Letture e riletture


29.12.04
Recensione inviata da Franco Gialdinelli
Robert Ford, Il Maestro (traduzione di Guido Calza e Alessandro Peroni)
Ogni tanto mi capita di comprare libri "al buio", nel senso di acquistarne senza sapere prima alcunché, né sul libro stesso né sull'autore.
Sinceramente però l'acquisto non è mai del tutto al buio: un'occhiata al risvolto della seconda di copertina col commento alla trama, una alla biografia dell'autore, una sfogliata più o meno a caso tra le pagine per capire un po' dello stile e del ritmo, bastano di solito a farmi un'idea che, devo dire, raramente poi risulta sbagliata.
Io sono musicista per hobby e del libro che ho appena finito di leggere mi ha attratto a suo tempo la copertina, la foto in bianco e nero e controluce delle mani di un direttore d'orchestra in uno dei gesti più classici: parallele con i palmi in basso e la bacchetta tra pollice e indice della destra; titolo: Il Maestro, di Robert Ford.
Un'intestazione in piccolo sulla copertina stessa recita: "Si può rappresentare la sensualità in modi diversi e Robert Ford, nel Maestro, scrive meravigliosamente del piacere viscerale di ascoltare e fare musica".
Io di solito odio le intestazioni in copertina, mi sanno di piazzista che cerca di venderti l'aspirapolvere a tutti i costi.
In questo caso però si trattava di musica, così mi sono spinto a guardare anche il commento.
Berlino 1989, nei giorni della caduta del Muro, in una scuola di musica s'intrecciano le storie di tre personaggi: il vecchio, grande e austero direttore d'orchestra, che dopo la guerra e il campo di concentramento si è applicato anima e corpo all'insegnamento e le cui lezioni sono più che altro successivi passi d'iniziazione; il giovane direttore americano, talentuoso ma afflitto da una grave insicurezza, che viene a studiare da lui; la sensuale ed enigmatica oboista fuggita dalla DDR.
Il rapporto amore-odio fra allievo e maestro, i travagli psicologici del giovane direttore, la sua storia con la ragazza, sfuggente, passionale e misteriosa... dei bei cliché, non c'è che dire!
Sfoglio qualche pagina al centro, qualche inizio di capitolo: nulla che brilli, sembra tutto uguale, sembra che non succeda granché, stile regolare, se non piatto.
La biografia parla di uno scrittore americano al suo esordio come romanziere: ha studiato musica a Yale e scrittura ad Austin e ha all'attivo anche qualche commedia e dei racconti.
Editrice Ponte alle Grazie, 286 pagine, € 14,00. Mica poco. Boh, che faccio? Lo prendo?
Lo prendo.
E lo leggo... praticamente tutto d'un fiato!
Perché Robert Ford scrittura e musica le ha studiate proprio bene entrambe: scrive in uno stile essenziale e regolare, ma i ritmi sono regolati al millisecondo in modo tale da non darti modo di staccare l'attenzione dalle frasi se non, e a malincuore, quando ti prende la stanchezza; in più conosce profondamente ciò di cui parla, cioè la musica e, soprattutto, i musicisti. Ford è poi indubbiamente un furbone: lo sfondo della Germania nei giorni che preludono la riunificazione è di per se stesso un canovaccio grandioso, su cui tessere una trama diventa facile, ma il suo grande merito è di aver corso il rischio di mettere in scena figure e situazioni che avrebbero potuto facilmente essere degli stereotipi, facendole invece risaltare come classiche; maledettamente difficile lavorare con gli archetipi senza cadere nel luogo comune, ma lui ci prova e ci riesce alla grande.
Bisogna ammettere che essere musicisti, anche dilettanti come il sottoscritto, aiuta molto nell'affrontare questo libro, che è comunque di lettura assolutamente non difficile, ma se volete godervelo appieno provate a leggerlo come un musicista ascolta la musica o come uno chef gusta un piatto: riconoscendo e assaporando il modo con cui l'artista gestisce le componenti dell'intreccio delle note per la musica, dell'impasto degli ingredienti nel caso della cucina e della trama delle parole per la letteratura.
Di certo ne verrà un valore aggiunto per una lettura comunque assolutamente piacevole e avvincente.
Franco Gialdinelli



28.12.04
Recensione inviata da Ale Roots
Disturbo della quiete pubblica di Richard Yates (traduzione di Mirella Miotti)
Devo ringraziare la casa editrice Minimum Fax, che con la sua collana 'Classics' mi ha permesso di scoprire e apprezzare tra gli altri due fondamentali scrittori americani altrimenti praticamente introvabili in Italia: John Barth e Richard Yates.
Di quest'ultimo è Disturbo della quiete pubblica che, come il precedente Revolutionary road prova a fare luce sul lato oscuro del 'sogno americano', puntando i riflettori su un -apparentemente- normale rappresentante della middle class, il newyorkese John Wilder, sposato e con un figlio, che nonostante la sconfitta universitaria riesce a portare avanti una brillante carriera nel campo della pubblicità (il pubblicitario insoddisfatto è un po' un cliché del cinema italiano dai '90 in poi: ecco, Yates ci era già arrivato nel 1975) e che sembra destinato a una tranquilla vita di soddisfazioni professionali e gioie familiari. E invece il libro è proprio la storia dal progressivo allontamento di Wilder dalla normalità, normalità intesa sia come tranquillo menage familiare, sia come normalità e stabilità psicologica.
Qualche considerazione in ordine sparso.
Due temi trasversali alla vicenda: Wilder è praticamente un alcolizzato, ma un po' tutti i personaggi dei romanzi di Yates bevono molto -uno dei tanti spunti autobiografici che costellano il libro- l'alcool appare come un elemento necessario per la sopravvivenza, e, cosa rara in letteratura, anche gli Alcolisti Anonimi si dimostrano vani e inadeguati.
E poi il rapporto tra film e libri, tra cinema e lettura: io non sono la persona più obiettiva in questo, ma l'impressione è che Yates abbia velatamente voluto far passare il messaggio della superiorità della letteratura, dei libri, rispetto al cinema; è il cinema il pallino, il sogno di Wilder, ed è il cinema che lo porterà al collasso definitivo; e anche nella 'lotta' per la ragazza verrà sconfitto, lui che legge lentamente, e a cui questa difficoltà nella lettura ha già portato difficoltà e fallimenti, proprio da uno scrittore; anche Janice, la signora Wilder, è una forte lettrice (altra causa dei complessi, del senso di inadeguatezza di John), e alla fine lei comunque otterrà quello che cercava dalla vita: tutti aspetti che sembrano indicare nella parola scritta il cavallo vincente, e nel cinema una fonte solo di guai e illusioni.
Il romanzo è interamente scritto in terza persona, ma a venirci presentato, a parte le primissime righe, è esclusivamente il punto di vista di Wilder; questa tecnica si rivela particolarmente efficace nel rendere gli episodi di grave esaurimento cui il protagonista va incontro, il suo progressivo staccarsi dalla realtà: il lettore si trova a sua insaputa trascinato nel mondo di percezioni alterate e dissociazione di cui Wilder è vittima, e riesce a rendersene conto sempre con qualche istante di ritardo, e con un certo senso di spaesamento; queste sono sicuramente tra le pagine più riuscite del romanzo.
Parlando di pagine ben riuscite, impossibile non citare l'incipit e l'excipit del libro: tra i più fulminanti e efficaci che mi sia capitato di leggere.
Disturbo della quiete pubblica si apre con una telefonata di Wilder alla moglie; il marito chiama per dirle che quella sera non può tornare a casa, lei chiede spiegazioni, e lui dopo qualche farneticazione finalmente trova la forza per tirare fuori il groppo che ha dentro: "Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due".
Anche l'ultima scena (sto per descrivere dettagliatamente le ultime righe del libro, quindi se leggete oltre siatene consapevoli) vede protagonisti i due Wilder, oramai non più marito e moglie; lui è rinchiuso in una clinica psichiatrica della costa ovest, lei è in vacanza col nuovo marito, il miglior amico di John Wilder (questo delle coppie sposate di amici che finiscono per essere terreno di coltura per tradimenti e fallimenti matrimoniali è un altro dei temi tipici di Yates), e lo va a trovare. "John, non hai nessun progetto o... voglio dire... non hai mai pensato a quello che farai una volta uscito di qui?". Lui sembrò perplesso, come sei gli avesse proposto un indovinello. "Uscire di qui?", disse.
Scene efficaci e battute ad effetto: elementi senza dubbio molto cinematografici: d'altronde cos'è la storia di John Wilder, che insegue il sogno di un film e finisce definitivamente sconfitto, se non proprio la sceneggiatura del film stesso?
...ale...



