Letture e riletture


28.2.04
Recensione inviata da Marco Di Porto
Francis Scott Fitzgerald, Il tuo carattere e il mio - Racconti dispersi (traduzione di Bruno Oddera per Mondadori)
Francis Scott Fitzgerald, l'autore de Il grande Gatsby e di Tenera è la notte, scrisse numerosi racconti destinati alla pubblicazione su magazine e giornali ad alta tiratura. Tali racconti gli fruttarono parecchi soldi, che a Fitzgerald servirono per incarnare quel tipo - che divenne poi modello - di uomo raffinato e cosmopolita spesso protagonista delle sue opere, e che gli divennero indispensabili a partire dagli anni '30, quando sua moglie Zelda Fayre iniziò a soffrire di disturbi mentali e a necessitare di costose cure in Svizzera. In Il tuo carattere e il mio sono raccolti i racconti scritti proprio tra la fine degli anni '20 e l'inizio degli anni '30, verso il tramonto della carriera di uno scrittore ormai famosissimo e mitizzato, i cui libri hanno immortalato quella che al di là dell'oceano fu definita Età del jazz e che in Europa prese il nome di Bell'epoque.
Il fatto che questi racconti fossero scritti per un vasto pubblico, obbligò Fitzgerald ad annettervi molto spesso un happy end non proprio sulle corde della sua narrativa, ma comunque la maggior parte di questi testi mantiene quello che l'autore definì "il di più di me stesso": un talento sconfinato. Sono storie americane scritte superbamente, parlano di uomini e donne che amano, che fanno affari, che si tradiscono, spesso coinvolte nella depressione del '29 - evento che segnò gran parte della narrativa di quel periodo.
Fitzgerald è stato definito il cantore dei ricchi. Ha saputo descrivere meglio di ogni altro l'America del Sogno realizzato, delle immense fortune accumulate e dissipate, immortalando una "way of life" piena di fascino che sopravvive ancora ai giorni nostri.
Marco Di Porto



26.2.04
Recensione inviata da Marco Di Porto
Jonathan Franzen, Le correzioni (traduzione di Silvia Pareschi)
All'uscita de Le correzioni, molti hanno criticato Jonathan Franzen e molti lo hanno acclamato. Chi lo ha criticato vi ha trovato un eccessivo autocompiacimento e un po' di noia. Gli apologeti ci hanno visto invece il tentativo di costruire una nuova epopea americana, di dipingere un affresco degli Stati Uniti prima potenza mondiale, patria del benessere, e del gap che separa i padri dai figli. Va detto che in effetti i due punti di vista non si escludono a vicenda. Se il tono di Jonathan Franzen è un po' forzato - e forzatamente ironico, va detto che non si possono liquidare queste seicento pagine, frutto di un duro lavoro, così su due piedi.
La storia è questa. Denise, Chip e Gary sono i figli di un uomo conservatore, Alfred, freddo depositario dei valori della vecchia America: lealtà, correttezza, pudore, senza del dovere. Denise, contro la volontà dei genitori, è una cuoca di successo ed ha alle spalle un matrimonio fallito con uno chef di religione ebraica; Chip è un ex docente universitario, radiato dall'università per una relazione con un'allieva, che ora tenta senza successo la strada della sceneggiatura (dei tre è quello più in conflitto con la famiglia); Gary è apparentemente un uomo di successo, si occupa di investimenti e ha sposato una donna ricca dalla quale ha avuto due figli, ma è depresso e insoddisfatto. Alfred li vorrebbe riunire tutti e tre per un'ultima cena di Natale, ma i nodi, come si suol dire, vengono al pettine.
