno del suo viaggio in Dalmazia ha fatto un racconto di gran classe, importante per stile e soggetto. La Dalmazia (chi s’è lasciato annegare nel brevijar di Matvejevic lo sa) è il nostro specchio smarrito; l’emisfero amputato d’un Mediterraneo che –ci siamo convinti- finisce con noi, presuntuosi che non ricordiamo d’essere generati dagli stessi leoni, delle stesse battaglie e delle stesse zuppe di pesce; stesse facce, stesse razze, tout court: solo l’altra costa, vicinissima. Ha scelto un soggetto importante e tosto, Marzo Magno: la Dalmazia che noi abbiamo scordato ma che non s’è scordata di noi, che conserva buona parte dei nostri segreti, delle nostre sciocchezze e, perché no, delle nostre bellezze.
Sulle orme dell’abate Fortis (1741-1803) e del suo settecentesco Viaggio in Dalmazia, Marzo Magno ripercorre –con passione, umorismo ed un bel fagotto di cognizioni culturali, che non guastano affatto- un cammino fra le onde, le terre, le calli ed i fogli della storia e della storia dell’arte: più volte, leggendolo, mi sono ricordata di The stones of Venice, che fece la grandezza di Ruskin. Marzo Magno ha lo stesso occhio pronto, attento alle le piazze e alle trifore, ai pozzi ed alle minuzie –le maniglie, gli odori, le ombre, i mattoni- che trasformano un luogo qualsiasi in un luogo unico al mondo.
È così che l’autore (che ha già nel suo curriculum un’opera di grande, differente valore come La guerra dei dieci anni) ci porta, con l’arguzia dello storico e l’estasi scanzonata del narratore, a scoprire il mare incrociato della ‘piccola capo Horn’ di Lussino, i mosaici nascosti nei cucinotti di Veglia, e di Veglia le lingue dimenticate; le scempiaggini fascistissime di Arbe –per i camerati dannunziani, l’Arbissima-, le saline lunari di Pago, il caravanserraglio di cestelli di lavatrice di stampo ‘Emir Kusturica’ che s’incontrano sul lago di Vrana, e poi bislunghe storie profumate di ginestra e lavanda, le ipotesi di Marco Polo, le bianche pietre di Brazza, le bombe cadute su Zara, i roghi inquisitori antichi e recenti di Spalato, i vampiri di Curzola, e gli austroungarici, i partigiani, i pirati, i morlacchi e i banditi. E poi i sapori dell’olio, dei formaggi e delle partenze, lo spavento delle guerre e la meraviglia del mare, l’ebbrezza del maraschino e l’ottusità dei governi –siano essi marinari, imperiali, socialisti, moderni.
Il leone di Lissa è la lettura ideale per chi ha consumato la voglia di vivere, perché abbonda di scintille d’ingegno, di pensieri scattanti, di meraviglie impercettibili ma importantissime. Non ho bisogno d’aggiungere che è lettura perfetta anche per chi desideri conoscere il Mediterraneo –di cui dovremmo andar fieri e di cui saremmo, si spera, custodi ospitali- e la Croazia: quella delle origini e quella più attuale. L’autore, giornalista di Diario e veneziano (e si sente: i veneziani hanno un fiuto speciale per i dettagli preziosi), la racconta con la saggezza di chi è capace di coglierne le aspettative e le bellezze, ma anche i bisogni e le pecche. Ho già scritto, recensendo La guerra dei dieci anni, che di Alessandro Marzo Magno apprezzavo molto l’onestà, la capacità critica: non regala false lodi a nessuno. Lo conferma in questo Viaggio in Dalmazia. In aggiunta, però, ci sorprende con una narrativa itinerante, dolceamara, misurata, semplice quanto basta per godersela, raffinata quanto basta per lasciare una traccia. Dulcis in fundo, il dio della linguistica slava benedica coloro i quali hanno competenze di dizione, traduzione, glossari e fonetica serbocroata, e Marzo Magno è tra questi.
babsi jones



11.11.03
Recensione inviata da AleRooTs
Daniel Guedj - Il teorema del pappagallo
Parte piano piano, ma poi ingrana e finisce in crescendo, coinvolgendo il lettore e lasciandogli la giusta malinconia quando anche la pagina 553 finisce di scorrere sotto i suoi occhi. Bisogna resistere nei primi capitoli, o meglio, io ho dovuto farlo, sforzandomi di non ricorrere a uno dei sacrosanti diritti del lettore elencati da Pennac, quello di abbandonare un libro senza averlo finito. Temevo di trovarmi di fronte alla versione matematica de Il mondo di Sofia, a suo tempo additato come capolavoro della divulgazione narrativa, ma che mi deluse completamente: la parte filosofica non era nulla di che, e il romanzo in cui era artificialmente infilata non prendeva e faceva acqua un po' da tutte le parti. Questa volta invece il pericolo è scampato: la storia tiene, i personaggi ci stanno decisamente entro (ehm, forse sarebbe un minimo più professional qualcosa del tipo "personaggi azzeccati e ben caratterizzati"), e anche la parte "matematica" si rivela una bella sorpresa. Senza nessuna mira di esaustività, si segue un unico filo che si snoda dagli arbori del pensiero fino ai giorni nostri, un filo disteso più che sulla matematica, sui matematici, sulle loro vite e le loro storie, aneddoti curiosi e significativi, e poi bozzetti sempre piacevoli da leggere dipingono le situazioni e i contesti - le condizioni al contorno per usare una terminologia in tema - in cui si trovarono a vivere e a creare coloro che spesso conosciamo solo per i teoremi a cui hanno dato nome.
Guedj attinge ai piene mani dal calderone degli elementi evocativi e affascinanti, quelli che fanno tanto "cultura": matematica, storia e filosofia sono coinvolte continuamente, e poi, libri antichi e preziosi, dimostrazioni segrete, biblioteche leggendarie, il rapporto fortissimo e particolare fra fratello e sorella gemelli, l'handicap come punto di forza, innovativi registratori biologici, il tutto a scorrere sullo sfondo suggestivo di Montmartre o delle bellezze naturali di Siracusa e dell'intera Trinacria; ma l'autore è bravo a gestire tutti questi input, a dosare gli ingredienti, a mantenere interesse e attenzione fino alla fine, e chissà, forse anche a ricucire prematuri divorzi fra qualcuno dei suoi lettori e la vera protagonista del libro, la matematica.
Ale