27.12.04
Contributo inviato da Milena
La versione di Barney, Mordecai Richler
Deve essere un libro invernale... anch'io lo lessi a dicembre, due anni fa. Superò con la lode la prova treno, categoria "ammazzaore". Sai quando hai 8 ore di treno ir da affrontare (per interderci rimini - milano andata e ritorno) e il libro te le converte in un piacere che annebbia qualsiasi degli innumerevoli disagi che una creatura umana può avvertire viaggiando su un treno delle ferrovie italiane? Ecco. È il caso della Versione di Barney!
Mi (La Nonna Volante)



21.12.04
Mordecai Richler, La versione di Barney
L'ho letto nella traduzione di Matteo Codignola, uscita nel 2000 per Adelphi (l'originale è del 1997).
È un libro bellissimo, commovente, divertente. Lo è dalla prima all'ultima parola, sebbene inizi con un'espressione ostile e termini con un'imprecazione. È la storia di una vita da adulto non cresciuto, la storia di un amore incommensurabile, la storia di una storia, del fatto di raccontarla e del modo di farlo.
Il protagonista di questa autobiografia divagante è Barney Panofsky, bilioso 67enne fanatico di hockey, goloso fino all'autodistruzione, tre volte sposato, tre volte padre, tre volte innamorato ma di una sola donna ("Miriam, mia adorata Miriam"). Canadese con radici ebraiche, conduce a Montreal una vita in palese contraddizione con i sogni del milieu artistico frequentato in gioventù durante la scapigliata esperienza parigina.
La scansione temporale, per quanto dichiarata nella datazione delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo, viene continuamente disattesa dal narratore, che salta di palo in frasca e da un periodo all'altro. Le digressioni, continue, spassose, drammatiche, evidenziano la discrepanza tra desiderio e realtà, le carenze affettive e i vuoti di memoria che sovvertono il meccanismo diaristico. Tristram Shandy è esplicitamente menzionato e in certi momenti la tortuosità narrativa, peraltro sempre godibilissima, gli si avvicina davvero.
È un raccontare figlio del paradosso: tra l'autore e il lettore si frappone il protagonista che scrive riproponendosi di far chiarezza sugli eventi, ma che si autodefinisce "un contaballe". Al suo primogenito Mike è affidato il compito di revisione del manoscritto, ma nemmeno le note che corredano il testo riescono a diradare le ombre di cui si ammanta la "verità", fino all'epilogo che fornirà nuove chiavi interpretative, non solo sull'intreccio ma sui livelli di lettura.
Un paradosso epistemologico che richiama la cultura yiddish, in grado di permeare la scrittura nel lessico, nello humour e anche nel ritmo, che è quello delle associazioni d'idee, capace di circonvoluzioni amaramente comiche come di portentose accelerazioni negli scambi dialogici, molto caratterizzanti.
Il tutto visto attraverso il velo acre di chi redige le proprie memorie patendo problemi di memoria e reagisce con rabbia sorda al peso della fisicità e del fallimento personale: "Io detesto quasi tutti quelli che conosco, ma nessuno quanto il molto disonorevole Barney Panofsky."
In realtà i temi toccati sono innumerevoli quanto le allusioni e le sfumature: per questo, oltre che per il piacere, è sicuramente un libro da leggere e rileggere.
Giulio Pianese, ovvero Zu



18.12.04
Recensione inviata da E.M.
Per consolarsi dal senso d'estraniamento e di sfasamento temporale che ci ammorba durante il periodo natalizio consiglio la lettura di Babbo Natale giustiziato di Claude Levi-Strauss (traduzione di Clara Caruso per Sellerio).
Queste poche paginette (77) mi han riconciliato con l'idea del Natale perché ne illustrano i collegamenti non tanto con la tradizione cattolica, quanto con il culto pagano ben più antico e radicato delle stagioni, dove per pagano s'intendono tutti quei riti propiziatori all'alternarsi delle stagioni, comportamenti che tanto più hanno valore quanto più sono ripetuti, ritualizzati, resi riti.
L'inverno è l'inferno, il ritorno dei morti, il ritorno temuto alla morte, alla sospensione dalla vita, necessario per far germinare le sementi e consentire il ripetersi ciclico della vita. È quindi essenziale che i riti più importanti si celebrino nel periodo fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera.
Lungo un millennio, elementi molto antichi sono stati rimescolati ed elaborati con l'aggiunta di nuovi che perpetuano e rafforzano il rito: i saturnali (durante i quali si facevano doni ai bimbi, non solo quello a cui di sicuro avete già pensato), il culto degli alberi - da qui l'albero di natale e il vischio, e via discorrendo.
Ho scoperto anche perché si fanno i regali ai bimbi - e perché è bello e importante farlo.
Si scopre come davvero le ragioni apparenti che attribuiamo agli avvenimenti sono spesso molto diverse dalle cause effettive: dietro le figure mascherate delle diverse tradizioni si celano i morti, così come i regali a parenti, amici e bambini erano originariamente destinati al culto dei morti. Nella percezione arcaica della realtà i bimbi rappresentano per la società quello che le sementi costituiscono per l'agricoltura, la rinascita della vegetazione. Rivestono così il ruolo di mediatori all'interno della rappresentazione sociale della contrapposizione vita/morte.
Babbo Natale è ricondotto, attraverso una serie di collegamenti lunghi un millennio, al culto di Saturno e ai festeggiamenti dei Saturnali romani (tra il 17 e il 23 dicembre) dove gli eccessi sono un "elemento costitutivo dell'economia del sacro... spezzano la barriera fra uomo società natura e dei; aiutano la circolazione della forza".
Babbo Natale è un re, perché vestito di rosso, è anziano ed evoca l'autorità benevola degli anziani, ma è la divinità di una sola fascia d'età della popolazione: peccato che la reale differenza tra babbo natale e una divinità vera e propria è che gli adulti non credono in lui anche se spingono i più piccoli a farlo.
È, infatti, per tutti un vero rito di passaggio e iniziazione il mistero svelato della vera identità di babbo natale (come sempre, il disvelamento dei segreti consente agli adulti di accogliere nella loro comunità l'adolescente).
Così, da un paio d'anni a questa parte al comparire delle prime luminarie in città, rileggo velocemente questo librettino, per aiutarmi a sfrondare il "periodo natalizio" dal suo fastidioso aspetto consumistico, e a concentrarmi su quello godereccio!
firma [Love is a Virus]