L'autore si è cimentato in un genere (l'affresco di un'epoca, di una società) che solo i grandissimi sono riusciti a gestire. Franzen scrive benissimo e sa cogliere con acume sfumature e distorsioni di un mondo in cui i valori sono decaduti - o, perlomeno, fortemente mutati. Ma non è Steinbeck. Si sente che procede un po' a tentoni, dando un colpo al cerchio (la Letteratura) e uno alla botte (il lettore). Prova a essere simpatico, e in certi momenti ci riesce pure, ma l'impressione di chi legge è di assistere a una storia troppo ammiccante, forse un po' insincera. Franzen indugia, ci parla di cose di cui non ci frega nulla - e, visto che non riesce ad appassionarci, probabilmente non frega nulla neanche a lui (pesantissima la parte in cui è descritta la storia di una ferrovia del Midwest in cui Alfred ha lavorato).
Insomma, lodevole il tentativo, ottima scrittura, ma Le correzioni non riesce a toccare le corde giuste, lasciando un po' freddi.
Marco Di Porto



25.2.04
Recensione inviata da Marco Di Porto
Kurt Vonnegut, Perle ai porci. Ovvero Dio la benedica mr. Rosewater (traduzione di Vincenzo Mantovani)
Kurt Vonnegut è tornato alla ribalta circa un anno fa grazie alla ripubblicazione, da parte di Feltrinelli, di Mattatoio n° 5 e di Ghiaccio Nove, due tra i libri migliori dello scrittore americano. Al grande pubblico (specie quello più giovane), Vonnegut è dunque conosciuto soprattutto per questi due romanzi, anche se i successi dell'autore, sin dagli anni '60, sono stati numerosi (ed Eleuthera, avendone qualcuno in catalogo, sulla scia della pubblicità fatta da Feltrinelli non ci ha pensato su due volte ed ha alzato i prezzi). Tra questi, Perle ai porci, vero e proprio capolavoro di intelligenza e umorismo.
Eliot Rosewater è l'unico ereditiere di una famiglia immensamente ricca, ma è vittima di una fissazione: convinto dell'ingiustizia di possedere quell'enorme quantità di beni e denaro, passa il tempo ad aiutare gli altri, sia nella veste di pompiere volontario che in quella di benefattore dell'umanità. La famiglia è preoccupatissima dell'inclinazione filantropica del figlio, vorrebbe farlo rinsavire affinché non sperperi il patrimonio attraverso continue donazioni (sperpero che Eliot effettua aprendo un ufficio in un'anonima cittadina di provincia, nel quale può accorrere chiunque sia in difficoltà con la certezza di ricevere un assegno coperto) e, soprattutto, vorrebbe che l'unico erede si preoccupi del futuro e del buon nome dei Rosewater.
Perle ai porci è il romanzo più apertamente "comunisteggiante" di Vonnegut. Il protagonista è una specie di Cristo alcolista e ricchissimo che si prodiga per l'umanità e che per questo viene additato come folle ed eretico, e sul quale, come avvoltoi, si scagliano infimi speculatori che vogliono approfittare della sua ingenua visione delle cose. Un Vonnegut in ottima forma dà vita a questa vicenda tenera ed esilarante, con la consueta leggerezza e la penna del grande scrittore. L'effetto che ottiene (in questo come in altri libri) è quello di illuminare ogni cosa di cui tratta. Come ha scritto Michele Serra in una recensione a Ghiaccio Nove, Vonnegut è il contrario dell'autore pedante, capace di rimpinzare ogni pagina di una quantità di trovate (un vero e proprio scialo) che farebbero la felicità di tutti i noiosoni che riempiono gli scaffali delle librerie. Fulminante.
Marco Di Porto



24.2.04
Recensione inviata da Marco Di Porto
A.M. Homes, Cose che bisognerebbe sapere (traduzione di Adelaide Cioni per Minimum Fax)
A.M. Homes è la scrittrice che, assieme a David Foster Wallace, Raymond Carver e Charles Bukowski, sta facendo la fortuna dell'ormai non più piccola casa editrice Minimum Fax, che in questi anni è riuscita a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto nel panorama a tratti desolante dell'editoria del bel paese. È l'editore romano che ha infatti l'esclusiva sull'opera omnia dell'autrice, giunta in Italia con la raccolta di racconti La sicurezza degli oggetti (dalla quale fu anche tratto l'omonimo film con Glenn Close) e che da alcuni mesi ha pubblicato questo secondo lavoro, Cose che bisognerebbe sapere, in cui troviamo gli stessi ingredienti del primo libro. Racconti brevi, sincopati, molto ritmici e veloci, il cui centro sono gli stati di alienazione mentale, le psicologie distorte, le situazioni ansiogene, le paure e i drammi di questa modernità, interpretata in chiave ironica (ma mai demenziale), dalla quale Homes estrapola la linfa vitale e le emozioni più profonde.
