Letture e riletture


31.7.08
Diego De Silva, Non avevo capito niente
Sono stato lettore voglioso di questo breve romanzo divertente e filosofico, ironico e sudato d'umanità, moderno nella sua specificità, linguisticamente accattivante per la napoletanità non oleografica. Questo Diego De Silva ti fa infatuare dei suoi personaggi, nel senso che tra vicende e tiritere non vedi l'ora di reincontrarli, di sapere che succederà o che faranno succedere, ma ti tiene in pugno anche durante le digressioni, aneddotiche e morali.
Giulio Pianese, ovvero Zu



29.7.08
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Zygmunt Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido (traduzione di Savino D'Amico)
È l'analisi dell'utopia, partendo da Utopia di Tommaso Moro. La sottolineatura della linea di demarcazione fra mondo premoderno e modernità è affidata all'idea di cambiamento, al sentimento di speranza, assente in un mondo piatto dai confini fisici e psicologici definiti. L'utopia è l'incunearsi di un progetto di cambiamento capace di sovvertire il sentimento di rassegnazione. Di questo aspetto Bauman non dice apertamente, ma va da sé che la fine del medioevo arriva da Nord, strettamente legata al larghissimo consenso di Lutero e Calvino. Riforma e Controriforma segnano lo spartiacque di due epoche. Rinascimento e Barocco sono la rappresentazione matura di comportamenti sociali ed espressioni artistiche costruiti per alcuni decenni sulla speranza. Speranza che un cambiamento sia possibile, utopia di una vita migliore per tutti. Bauman tratteggia le figure di "guardiacaccia" e "giardiniere" come metafore di comportamenti sociali. Il primo riguarda l'attività di conservazione dell'esistente, propria del premoderno, nell'idea che tutto sia già in equilibrio e il male e il bene equamente distribuiti secondo previsione di natura benedetta da Dio. Il giardiniere vi si contrappone. Nella modernità, egli esalta l'autonomia umana e la scelta d'un progetto che modifichi gli assetti naturali. Ma se la storia sentenzia che nessuna utopia si è mai realizzata, scrive anche i successi di quella tensione ideale pur mai realizzata. L'attività del giardiniere, per quanto arbitraria e dissacrante (o forse proprio per quello) innesta cariche psichiche individuali e collettive capaci di svegliare propensioni psicologiche assopite e frustrate per secoli. Il medioevo va oltre la rassegnazione, divinizza gli immutabili equilibri di natura disegnando la figura di parassita psicologico adottato da un femminino mortifero (madre natura immutabile) che destina l'uomo a stanziarsi, lo ferma, lo condanna al rachitismo culturale e lo schiaccia nella sua immutabile condizione di nascita. Le utopie però sembrano potersi coltivare finchè l'istanza è rivolta a un'autorità che può rispondere. Per tutta la modernità e nell'epoca contemporanea, lo stato nazionale ha rappresentato l'interlocutore finale e l'arbitro di ogni rivendicazione sociale, di qualsiasi progetto di cambiamento. La post-modernità segna la cessione graduale di quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali e sposta i centri decisionali fuori dal contesto sociale dove il conflitto si consuma. A una rivendicazione locale si risponde con una norma europea; contro una rivendicazione di salvaguardia del diritto all'acqua potabile in un paesino, si dispone l'intera strategia organizzativa della Banca Mondiale. I comportamenti sociali nell'epoca della globalizzazione devono scontare questa asimmetria spaziale tra domanda sociale e risposta istituzionale. L'autorità pubblica nazionale è vissuta essenzialmente per la sua funzione burocratica. Ha perso l'autorevolezza insita nella sua funzione pubblica, degradata a ruolo notarile. Le domande sociali, pure a forte contenuto utopico, vengono ricacciate nel privato, dove irrimediabilmente impoveriscono. Cittadini tendono a rimpicciolire in consumatori, utenti e clienti. L'attività di progettazione della utopia rinsecchisce in quella del "cacciatore". Da guardiacaccia della natura immutabile a giardiniere d'una esistenza tutta da costruire e progettare, l'uomo postmoderno si fa cacciatore di possibilità apparentemente infinite. Deve competere con un infinito numero di altri cacciatori. Se boschi e foreste in realtà infiniti non sono, non se ne cura, il problema non è suo. Misura il futuro come fanno i bambini, a ore, a giorni. Finchè avrà una mosca zoppicante da catturare, il cacciatore del terzo millennio non riuscirà a connettere il problema delle risorse al tempo. Non avrà un progetto che ecceda il proprio immediato appetito, non un'idea di costruzione faticosa di un altro modo di vivere, neppure un incontro con l'altro fuori dagli ipermercati di merci e al di là dei bazar del divertimento.
E se diffusamente si parla di utopia come di "irrazionale", "impraticabile", "irrealistico", "irragionevole", non è solo un segnale di preoccupante scadimento linguistico o di malizioso slittamento semantico. Hannah Arendt nel suo Vita activa smaschera tutta l'attività linguistica concentrata sui mutamenti dei significati delle parole e del senso di esse, puntualmente preceduta a sovvertimenti nel mondo del lavoro, nelle disposizioni legislative, nel campo dei diritti umani e sociali. Se l'utopia viene relegata nel novero di attività irrazionali, è probabile che presto dovranno incriminare poeti e comici, attori e pittori. Poiché neppure una forma artistica non allineata ai criteri di economicità insiti nell'attività del "cacciatore" può essere tollerata in una società senza utopia.
Carlo Giuseppe Diana



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