15.12.04
Recensione inviata da Franco Gialdinelli
Ho appena terminato di leggere un testo sulla storia della scienza di uno dei più famosi divulgatori scientifici, John Gribbin: L'avventura della scienza moderna (traduzione di T.Cannillo per Longanesi, 620 pagg., € 26,00).
Gran parte della prima metà del libro è costituita dalle biografie degli scienziati, intrecciate con la storia delle loro scoperte, ma da lì in poi l'autore stesso dichiara di essere costretto a trattare più sommariamente le biografie per occuparsi maggiormente delle scoperte; questo perché a un certo punto della storia della scienza "... danza e danzatori finiscono per confondersi". In effetti, quando si lavora in maggior numero su una cosa, la paternità delle scoperte si diluisce fra più persone, conseguenza questa del fatto che, mentre fino a un certo periodo storico (facciamo massimo fino a Darwin, tutta la prima metà dell'ottocento) solo i benestanti potevano permettersi il lusso di un'istruzione tale da consentire loro di fare scienza (anche un'istruzione scolare era già moltissimo), in seguito, con il progredire della scolarizzazione - e della comunicazione - di massa, anche persone non ricche potevano studiare abbastanza bene da riuscire a fare scoperte scientifiche importanti: già Alfred Wallace, che per pochissimo non bruciò a Darwin la teoria dell'evoluzione per selezione naturale, era assolutamente un proletario. Questo ha in seguito comportato che un oscuro impiegato dell'ufficio brevetti svizzero, cui una tesi di dottorato per l'ammissione a una prestigiosa scuola era stata respinta poco tempo prima, arrivasse poi a dover chiedere pubblicamente perdono a Newton per aver, con solide argomentazioni matematiche e fisiche, demolito in un soffio il concetto di assolutezza dello spazio e del tempo proclamato più di due secoli prima dal grande scienziato inglese e che era ancora allora, inizio '900, uno dei pilastri delle fisica moderna.
Questa cosa per me è grande e importante, perché dimostra che, magari molto lentamente, nel corso dei secoli la cultura e il sapere si sono allargati a una fascia sempre maggiore di persone, e siccome ritengo che la via per l'emancipazione della gente di tutto il mondo dalla povertà e dalla guerra passi obbligatoriamente per la presa di coscienza che solo la cultura può dare, vuol dire che il mondo di oggi è comunque migliore di quello passato e che ci sono grandi spazi per migliorare. Magari ci serviranno tempi lunghi, ma quelli attuali non mi sembrano davvero peggiori di quelli andati.
Il libro è comunque bellissimo e godibilissimo.
Franco G.



29.11.04
Stephen King, Bag of Bones, 1998
Trovato in biblioteca, lo afferrai superando lo snobismo perché era gratis e in lingua originale. Non me ne sono affatto pentito. Si vede che è scritto da chi ci sa fare, che tutto è perfettamente equilibrato (dialoghi e descrizioni, intreccio e digressioni, narrazione e personaggi, interiorità e fisicità, sensazioni e azione), che il lettore viene condotto passo passo, magari pure troppo, però sono stato contento di rompere il ghiaccio nei confronti di un nome che mi chiamava da quando vidi The Green Mile e seppi che era tratto da un suo romanzo.
Il protagonista è uno scrittore di best seller cui la recente vedovanza causa un blocco creativo (di qui interessanti accenni metanarrativi, alcuni perfino non esplicitati, oh oh!). I cambiamenti del suo modus vivendi che ne conseguono lo portano a nuove frequentazioni sociali e sentimentali, tuffandolo in vicende via via più coinvolgenti, drammatiche, concitate, fino alla catarsi.
La commistione tra realismo e soprannaturale è misurata, dosata con cura omeopatica in un crescendo graduale e apparentemente inevitabile. Tanto che ripercorrendo le prime pagine e le penultime il lettore si chiede come abbia potuto farsi trascinare tanto docilmente nell'inspiegabile in modo credibile. Potenza di una scrittura dalla grande coerenza interna.
In italiano si trova la traduzione di Tullio Dobner, Mucchio d'ossa, del 1999 per Sperling & Kupfer.
Giulio Pianese, ovvero Zu



29.10.04
Recensione inviata da Piperita
Luigi Trucillo, Le amorose
Quando si leggono le poesie di Trucillo sembra di ricordarsi finalmente di qualcosa di sepolto molto a fondo. Si aspettava senza saperlo che delle parole ci riportassero a un'altra vita trascurata. E subito ci si sente giustificati nell'assecondare la propria sensibilità più sottile. Tanto basta per un libro di poesia, non vi pare?
Dalla postfazione di Nadia Fusini:
"C'è una felice ambiguità della poesia che consiglia una posizione guardinga rispetto a ogni interpretazione. A ogni atto, cioè, di appropriazione. La poesia educa piuttosto allo spossessamento, coltiva in noi il sentimento dell'espropriazione. Così, di fronte a Le amorose, che ho appena letto, io non so se le amorose sono le poesie, o le morose a cui le poesie sono rivolte. Donne che a volte hanno dei nomi proprii: Fulvia, Marcella, Annalisa. Altre volte anonime. Come le poesie stesse che non hanno titolo. Non sempre. So però che l'amore è un colloquio. E la poesia anche".
Piperita



21.10.04
Recensione inviata da Ale Roots
Philip K.Dick, Follia per sette clan
Traduzione di Vittorio Curtoni e Gianni Montanari (titolo originale: Clans of the Alphane moon)

Mi capita spesso che, parlando di libri, appena pronuncio la parola fantascienza, l'interlocutore storca il naso, inorridendo anche solo all'idea di leggere -nella sua visione delle cose- di alieni vermiformi, combattimenti tra astronavi o cose simili.
Ed è un vero peccato perché, liberandosi dai pregiudizi, all'interno della produzione fantascientifica si possono scoprire veri e propri gioielli nascosti.
È questo il caso di Follia per sette clan, opera considerata tra le minori di Philip K. Dick, capitatami fra le mani nella forma di un Urania del 1998, precisamente l'Urania numero 1344 nella traduzione di Vittorio Curtoni e Gianni Montanari; purtroppo qualche ricerca mi ha confermato il sospetto che questa fosse l'unica edizione mai apparsa in Italia, con la conseguente difficile reperibilità tipica di ogni Urania.
La trama in sé è decisamente complessa, inutile che tenti di riassumerla qua; più interessante può essere dare un'idea dello scenario in cui è ambientato il tutto: la Terra è decisamente Dick-style, con molti lati oscuri e la presenza "naturale" di psi (individui con spiccate e specifiche abilità mentali/soprannaturali), ma il fulcro del romanzo è su Alfa II, una luna di un altro sistema solare, su cui i terrestri avevano stabilito un ospedale psichiatrico (forse "manicomio" sarebbe una definizione più azzeccata), ma che circa 25 anni addietro si erano trovati costretti ad abbandonare a causa di una guerra interplanetaria.
I ricoverati dell'ospedale si ritrovano quindi liberi di evolvere e di cosituire una nuova civiltà, e contro ogni aspettativa, riescono a organizzarsi in una società sufficientemente stabile: gli abitanti della luna si dividono spontaneamente in sette diversi clan, ognuno dei quali si stabilisce in una diversa città che rispecchia la patologia dei suoi abitanti; così gli ebefrenici (che si autodefiniscono eb) vivono in una fatiscentissima bidonville chiamata Gandhiville e i maniaci (mani) fondano un insediamento ultra-militarizzato, l'Altura Da Vinci.
La psicologia dell'uomo, e le sue -cosiddette- malattie e deviazioni, è questo il filo che percorre il libro dalla prima all'ultima pagina, nell'intento di porre qualche domanda e provare a suggerire non risposte, ma perlomeno qualche riflessione.
Che immagine sempre affascinante, la mente umana, così profonda e complessa, che si rivolge verso sé stessa, e tenta di esplicare il suo stesso mistero.
- Sono pazzo? - chiese a Lord Running Clam. [...]
- "Pazzo" - rispose la creatura bavosa - è, strettamente parlando, un termine legale.