Homes fa quello che nessun giovane scrittore italiano, da un bel pezzo, riesce più a fare: parla di noi. E lo fa con un'intelligenza e un acume che forse può venire solo dal cuore di una civiltà, quella americana, non più sicura di sé, frastornata dall'essere a capo di un mondo ultra secolarizzato e decisamente nevrotico, privo di una direzione, e che anzi avanza a passi incerti verso una meta poco chiara. Tutto questo Homes lo fa attraverso una scrittura feroce e levigata, a tratti esaltata ma mai autoreferenziale, e ha soprattutto il grande pregio di essere il frutto - questa è l'impressione che se ne ricava - di un'urgenza creativa, di momenti di arte pura, quello che un corso di scrittura non potrà mai insegnare ad un allievo, per quanto attento e meticoloso possa essere. Homes, ironia della sorte, oltre a scrivere, insegna alla Columbia University, e forse ai suoi allievi darà preziosi consigli sulla paziente pianificazione narrativa ed editoriale di un'opera, anche se due delle short stories più riuscite di questo libro, Cose che bisognerebbe sapere e Per favore, mantenere la calma, danno proprio l'impressione di scaturire da un attimo d'ispirazione (guidata ovviamente dalla mano sapiente dello scrittore di razza). Non è poco.
Marco Di Porto



22.2.04
Recensione inviata da Marco Di Porto
Paul Auster, Timbuctù (traduzione di Massimo Bocchiola per Einaudi)
Cosa c'è nell'aldilà? Per Willy, barbone letterato, poeta sgangherato con un passato da schizofrenico, dopo la morte c'è Timbuctù, luogo dove finalmente riposare la mente scombinata e fare finalmente pace col mondo. E anche per Mr Bones, l'amico a quattro zampe che lo ha accompagnato negli ultimi sette anni sulla strada, non può esserci che Timbuctù: Willy è gravemente malato, lo travolge con la sua logorrea senza sosta, e gli parla continuamente della morte e della pace che con essa giungerà. Quando Willy lascia, come annunciato sin dalla prima pagina, questo mondo, Mr Bones, sebbene non colto di sorpresa, ne rimarrà stravolto: come cavarsela da solo, dopo aver fedelmente servito un padrone che lo ha sempre trattato come un suo pari? Riuscirà ad abituarsi a una vita borghese, con tanto di cuccia e giardino ben curato, più agiata ma decisamente meno divertente dell'avventuroso passato on the road? E, soprattutto, gli sarà possibile sopravvivere alla perdita della persona più cara al mondo? L'elaborazione del lutto, nella psicologia del cane-uomo Mr Bones, sarà stretta tra la necessità di sopravvivere e l'enorme prostrazione di ritrovarsi, improvvisamente, solo.
La storia di questo cane molto, molto umano (capisce i discorsi, ragiona come un essere umano "imprigionato" in un corpo d'animale) è tenera, divertente, avvincente e scritta benissimo da Paul Auster, uno dei più apprezzati scrittori americani contemporanei, noto al grande pubblico per la famosa Trilogia di New York, per Mr Vertigo e Moon Palace, e per aver sceneggiato due film di successo (Smoke e Blue in the face, oltre a Lulù on the bridge, di cui ha curato anche la regia ma che è passato un po' in sordina). In Timbuctù Auster riesce ad esprimere i sentimenti e le emozioni in maniera profonda e realistica, mai banale, toccando corde segrete che lasciano il lettore soddisfatto, anzi, di più: beato. Auster dice tutto quel che serve, non lascia nulla in sospeso, costruisce la trama e i personaggi con magistrali tocchi di grande scrittura e riempie questo smilzo, godibilissimo romanzo breve di trovate memorabili. Da leggere tutto d'un fiato.