10.11.03
Recensione inviata da Raffaella Casati
Lo ammetto, ero davvero scettica una settimana fa, quando uscivo dalla Fnac con Gli eroi son tutti giovani e belli di Luigi Bolognini nella bustina verde. Io che sono totalmente asportiva, nella teoria ancora più che nella pratica. Figuriamoci poi quando si parla di gente che non ho mai nemmeno sentito nominare! E invece credo che sia questo uno dei risultati che devono rendere più soddisfatto chi scrive dedicandosi a un argomento specifico: riuscire a trascinare, ad avvincere anche chi non legge per passione o familiarità con la materia.
Venti ritratti in ordine cronologico che si sviluppano seguendo un percorso ben ordinato. Si inizia con un flash, la descrizione della sfumatura che rende unico il protagonista, il tratto più saliente e saldo della sua personalità e del suo stile di vita e di gioco. Poi la piccola confessione, i ricordi, i momenti migliori e quelli peggiori, che non sono quelli oggettivi di chi legge gli annuari o ripensa alle radiocronache, ma quelli interni, a focalizzazione zero (e il bello è che quasi mai coincidono). Le emozioni più che gli ori, il sudore più che le sconfitte, i viaggi più che i soldi, la tenacia nel volersi migliorare, la competizione che diventa amicizia, i sacrifici che non sono mai rimpianti. E poi la nota agrodolce che chiude ogni biografia come la prima ed unica pennellata scura su una tela impressionista.
Le ultime frasi sono quelle che parlano di treni persi, di nostalgia, dello sport che non è più quello di una volta, di scelte forse sbagliate, dell'ineluttabile destino di ogni sportivo, che è quello di incontrare limiti invalicabili. Di eroi che la voglia di mettersi alla prova continuano ad averla anche dopo aver appeso al chiodo la giovinezza. Perché continuano ad esserlo davvero, giovani e belli.
Raffaella Casati



5.11.03
Jean-Claude Izzo, Solea (traduzione dal francese di Barbara Ferri)
Questo noir chiude la trilogia che l'autore marsigliese incentra sulla figura di Fabio Montale. L'ex poliziotto si trova sempre invischiato in vicende nelle quali la mala, il crimine, la mafia, il sistema corrotto schiacciano l'umanità dei singoli esseri umani che vorrebbero semplicemente vivere e saprebbero farlo assaporandone ogni aspetto in modo autentico. L'intreccio avvincente non è l'unico motivo per cui riesce difficile staccarsi dalla lettura: Izzo scrive in modo pregnante, semplice e denso ad un tempo, efficace per senso del ritmo e giusto dosaggio dei dialoghi.
Scorrendone la prosa viene di continuo voglia di annotarsi le frasi, perché ha una capacità di verbalizzazione in grado di rendere tangibile anche la sfera invisibile. Quella delle sensazioni, dei sentimenti, del sentire profondo; ma anche quella in cui ci si smarrisce quando capita di inabissarsi troppo. Quella in cui amore e malinconia, amarezza e malia si miscelano avviluppando l'individuo di quel non so che capace di perderlo.
Leggendone le descrizioni si avverte in ogni momento la materialità delle cose, la trasparenza della luce, la realtà del clima, la irresistibile sensualità delle sue donne. Siamo noi ad assumere pietanze e bevande, siamo noi a fumare su quel terrazzo rimirando un paesaggio ironicamente augusto, contraltare delle miserie subumane di chi opprime il bello, di chi affoga il vero.
È un duro con tanta sensibilità, un disincantato che non cede al cinismo, un vinto che non si rassegna alla rinuncia. Un autore da gustare e da amare. E rimpiangere, purtroppo, dal 26 gennaio 2000.
Consiglio senza riserve quel che di lui ho letto fino ad oggi: Casino totale, Chourmo, Solea; Marinai perduti; Il sole dei morenti.
Giulio Pianese, ovvero Zu



Lettura inviata da tequila
Ancora una - Le fiabe del filo invisibile di mammeonline
Zucche che curano il mal di pancia, cornacchie bianche come la neve, fatine che portano i bambini alle mamme troppo sole. Ecco un libro per bambini scritto davvero da qualcuno che sa cosa i bambini vogliono ascoltare: le mamme! Nove membri della comunità mammeonline hanno scritto altrettante fiabe, una di loro le ha illustrate e il risultato è fresco, gradevole, convincente. Io sono una mamma, l'ho letto per mia figlia, ma anche per me: perché allargare i confini della fantasia aiuta i bambini a crescere, e le mamme a restare bambine.
tequila



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