- Ero abituata a pensare di essere così... Mi capisci. Così completamente diversa dai miei pazienti. Loro erano malati, e io no. Adesso... - Divenne silenziosa.
(nota: è una psicologa che parla, rivolta al marito)
- Non c'è poi quella gran differenza - finì lui per lei.
- Tu non te lo senti dentro, no? Di essere sostanzialmente differente da me... Dopotutto i test dicono che tu sei sano di mente, e io no.
- È solo questione di gradi - disse lui, ed era proprio quello che intendeva.
Ma l'importanza dei temi trattati non tragga in inganno: Follia per sette clan è una lettura appassionante, veloce e avvincente, e chiusa l'ultima pagina vi ritroverete con la mente in movimento, e soddisfatti dello sforzo fatto per prendere in mano per una volta un romanzo di -brr- fantascienza.
...ale...



20.10.04
Recensione inviata da Simona Tavella
Il codice Da Vinci, Dan Brown

"...Era peggio che immorale, era scritto male." (Oscar Wilde)

Più vado avanti, più mi accorgo della profonda saggezza di quelle che con arroganza giovanile chiamavo sprezzante "frasi fatte". Per esempio: è inutile lottare contro il destino. Verissimo ahimè... da brava snob, ho sempre diffidato degli eventi editoriali, dei capolavori annunciati come tali ancor prima dell'arrivo in libreria, dei milioni di copie vendute in tutto il mondo e così, per mesi, non ho fatto che scappare, cambiavo strada al solo vedere in lontananza un sorriso, Quel Sorriso, ho cambiato canale rabbiosamente al solo sentire pronunciare un Nome, ho spesso scosso il capo ascoltando resoconti di notti in bianco in febbrile attesa del disvelarsi di segreti arcani. Fin quando, una settimana fa in libreria, me lo sono trovato davanti all'improvviso e ho capito che era arrivato il capolinea: disfatta, ho ceduto e ho comprato Il codice Da Vinci.
Cosa dire a mia discolpa? Cercavo un libro divertente, senza pretese, da leggere senza impegnare troppo i miei poveri neuroni; basta fare la schizzinosa per partito preso! Oltretutto la storia delle religioni mi ha sempre interessato, e sull'argomento ho letto di tutto, dai cosiddetti testi fondamentali alle saghe fantasy di Marion Zimmer Bradley. E allora? Allora il guaio è che Il codice Da Vinci non è un libro, ma una scommessa persa, una buona occasione mancata, perché l'argomento è interessante e avrebbe meritato una scrittura più curata, uno stile più omogeneo. Dan Brown, invece, ha buttato giù un patchwork di citazioni, di ripetizioni, di ovvietà, fatte passare per arcani svelati, di topos letterari che apparirebbero desueti anche alla buonanima di Salgari.
Ma procediamo con ordine: la storia si finge in Francia ai nostri giorni; il libro comincia con un feroce e inspiegabile assassinio nei corridoi notturni e deserti del Louvre (vi ricorda Belfagor? Anche a me, appunto...). Combinazione, a Parigi è appena arrivato, su cortese invito della vittima, un famosissimo studioso del simbolismo nella storia delle religioni, bello e affascinante, che si mette nei guai più assurdi alla velocità del fulmine (Indiana Jones? Già...) e siccome l'uomo assassinato, oltre a essere un'eminenza nel campo della storia dell'arte è un eccellente enigmista, prima di morire riesce a disseminare sulla scena del delitto una serie di indizi riconoscibili e interpretabili nelle intenzioni del defunto solo da sua nipote, eminente crittologa - ovviamente giovane, bella, spavalda e sicura di sé fino all'altrui esasperazione. La fanciulla e il clone di Harrison Ford si avventurano impavidi sul terreno minato della ricerca del Graal e, come da tradizione hollywoodiana consolidata, una serie di Cattivi Soggetti cercherà invano di fermarli. Ma tra scontri a fuoco, indovinelli a doppio senso e rebus disseminati in giro tra Francia e Inghilterra, il Graal si troverà dove meno ce lo aspettiamo, non senza avere fatto sudare ai nostri eroi le famose sette camicie.
In realtà, per interpretare gli indizi e procedere nella caccia al tesoro che Dan Brown ci propone, basta essere affezionati lettori della Settimana Enigmistica e/o di Astra, ma l'autore continua con indovinelli, rebus, anagrammi, simboli da interpretare, prove di logica dinnanzi alle quali sia la nipote sia Robert Langdon, professore di Simbologia Religiosa, rimangono esterrefatti e basiti come due imbecilli (ma come, la più promettente crittologa di Francia non riesce a riconoscere un manoscritto vergato da destra a sinistra se non dopo cinque pagine di ipotesi a vuoto?! E il miglior esperto di simboli d'America non sa che la stella di Davide è formata dall'intersecarsi di due triangoli che rappresentano il cielo e la terra?!? Per favore...); ma questo sarebbe il minore dei mali: il vero guaio a mio avviso è che la narrazione che in un thriller dovrebbe essere snella, asciutta, scorrevole, è frammentata e inframmezzata da spiegazioni appiccicate senza vera necessità e che all'apparenza non hanno altro scopo che quello di dimostrare al colto e inclito pubblico che Dan Brown si è documentato a lungo prima di mettere mano al libro.
Ora, i romanzi di fantasy sono spesso buffi, incongrui, a volte hanno trame ripetitive - parlo delle opere di M.Z. Bradley in particolare - ma mi hanno sempre divertito, riescono infatti partendo da leggende conosciute a creare situazioni godibili, senza per questo pretendere di insegnare o di stupire a tutti i costi chi legge. Il codice Da Vinci è pretenzioso, supponente, ma non aggiunge e non toglie niente a quanto è già noto ai più; la misoginia della chiesa cattolica non è un mistero, credo, per nessuno: non occorre essere studiosi di storia delle religioni per averne sentito parlare, così come basta avere seguito un po' di cronaca degli ultimi dieci anni per avere sentito parlare - male - a torto o a ragione dell'Opus Dei.
Peccato, ripeto, lo spunto era buono, sono incavolata come di fronte a un'orata freschissima cotta malamente da un cuoco frettoloso. Adesso poi, pare che dal libro si farà un film: che Monna Lisa abbia pietà di noi.
Simona



10.10.04
Recensione inviata da Ale Roots
Infinite Jest, di David Foster Wallace
Ok, ho finito di leggere Infinite Jest. Quando esce Infinite Jest II?
Sinceramente neanch'io -fino a qualche centinaio di pagine prima- avrei potuto prevedere un commento "a caldo" di questo tipo, e invece a quanto pare a David Foster Wallace la magia è proprio riuscita, senza bisogno di colpi di scena alla Codice da Vinci, né di finali a sorpresa stile Dieci piccoli indiani.
Parlare di questo libro con chi non l'ha letto è una difficile impresa: inutile provare a riassumerne la trama o i temi, o a descrivere qua le caratteristiche dell'"esecuzione letteraria". Quello che viene chiesto è quasi un atto di fede: IJ richiede tempo e dedizione, ma sa ripagare con grandi soddisfazioni intellettuali.
Qualche mezz'ora dopo aver terminato la lettura, sono salito su un treno, e lì ho avuto modo di ripensare al libro, e al perchè mi avesse colpito così tanto. Ne sono usciti una serie di elementi e annotazioni, che ho scritto sulla prima cosa che mi sia capitata sottomano, le pagine bianche in fondo al Giovane Holden, che mi accompagnava pronto per essere letto. E, rivedendola ora, questa associazione ha davvero un suo perché: in fondo entrambi possono essere ricondotti al "genere" del romanzo di formazione, ed entrambi esprimono il senso di insoddisfazione e inadeguatezza di protagonisti, che in un modo o nell'altro mal si adattano alla società in cui sono immersi.
Provo a riprendere qua quelle considerazioni, espandendole solo quel tanto che basta a renderle comprensibili ad altri oltre che a me; sono pensieri slegati e senza un filo organico a tenerli insieme, tenetene conto mentre leggete.