Marco Di Porto



21.2.04
Recensione inviata da Francesca Baroni
Rifugiato in una piccola casa editrice lontano dai riflettori del grande mercato, rischia di passare inosservato questo libro – Cavaliere di Grazia di Franco Mimmi (Aliberti Editore) – che dovrebbe invece spiccare nel panorama italiano per la qualità della scrittura, per il rigore della ricostruzione storica, per la tesi che gli fa da fondamento e lo porta a valicare i confini del romanzo storico. Se si deve fare un accostamento, sarà dunque piuttosto alla Opera in nero della Yourcenar che ai prodotti di genere che stipano gli scaffali delle librerie.
Il protagonista è Andrea di Monforte, cavaliere del cristianissimo Ordine di San Giovanni e di Gerusalemme (gli Ospitalieri, oggi Cavalieri di Malta), che fu espulso dall'Ordine, allora sovrano dell’isola di Rodi, per d'essersi innamorato d'una ragazza ebrea. Ma a quell’isola Andrea fa ritorno a metà del 1522, quando Solimano il Magnifico la cinge d’assedio perché i Cavalieri costituiscono una spina nel fianco dell’impero che sta costruendo. Rodi è allora assai più di un’isola: è un microcosmo ricco di passato, in cui alle storie degli antichi greci si mescolano quelle dei signori cristiani, degli ebrei fuggiti dalla Spagna, di egiziani copti, di mercanti veneziani, di schiavi turchi, mentre al di là delle mura poderose si mescolano nell’esercito assediante, uniti dal nome di Allah, i turchi e gli arabi, gli albanesi e gli armeni, i circassi e i macedoni, gli egiziani e i bulgari. Anche allora (come oggi), uno scontro di civiltà. Anche allora (come oggi), la lotta tra il Bene e il Male dove ognuna delle parti è convinta di rappresentare il Bene, e che sia possibile tracciare la linea divisoria a colpi di spada.
Ma non così Andrea di Monforte. Via da Rodi, divenuto ambasciatore del re cattolico Ferdinando d’Aragona, la sua vita è trascorsa nella frequentazione di corti e sovrani ma anche, soprattutto, degli artisti e scienziati che stanno plasmando il Rinascimento. Andrea diviene così un ponte tra due epoche, l’uomo che rappresenta il passaggio a un nuovo mondo e che propizierà, con la sua influenza sul giovane cavaliere spagnolo Alfonso, la formazione dell’uomo di questo nuovo mondo.
La vicenda avventurosa si trasforma così in un vivido affresco che descrive non solo una situazione storica ma ne dà una precisa lettura politica, che si proietta fino ai giorni nostri. Perché, come scrive l’autore nel commento che pone a chiusa del libro, "Quella di Rodi fu assai più che una grande battaglia: fu uno scontro tra civilizzazioni diverse che in realtà avevano in comune molte cose, tra cui, purtroppo, l’intolleranza reciproca. Sono trascorsi 500 anni, eppure, sia pur con qualche rovesciamento di fronte, la storia ci ripropone ancora oggi una situazione con quello stesso fattore comune: l’intolleranza".
Francesca Baroni



20.2.04
Recensione inviata da Latte & fiele
Gianrico Carofiglio
, Ad occhi chiusi, Edizioni Sellerio, 2003
Scivola via in un soffio, questo secondo Carofiglio. Una scrittura più matura, più incisiva e sicuramente più agile rispetto al precedente, Testimone inconsapevole. Comunque diversa. Più romanzo e meno legal thriller, in una evoluzione - o devoluzione, ma sicuramente non involuzione - che mi ricorda l'ultima Gimenez Bartlett, quella di Serpenti nel paradiso. Dove il professionista del crimine cede il passo all'essere umano.
C'è maggior soggettività, maggiore prospettiva, più vissuto. Anche nella quotidianità professionale, nelle aule di tribunale. Un disincanto accennato nel "primo" Guerriero, che qui diventa coraggio, irriverenza o denuncia. Così la cesura tra ciò che Guerriero pensa e ciò che dice ci rendono partecipi delle bienséances della sua vita quotidiana, a tratti tanto simile alla nostra.
Bellissima Margherita, tributo alle compagne di oggi. Troppo intelligenti per farsi invadenti. Troppo forti per essere necessarie al quotidiano maschile. Troppo deboli, o troppo orgogliose, per chiedere di più.
Un po' di delusione sul finale, forse affrettato, in cui tutto sembra dipanarsi e risolversi - condanna compresa - con eccessiva scioltezza, senza chiamare in causa nuovamente la squisita dialettica forense che qualifica Carofiglio. Complice anche una Claudia inaspettatamente lacrimevole e oltremodo laica, incapace pertanto di conservarsi la simpatia guadagnata in corso d'opera.
Latte & fiele



19.2.04
Recensione inviata da Franco Gialdinelli
Gli eroi son tutti giovani e belli di Luigi Bolognini
Venti ritratti di sportivi del passato lontano e recente: una piccola storia dell' Italia sportiva e non del secolo appena concluso, una sorta di "Che fine avranno fatto?" pieno di sommessa dignità per dei ricordi mai melensi, spesso commoventi a volte divertenti. L'autore racconta di uno sport che oggi non esiste più, ma la vera protagonista è l'umanità degli "Eroi", la loro vita nel complesso, anche al di là dello sport. Scritto con uno stile scarno ed efficacissimo, il libro è l'opera prima di Bolognini, ed è decisamente una partenza tutt'altro che falsa.
Franco G.



7.2.04
Recensione inviata da AleRooTs
Vikram Seth, Autostop per l'Himalaya
Un diario di viaggio, un racconto quasi giorno per giorno del percorso, degli incontri, dei pensieri e delle osservazioni. Autostop per l'Himalaya è scritto interamente in prima persona, nel dipanarsi del viaggio che, durante l'estate del 1983, attraverso la Cina, il Tibel e il Nepal porta l'autore a Delhi, in India.
Il protagonista è un ventinovenne studente indiano, che dopo alcuni anni passati a studiare in Europa e negli Stati Uniti, si trova per delle ricerche a trascorrere due anni a Nanchino, nella Cina Orientale; l'idea è quella di passare le vacanze estive finalmente a casa con la famiglia, ma anziché ritornare con un normale volo aereo, Vikram opta per un percorso "più interessante"; percorso che lo porterà dallo Xinjiang ad attraversare Tibet e Nepal, prima rimediando avventurosi passaggi sui tir diretti a Lhasa, e poi addirittura a piedi per un buon tratto, a causa della recente alluvione che aveva portato via con sé il Ponte dell'Amicizia.
Ho sempre apprezzato i libri "di viaggio", certo non è come viaggiare in prima persona, ma permettono comunque di venire a conoscenza di luoghi e culture che non ci appartengono, di allargare i propri confini mentali, di uscire dalla quotidianità di azioni e paesaggi; da questo punto di vista questo diario-racconto è doppiamente appezzabile: porta alla scoperta di culture lontane, quella intricatissima cinese e quella millenaria e martoriata tibetana, ma questa scoperta avviene attraverso gli occhi e la mente di un giovane indiano, quindi appartenente lui stesso a un popolo lontano con abitudini e stili di vita lontanissime dalle nostre usanze europee o comunque occidentali.
Le pagine corrono via veloci, affascinando e coinvolgendo con le loro incisive descrizioni, e degli ambienti diversissimi che caratterizzano il viaggio, e dei fatti, un po' cronaca un po' storia, che hanno contribuito a formare i luoghi e le persone incontrati, dagli scempi della rivoluzione culturale, alle ambigue conseguenze della divinizzazione maoista, attraverso l'analisi "da dentro" dei mille risvolti dei problematici rapporti fra India e Cina.