"Lui in Persona", anche detto "La cicogna matta", o "La cicogna triste", Incandenza senior, padre di Hal e sposo della Mami, è una delle figure più costantemente presenti nel corso del libro, benché non possa prendere parte attivamente alle vicende narrate, visto che si è macabramente suicidato (facendosi esplodere la testa nel forno a microonde, sic) ben prima dell'"Anno Del Pannolone Per Adulti Depend" in cui sono situate quasi la totalità delle vicende narrate (se la memoria non mi sta giocando brutti scherzi, l'unica eccezione è proprio la prima "scena", quella del tentativo di ammissione al college di un irriconoscibile Hal). Presente nei ricordi dei figli, e presente attraverso i suoi lavori, i suoi film. Egli, o meglio, lui, era infatti un regista cinematografico, un artista geniale ed eccentrico. E, come si intuisce man mano che si procede nella lettura, è proprio l'ultima delle sue opere, Infinite Jest, l'elemento chiave che tiene unite le decine di trame che si intrecciano.
In diversi punti si descrivono e analizzano le sue produzioni, le sue sperimentazioni, così all'avanguardia da essere aprés-guarde, in un susseguirsi continuo di stoccate satiriche ora alle cricche degli artisti contemporanei, ora all'apparato della critica. Si intravede un parallelo fra le strutture dei film di Incandenza e la struttura del libro stesso: a un certo punto il dicorso si concentra sui figuranti, sulle comparse che a centinaia compaiono anonimi in ogni film: differenziandosi da tutti gli altri, nei suoi film i figuranti hanno il dono della parola, non sono solo mute presenza scenografiche, a costo di inficiare con questa scelta la comprensibilità di ciò che dicono o fanno i personaggi principali. E allo stesso modo è nel libro, dove sono decine le figure, le vite, le storie che si alternano, e l'attenzione, lo spazio che viene dato a ciascuna di queste non è in nessun modo proporzionale all'importanza del ruolo che tale figura va a ricoprire nel mosaico generale.
Accennavo ai personaggi del libro: è innegabile che la gran parte, direi tutti, sono personaggi "anomali", non ci sono uomini comuni o persone normali; le storie che si portano dietro sono strane, forti, vicino -se non oltre- ai limiti dell'irrealtà. Eppure DFW riesce a fare in modo che tali "assurdità" risultino incidentali, e, anche se i presupposti potrebbero esserci, si ha la minima impressione di star leggendo un romanzo "fantastico", o di fantascienza, anche se le caratteristiche sono quelle di un'ucronia in piena regola.
Personaggi "estremi", e che lo stesso riescono a portare all'identificazione: non in quello che sono o in quello che fanno, ma nel nucleo del loro malessere, in quella "inadeguatezza" rispetto alla società che li affligge e segna le loro vite; società (americana, occidentale) che viene sottoposta a una critica spietata e su più fronti, ma mai direttamente, sempre e solo attraverso gli effetti (nefasti) che ha sulle persone. E per fare questo le vite dei personaggi sono descritte minuziosamente, a un livello di dettaglio quasi maniacale, spesso una quasi-cronaca minuto per minuto delle loro azioni, dei loro spostamenti, senza però mai esprimere neanche il minimo giudizio di merito: nelle pagine i fatti, le interpretazioni sono tutte a carico del lettore.
"Wallace fa parte, insieme a Dave Eggers e alcuni altri, dei nuovi americani post-post-moderni, perfino post-bee (Bret Easton Ellis). Funambolici, teneri e crudeli (sì sì), fluviali, sfottenti, ipercolti, hanno la pretesa di raccogliere tutta l'eredità e di raccontarci ancora la vita (tutta) e l'America. Ci riescono anche." (hal)
Così qualcuno che se ne intende davvero mi descriveva questa recentissima corrente letteraria, di cui Infinite Jest rappresenta forse l'esempio massimo e più significativo.

Una corrente che utilizza strumenti letterari nuovi e narcisisti, potenti ma difficili da gestire, tali che se non supportati da abbondanti dosi di talento si rivelano pericolose armi a doppio taglio, in grado di scoraggiare anche il lettore più bendisposto.
Una delle techiche, dei virtuosismi (per dirla nel loro gergo, dei "guarda-mamma-senza-manismi", più utlizzati è il ricorso all'autoreferenzialismo esplicito, il libro che narra di sé stesso, in una meta-letteratura difficile da domare senza rischiare l'autostrangolamento. Eggers nel suo illuminante Opera struggente di un formidabile genio ne fa ampio uso, e Wallace stesso sovente ci gioca volentieri (un esempio su tutti, in Verso Occidente l'impero dirige il suo corso), ma non in IJ.
O meglio, non è assolutamente presente l'autoreferenzialismo "classico", in cui esplicitamente l'autore scrive della propria opera, ma l'intero volume è percorso da un'autocitazione più sottile: nel romanzo Infinite Jest è il video "segreto", dotato di un appeal letale, vero protagonista del libro, libro che idealmente potrebbe arrivare a calamitare il lettore coinvolto, chiudendolo in una gabbia invisibile nella quale nulla sembra più interessante a confronto della lettura di Infinite Jest. E l'anello si chiude.
Parlavo prima di strumenti letterari potenti ma rischiosi, ed è davvero innegabile che di rischi l'autore se ne sia presi davvero a profusione: un romanzo di 1300 pagine, decine di personaggi dalle vite strane e difficili da comprendere, altrettante sotto-trame che si intrecciano, un linguaggio spesso tecnico, amplissimi approfondimenti "fuori tema", digressioni, flashback, elenchi. Parrebbe non proprio il libro da leggere 'al volo' per tre fermate di metropolitana, e probabilmente è così, ma vederne solo l'unicum ultra-complesso, significherebbe perdersene un aspetto fondamentale.
L'intero romanzo è un susseguirsi di scene "indipendenti", composte da protagonisti e situazioni differenti: tutte in qualche modo collegate, ma apprezzabili pienamente anche come entità a sé stanti, mini racconti, bozzetti incredibili e geniali (e non riesco a non citare quella che a mio parere è un'invenzione assolutamente formidabile: il wargame dell'Eschaton, e la cronaca della partita che lo porterà alle estreme conseguenze -nell'edizione italiana Fandango da pagina 429 a pagina 457- se devo definirmi 'stupefatto' una sola volta nella vita, ecco è davanti a quelle pagine).
A questo punto di questa pseudo-recensione, totalmente slegata e lacunosa, dovrebbe esserci un pensiero conclusivo, una sintesi della mia opinione su questa opera geniale; ma mi dico, se neanche Wallace stesso ha avuto il coraggio di creare un "finale" per il suo libro, come posso sperare di riuscirci io?
...ale...