E dopo tutto questo, dopo questo viaggio di migliaia di chilometri senza la certezza di poter raggiungere la propria meta, dopo intere settimane passate a muoversi con i mezzi più anomali e a dormire nelle situazioni più improbabili, in una delle ultime pagine l'autore se ne esce con questo pensiero: "Per essere una persona con abitudini fondamentalmente sedentarie come sono io, ho girato abbastanza a lungo; [...] Mi stupisco di quei viaggiatori che vanno in giro per luoghi sconosciuti per anni e anni. Richiede un attitudine mentale capace di essere maggiormente appagata dal presente di quanto sia la mia."
Quando qualche riga sopra parlavo di "diversità dei punti di vista"...
ale



6.2.04
Recensione inviata da Mario Incastrati
Letto e moschetto. Amori, passioni, ipocrisie del ventennio fascista di Simona Vignolo
Se la sala del Mappamondo di Palazzo Venezia potesse parlare racconterebbe le gesta di un uomo, Benito Mussolini, che si vantava di saper trattare la folla con la stessa intensità che merita un rapporto amoroso ma che poi, nell'intimità delle stanze del potere, scopava restando vestito di tutto punto, imprecando frasi ingiuriose all'indirizzo dell'amante in un crescendo erotico lungo come quella manciata di minuti che occorrevano al duce per arrivare all’orgasmo. Bigamo, libertino e perfino cornuto, Benito Mussolini ben incarna le contraddizioni che il regime fascista impose alle camere da letto degli italiani. Contraddizioni analizzate da Simona Vignolo nel suo Letto e moschetto, un viaggio negli amori, nelle passioni ma soprattutto nelle ipocrisie che caratterizzarono il ventennio fascista in campo sessuale. Un campo apparentemente delimitato dall'angusta figura della donna tutta casa e chiesa propagandata dal regime ma, in realtà, assai più intensamente vissuto nei decadenti casini di lusso ove i gerarchi fascisti erano soliti passare il proprio tempo libero. Dalle memorie di anziane tenutarie di bordello sono giunti fino a noi i gusti e le preferenze di quest'umanità in camicia nera: la passera e il culo per il duce, gli occhi e il seno per Galeazzo Ciano, la bocca per Alessandro Pavolini, ancora il culo per Ettore Muti. Erano questi i personaggi che, in un paese povero e contadino come l'Italia, potevano permettersi nottate fatte di mantenute di lusso e coppe di champagne. Il resto del paese faceva l'amore alla chetichella, tra i filari di vigna e nei granai. Poi ci avrebbe pensato la seconda guerra mondiale a far rimpiangere a tutti l'innegabile verità di una vecchia poesiola antifascista dedicata alla mamma del dittatore: "Se Rosa, presa da improvvisa luce / la sera in cui fu concepito il duce / avesse dato al fabbro predappiano / invece della sorca il deretano / l'avrebbe preso in culo quella sera / Rosa soltanto e non l'Italia intera."
Mario Incastrati



2.2.04
Presentazione inviata da Simona Tavella
....Sì: il mio amico mi ha parlato di lui. Sì: mi ha detto come lo chiamano. Luther Blissett. In che senso non sapete cos'è Luther Blissett? Luther Blissett è un nome collettivo, un nome multiplo, tutti quelli che fanno qualcosa e poi si firmano così, artisti e corsari informatici. Un'identità di comodo. Dire Luther Blissett è come dire: niente.
(Carlo Lucarelli, Almost Blue, Einaudi 1997)
Q viene pubblicato nel 1999, ma già da cinque anni Luther Blissett pubblica articoli, tempesta le redazioni dei giornali di notizie sempre rigorosamente credute vere e rivelatesi bufale pazzesche, parla alla radio con voci diverse che hanno sempre lo stesso nome, compone musica, realizza cortometraggi, improvvisa happening; per dirla con le sue stesse parole:
Blissett si propone con forza come uno degli spettri del Millennio che sta per scoccare, un nome collettivo [grazie al quale] soggetti diversi in contesti diversi agiscono portando la stessa maschera, contribuendo a creare la fama di un gigantesco e poliedrico spettro dell' immaginario collettivo.
(Pre-presentazione di Q, Luther Blissett)
Cerchiamo di capire: Luther Blissett sono musicisti, registi, conferenzieri a volto coperto e scrittori.
Scrittori veri, attenzione, non incerti dilettanti, ma persone capaci di raccontare con uno stile omogeneo e avvincente uno dei periodi storici più travagliati d'Europa: i trent'anni che vanno dall'affissione delle Tesi Luterane alla porta della cattedrale di Wittemberg al concilio di Trento; anni raccontati nel romanzo da uno che c'era, che ne vede e passa di tutti i colori, che muore come studentello di teologia per rinascere successivamente agitatore con Thomas Muntzer, anabattista a Munster, truffatore ad Anversa, tenutario di bordelli a Venezia, stampatore in giro per l' Italia, monaco eretico vicino Ferrara, mercante a Istanbul. Sappiamo di lui che aspetto abbia ma non il suo nome: continua a cambiarlo, ma sotto qualunque identità porta avanti con coerenza determinazione rabbia ferocia tristezza gioia il suo piano: dare voci, armi, soldi a chi abbia voglia di cambiare le regole del gioco, a chi non si accontenta, a chi non vuole chinare la testa.
Ma il Nostro (come tutti gli eroi che si rispettino) ha anche un nemico: Qoelet, Q appunto, il suo alter ego, che per la legge dei contrari che entrano in rotta di collisione ha un nome solo che conosciamo bene ed un solo mestiere: quello di informatore ed esecutore di ordini del cardinale Giovanni Pietro Carafa: Grande Vecchio del potere di Roma, il cui unico scopo non è il potere personale, non solo almeno, ma anche e soprattutto che la Chiesa continui in eterno a esercitare il controllo sulle coscienze e per raggiungere tale obbiettivo è disposto a cucire e disfare alleanze, a vendere, a comprare, a tradire. Carafa è la mente, Q il consigliere e l'esecutore di cui sappiamo tutto, ma fino alla fine non conosciamo il volto.
Se Q fosse solo questo sarebbe forse già abbastanza: un bel romanzone storico, pieno di colpi di scena; finalmente qualcosa di diverso dagli scrittori ossessionati dalla contemplazione compiaciuta del proprio smisurato ego, dediti alla descrizione minuziosa di ansie, tic, manie proprie che - grazie alla loro Meravigliosa Arte della Scrittura (una prosa spesso ombrosa e intellettualoide da diario metropolitano) diventano paradigmatiche dell'universa inquietudine del mondo occidentale.
A mio avviso però la vera forza di Q è che L. Blissett abolisce (oltre all'unità di tempo, luogo e azione) il Personaggio Principale. Una vera rivoluzione, se ci pensate. Q è un arazzo, un enorme affresco in cui si colgono scene figure volti gruppi isolati, ma in cui tutti i personaggi, a ben guardare, sono disegnati con la stessa dimensione, con la stessa cura: hanno tutti la stessa rilevanza rispetto al racconto. Perfino i due antagonisti, Senza Nome e Senza Volto, per loro stessa ammissione sono figure sullo sfondo. Non esiste il primo piano, esiste la carrellata che inquadra e pone alla ribalta di volta in volta eretici, cardinali, papi marrani, soldati, puttane, gentildonne, truffatori... I veri protagonisti non sono gli uomini, sono le idee, il denaro, il potere.
Il successo è clamoroso, tanto è singolare l'idea, tanto accurata e piacevole la scrittura che molti hanno pensato a un grande scrittore celato dietro l'anonimato. Siamo seri: quattro signori Nessuno che arrivano a tanto?!? Nahh, dietro dev'esserci Qualcuno! ...Eco? ...Lucarelli? Comincia la caccia all'uomo. E posso solo immaginare le risate dei Magnifici Quattro.
Simona



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