6.10.04
Recensione inviata da Barbara Delfino
Henry D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi (traduzione di Piero Sanavio per BUR)
L'incontro con lo scrittore americano Henry D. Thoreau è stato casuale; errare in sua compagnia sulle sponde del lago Walden, molto piacevole. Ho letto Walden ovvero vita nei boschi su commissione di N.; a fine lavoro ci siamo scambiate un grazie, lei per averle letto e relazionato il libro delle vacanze, io per avermi fatto conoscere una personalità di cui ignoravo totalmente l'esistenza.
Walden può essere considerato un vero e proprio esperimento: trascorrere due anni (1845-1847) sulle sponde di un lago immerso nella Natura (quella con la N maiuscola) per mostrare ai contemporanei quanto bastasse poco per vivere. In questo periodo l'autore/protagonista trasforma concetti astratti in regole pratiche, traducendo quando necessario un'idea astratta in politica. L'opera stessa è idealmente divisa in due parti: la prima teorica con conclusioni esemplari tra le quali la mia preferita suona così: "io, nella mia maniera di vivere, avevo per lo meno il vantaggio che la mia vita stessa era divenuta il mio divertimento e che non cessava mai d'essere nuova. Era un dramma in molte scene e senza fine. Se, infatti, ci guadagnassimo sempre da vivere regolando la nostra vita secondo l'ultima e migliore esperienza, non ci si annoierebbe mai".
La seconda parte vede invece l'applicazione dei concetti teorici, espressi precedentemente, alla vita quotidiana. Il tutto si concretizza nel rifiuto per il lavoro sistematico in favore del vagabondaggio e nello studio dell'uomo della natura praticando una sporadica attività di agricoltore, in quasi completa solitudine.
Le critiche dei contemporanei sono state talvolta contraddittorie, ma l'importanza dell'opera fu subito riconosciuta, portando il console di Liverpool dell'epoca a definire il suo modo di vita "critico di ogni altro modo di vita approvato".
Barbara Delfino



3.10.04
Recensione inviata da Davide L. Malesi
In quella ch'è la bibliografia di Philip Roth, Operazione Shylock è - sventuratamente - un libro di cui si parla poco. Si parla molto de La macchia umana (per via del film con Anthony Hopkins, e Nicole Kidman, com'è logico); si parla sovente del Lamento di Portnoy (il libro della carriera, se così si può dire di uno scrittore come Roth, che di libri belli e importanti ne ha scritti diversi). Io naturalmente conosco bene Operazione Shylock. Sui margini delle pagine di questo romanzo (di cui posseggo la traduzione di Vincenzo Mantovani nell'edizione dei Tascabili Einaudi: con un bel dipinto di Emilio Tadini, Oltremare, in copertina), ho scritto fiumi di appunti: scene che mi sembrano particolarmente convincenti, dialoghi che m'intrigano alquanto, descrizioni che mi sono parse assai efficaci, e così via. Basti questo a dire che in Operazione Shylock ci sono tutte queste cose: scene ben fatte e ben scritte, eccellenti dialoghi (alcuni dei quali assai lunghi, ma non per questo meno interessanti, comunque mai noiosi) e notevolissimi brani di descrizione, tra cui un tour extraordinaire nei cosiddetti "Territori Occupati", vale a dire quelle zone della Palestina che si trovano sotto il presidio dell'IDF (Israeli Defence Force, cioè l'esercito israeliano). Ma non è questo il punto, oserei dire.
Il punto è che Operazione Shylock è un libro importante, per diverse ragioni. La prima, e la più ovvia, è che si tratta di un romanzo incentrato su un dilemma: e di romanzi così ce ne sono in giro, purtroppo, sempre meno. Non voglio dire che siano spariti, o che manchino i dilemmi da cui prendere spunto: voglio dire che, per qualche ragione, molti scrittori oggi preferiscono dare risposte a quelle che sono le più banali domande suggerite dal senso comune, piuttosto che porre domande difficili, a costo di non saper trovare una risposta (incentrare un libro su un dilemma, in pratica, vuol dir questo). Bene, è un momento in cui la tendenza è questa, ed è (a mio avviso) una tendenza innegabile. Ci sono già stati, nella storia della letteratura occidentale, momenti siffatti: quello che stiamo attraversando è, dunque, l'ennesimo. Eppure, Operazione Shylock osa andare in controtendenza, e affrontare (anzi, "incentrarsi su", cioè avere nel suo fulcro narrativo) un dilemma, cioè una domanda che non trova risposte: cos'è l'Identità? E poi, esiste una cosa chiamata Identità?
Operazione Shylock è (almeno all'inizio) la storia di un celebre scrittore ebreo, di nome Philip Roth, residente negli Stati Uniti, che un bel giorno si trova ad affrontare una circostanza ben strana: un altro Philip Roth, in tutto e per tutto simile a lui, si trova a Gerusalemme: di lì, si spaccia per lo scrittore Philip Roth e si serve della popolarità, nonché della credibilità, di questo scrittore per proclamare una bizzarra tesi politica, da cui - vien detto - potrebbe dipendere il destino della razza e della civiltà ebraiche (non vi dico in cosa consiste la tesi, perché è così folle e insieme intrigante che mi parrebbe un delitto quello di non lasciarvelo scoprire da voi). Ora, non v'è dubbio che al giorno d'oggi gli ebrei siano in pericolo costante (almeno quelli che vivono in Israele, minacciati dal terrorismo che non è, nel loro caso, uno spettro: ma una realtà quotidiana). E questa è la ragione per cui il "falso" Philip Roth sfrutta l'identità di un famoso scrittore, che è un fenomeno mediatico, che può parlare ai giornali e alle televisioni: per cercar di salvare, a suo modo, gli ebrei d'Israele.
Ovvia deduzione del Philip Roth autentico: il "sosia" è un impostore che parla usando il suo nome, perciò deve recarsi laggiù e smascherarlo. Messa così, sembra facile: ma poi, quando il "vero" Philip Roth incontra il Philip Roth "fasullo", le cose si complicano e il Philip Roth "vero" si domanda: "Chi è mai, costui? Perché sfrutta il mio nome, la mia fama di scrittore, per uno scopo politico? E soprattutto, non rappresenta costui forse un'alternativa a me stesso?" Vale a dire: il Roth "falso", d'accordo, è un impostore; ma se il Roth "vero" avesse voluto, avrebbe potuto forse intraprendere la strada di quello "falso", per propagandare quella certa tesi politica, anzi dedicarvi l'esistenza. E, si chiede il Roth "vero", se fosse il sosia ad aver ragione? Vale a dire, se il futuro della razza e della civiltà ebraiche potessero essere salvati solo nella maniera proposta dal falso Philip Roth? Quale dei due Philip Roth sarebbe più "vero"? Quello che si gode gli agi e le soddisfazioni di un'esistenza da scrittore di successo, o quello che rischia tutto - anche se è un "tutto" che non gli appartiene - per cercare di salvare gli ebrei, e l'ebraismo, e tutto ciò che esso rappresenta? Vale a dire: è vero ciò che è vero, o è più vero ciò che è giusto?
Ce ne sarebbe abbastanza, anche così, per leggere il romanzo. Ma c'è di più. Il Philip Roth "vero", preso da questo dilemma, esplora - come in una sua privata discesa all'inferno - i volti, non sempre gradevoli, di ciò che significa "essere ebreo". Perché, ancor prima di stabilire se la tesi del falso Philip Roth può salvare gli ebrei, bisogna capire se gli ebrei meritano di essere salvati. Ed è un discorso che si potrebbe fare per qualsiasi cultura, e che anche a noi esponenti della presunta cultura cristiano-occidentale (che tanto appassiona Oriana Fallaci), farebbe bene: prima di organizzarci per ammazzare quanti arabi dobbiamo ammazzare per "salvarci", non dovremmo forsi capire se meritiamo di "salvarci" a loro spese? (Posto che il concetto di "salvezza", in questo caso, sia quello giusto). È quello che fa il "vero" Philip Roth - insieme, narratore e protagonista - in questo libro, interrogando i personaggi che man mano incontra sulla sua strada e venendone interrogato a sua volta: personaggi che sono, ciascuno, un interlocutore di una precisa "realtà": c'è l'israeliano pacifista e antisionista, il sionista convinto e oltranzista, l'arabo affascinato dalla cultura ebraica cresciuto negli Stati Uniti, una donna - un tempo antisemita - che, innamoratasi del "falso" Philip Roth, ha fatto sua la causa della "salvezza" degli ebrei, e così via. E qui Philip Roth scopre, di volta in volta, che ognuno dei personaggi che incontra è prigioniero di una sua verità, di una sua visione del mondo, e incapace di metterla in discussione: per lui, esiste solo ciò che crede - o meglio, ciò che vede. Le "altre versioni" della realtà vengono, inevitabilmente, scartate, evitate, negate, respinte: il sionista non può credere alla verità dell'arabo, e a quella di nessun altro, non tanto perché "lui è un sionista", ma perché ognuno di noi costruisce la propria identità attorno a una visione del mondo: e negare quella visione del mondo, significa negare anche quell'identità. Di nuovo il dilemma dell'Identità, appunto.
Un romanzo inquieto, dunque, quello di Philip Roth. E per questo, a mio avviso, un romanzo avvincente e intrigante. Io li amo, i romanzi incentrati su un dilemma. Perché, vedete, se uno vuol scrivere per enunciare verità e proclamare la sua fede (politica, religiosa, quello che è), a mio avviso, farebbe meglio a non scrivere romanzi. Scriva trattati filosofici, pamphlet, discorsi. Il romanzo è, di per sé, una materia inquieta: che merita tutta l'incertezza che un narratore è capace d'infondervi. Almeno, in base alla mia modesta opinione.
Davide L. Malesi (licenziamento del poeta)



1.10.04
Interrogativo posto da Sebastiano
Ti chiedo se ti è capitato di leggere qualcosa dello scrittore americano Richard Bach. Ho letto con fatica le prime 95 pagine del suo Illusioni - Le avventure di un Messia riluttante edito da BUR (nella traduzione di Bruno Oddera); è talmente stupido che l'ho gettato con gioia nel cestino della carta straccia. L'editore lo presenta come "Il nuovo libro dell'autore del Gabbiano Jonathan Livingston".
Sebastiano35

Per principio non getterei mai via un libro, piuttosto lo regalerei alla biblioteca rionale. Però non ho mai letto Richard Bach. Qualcuno sa rispondere?
Zu



21.9.04
Recensione inviata da Elisa Bolchi
Un cuore così bianco di Javier Marías (traduzione di Paola Tomasinelli per Einaudi, 1999)
Ci sono libri che ti arrivano per caso, capitano semplicemente nella tua vita, un regalo, un titolo o una copertina accattivanti; altri che scegli, fra più titoli, fra più autori fai i tuoi conti e scegli proprio quello; altri ancora invece li cerchi, prima ancora di sapere che esistano.
È così che ho letto Un cuore così bianco: cercavo un autore spagnolo da conoscere, data la mia totale ignoranza in materia di letteratura ispanica e il mio desiderio di farmi una seppur minuscola cultura. Mi sono rivolta a un amico, docente di letteratura spagnola alla Statale di Milano. Non ci ha pensato un attimo: "Marías. Javier Marías. Corazón tan blanco è un romanzo meraviglioso. Oppure Domani nella battaglia pensa a me". Del secondo mi raccontò l'incipit, il quale mi affascinò a tal punto che il giorno dopo ero al Libraccio, (dato che era temporaneamente introvabile) a comprare una copia in un'edizione rilegata in buono stato e lo lessi con sorpresa e fatica, amando la sua densità e stupendomi della sua bravura. Rimaneva Corazón tan blanco da trovare e leggere. Mi aveva detto che il titolo ("meraviglioso", avevo detto appena lo ebbe pronunciato) era un verso del Macbeth, di Lady Macbeth e io adoro queste strizzate d'occhio ai geni che ci hanno preceduto. Non volli nemmeno avere un'idea della trama. E poi la trama in Marías potrebbe non esistere, sono le sue parole, la sua abilità, i suoi verbi e la sua punteggiatura (di cui fa un uso magistrale e impareggiabile) a tessere trama e ordito della sua pregiata narrazione. Un cuore così bianco è l'analisi dell'amore, sentimento quanto mai complesso che implica la fiducia, il desiderio della conoscenza dell'altro e la paura che ciò può comportare. Un rapporto intenso e reale quello del narratore con la moglie, sposati da poco e spesso lontani per lavoro. Altre storie si sovrappongono spesso, altre donne e altri uomini senza nessuna importanza, semplici simboli che aiutano a tracciare il proprio cammino perché aiutano e comprenderci. Marías ci narra, come sempre, un turbamento; ma oltre a narrarlo lo sviscera, ne va a ispezionare le sfumature, le sottili diramazioni che si insinuano nelle profondità dell'imperscrutabile animo umano. E lo fa con tocco colto, raffinato, mai retorico, mai pedante. Tutto ciò che leggerete in Marías avrà il peso della cultura, della conoscenza e della tradizione e la leggerezza del nuovo, del mai detto. La postilla dell'autore stesso che si trova in chiusura dell'edizione Einaudi parla proprio dell'atteggiamento dei contemporanei verso la letteratura, un atteggiamento distruttivo, che vede tutto come già detto e considera morta la letteratura. Marías rilancia un'idea positiva, realistica più che ottimista, spiegando che la letteratura è sempre servita e serve tutt'ora a riflettere. È esattamente questo che fa Marías. Tutto viene analizzato talmente in profondità che vi scoprirete a riflettere su aspetti di voi, della vostra vita, di cui ignoravate addirittura l'esistenza e queste raffinate riflessioni sono accompagnate da descrizioni di tipi umani quanto mai minuziose e caratterizzanti, un'abilità che denota la sua natura osservatrice, che è propria di tutti coloro che hanno compreso che la conoscenza viene dall'ascolto e dall'osservazione di ciò che li circonda.
Elisa Bolchi



18.9.04
Contributo inviato da Massimo Morelli
Uno dei libri che mi sono letto in montagna è il famigerato Il codice Da Vinci di Dan Brown (traduzione di Riccardo Valla per Mondadori).
Si capisce subito che è un libro confezionato per essere un best seller: argomento controverso, un colpo di scena ogni 3 pagine, una tesi di fondo. Dritto dal manuale Crichton. La cosa buffa è che la rete è piena di siti pro o contro (quelli contro sono particolarmente divertenti). La sospensione dell'incredulità è messa a durissima prova, i personaggi sono tratteggiati in maniera superficiale, la trama non sta molto in piedi e temo che i riferimenti storico-artistici non siano, diciamo così, accuratissimi (anche se per quel che ne so io di arte medioevale potrebbe essere tutto vero). Però è un'avventura divertente che si può leggere per passare un pomeriggio spensierato. Leggero come una piuma.
Momoblog



13.9.04
Recensione inviata da Lorenza Boninu
Paola Mastrocola, Una barca nel bosco (Guanda, 2004)
È un romanzo. Scritto da una prof. Parla della paradossale sformazione (come qualcuno l'ha definita) di un ragazzino appassionato di letteratura, amante del latino, lettore di Verlaine, a contatto con le pochezze, le meschinità e il pressapochismo della scuola di oggi: il piccolo Gaspare Torrente, figlio di un pescatore, nato su un'isola, arrivato a Torino, con grande sacrificio dei suoi genitori, per studiare in un prestigioso liceo cittadino. Destinato a sentirsi, e ad essere, una barca nel bosco, come affettuosamente lo definisce la zia, o un extraterrestre, come lo soprannominano con implacabile crudeltà i compagni, che non capiscono i suoi dieci in latino, le sue scarpe fuorimoda, i suoi goffi tentativi di adeguarsi al conformismo dominante. Conformismo che gli stessi professori incoraggiano: con i loro fantasiosi "progetti accoglienza", le "Ore di Ascolto", il Latino "divertente", l'incessante invito a inserirsi, uniformarsi, aggregarsi che in mille modi diversi rivolgono al povero Gaspare, sempre più disorientato e stralunato. Il protagonista, crescendo, finirà per trovare un suo paradossale equilibrio, dando vita, quasi per caso, a un surreale "Boscomondo", un vero e proprio bosco che distende le sue fronde oltre i muri, il soffitto e il pavimento del suo appartamento torinese, un rifugio misterioso dove continuare a tradurre gli amati autori latini: non senza aver prima abbandonato timidi sogni di affermazione professionale (il posto cui aspirava gli viene sottratto da un vecchio compagno di liceo, naturalmente raccomandato) e aver ripiegato sulla più modesta gestione di un bar.

Questa, in sintesi, la storia. Storia che non manca di precisi agganci con la realtà. L'autrice, come ho detto, è un'insegnante e la sua aspra satira nei confonti di una scuola che non trasmette più cultura ma insegna solo un'opprimente, alienante mediocrità è per molti versi azzeccata. Eppure il libro non mi è piaciuto. Direi quasi che mi ha comunicato un sottile, spiacevole disagio. Perché chi l'ha scritto fa tuttora il mio medesimo mestiere e, in un modo o nell'altro, mi pare che non voglia bene ai suoi alunni. A scanso di improbabili equivoci deamicisiani, dirò che "voler bene" significa, in primo luogo, stimare i propri allievi e credere che si possa comunque cavar qualcosa da loro, anche a costo di trattarli male, se capita. E se per far questo occorre talvolta andare contro il sistema, si può fare. Ma la signora Mastrocola in questo caso ha preferito la strada letteraria. Si è costruita con la fantasia l'ipotetico allievo perfetto, quello che ogni insegnante di lettere appena appena onesta desidererebbe, e poi lo ha messo a contatto con un gruppo di supeficialotti borghesucci senza cervello e ha guardato che cosa sarebbe successo. Avrà esagerato i toni per amor di narrazione, evidentemente, ma alla fine non ha costruito dei personaggi, solo degli stereotipi.
Sarà che di stereotipi, comprendendo nella compagnia anche l'insopportabile figura del professore che si lamenta dei crudeli tempi moderni e tesse nostalgicamente le lodi della scuola del passato, ne ho piene le tasche. Sarà che i ragazzi veri con cui ho a che fare, con tutto il loro innegabile conformismo, il gergo, il look, le mode, la poca voglia di studiare ecc. ecc., non sono per niente stereotipati. Sarà che ti capita, più spesso di quanto si creda, l'allievo bravo e motivato, che va avanti anche se non è raccomandato e che, udite udite, riesce perfino a evitare di imbrancarsi. Sarà che la scuola di oggi fa schifo, ma quella che ho fatto io (tardi anni Settanta, per intenderci) non è che fosse il migliore dei mondi possibili, anzi. Sarà che il conformismo, e la conseguente omologazione, non sono un'invenzione dei tremendi "tempi moderni". Sarà che il protagonista, alla fine, risulta davvero un po' antipatico e anch'io, fossi stata una sua compagna di scuola, forse lo avrei scansato (e fossi stata una sua insegnante, in effetti, lo avrei esortato a scendere dal pero, o meglio, dal pioppo).
Ho chiuso il libro e l'ho messo da parte. Ci ho pensato parecchio, tuttavia. Perché è un testo pericoloso, uno di quelli catastrofici che, forse contrariamente alle intenzioni, ti spingerebbero a credere che, nello sfacelo generale, non ci sia più scampo per il talento e la passione. Macché. Invece di piantare un bosco in casa, Gaspare avrebbe fatto meglio ad andare a donne, forse. E poi a rimboccarsi le maniche e vedere se poteva fare qualcosa. Perché qualcosa si può sempre fare.
(Mi resta una curiosità: come hanno giudicato il libro alunni e colleghi dell'autrice?)
Lorenza (contaminazioni)



22.8.04
Recensione inviata da bartleby
Il gioco del mondo di Julio Cortázar (traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini per Einaudi)
Un romanzo che è un percorso. Un percorso che è un gioco, è quel gioco infantile in cui tutti, almeno una volta, abbiamo preso un pezzo di gesso e disegnato una griglia sul marciapiedi e dato un calcio a una pietruzza per lanciarla verso la casella del cielo.
La prima pagina che si offre alla nostra lettura è un avvertimento dell'autore che ci spiega che il suo è uno strano romanzo, ha un inizio e una fine solo se lo vogliamo. Ognuno di noi può leggerlo seguendo il percorso che preferisce: dal primo all'ultimo capitolo, oppure saltellando qua e là insieme a Horacio e la Maga vagando per la Parigi dei giovani bohémien, tirando una pietruzza e cercando di arrivare al cielo di Buenos Aires, dove la Maga si trasformerà in Talita e Horacio capirà che il senso della ricerca è proprio il cercare; il secondo saltellante percorso ce lo indica l'autore ponendo alla fine di ogni capitolo il numero del successivo capitolo sul quale saltare.
Un romanzo bizzarro quindi, molto affascinante, a volte oscuro nei suoi percorsi, che risente, a leggerlo a tanti anni di distanza dalla sua pubblicazione avvenuta nel 1962, delle atmosfere di un periodo che, per un lettore che non le abbia vissute, possono sembrare ingenue o addirittura appartenenti a una moda che non c'è più da tanto tempo.
Ma Horacio e la sua hironia (no, non è un refuso, chi ha letto il libro capirà), il suo disincantato e incantevole egoismo, il suo desiderio di trovarsi che è al tempo stesso volontà di sfuggirsi, la sua ricerca che lo conduce in un giro intorno a sé stesso, restano a lungo ad abitare la memoria del lettore, portando con sé il monito che "per arrivare al Cielo bastano un sassolino e la punta di una scarpa".
bartleby



21.8.04
Recensione inviata da Francesca Baroni
Un cielo così sporco di Franco Mimmi (Aliberti Editore)
Chi lo ricorda? Il 13 gennaio 1994 Carlo Azeglio Ciampi, allora primo ministro, consegnò le sue dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro: il Parlamento venne sciolto e furono indette nuove elezioni. Anche se la storia non lo afferma ufficialmente, nella cronaca giornalistica quel giorno segnò la fine della prima Repubblica e dunque l'inizio della seconda. Due anni prima era incominciata la stagione giudiziaria di Tangentopoli, pochi giorni dopo Silvio Berlusconi scese in campo con il varo del partito-impresa Forza Italia e due mesi dopo vinse le elezioni.
Furono i mesi di una transizione confusa e la cui meta resta oscura, ed è quel periodo che fa da sfondo al romanzo in cui Franco Mimmi costruisce una allegoria di un presente politico e sociale che dura ancora, e di cui non si vede la fine. Il vero protagonista del libro è "Oracoli & Miracoli", una misteriosa agenzia di consulenze che offre soluzioni ai problemi di quanti sono incappati nella rete della giustizia, o in quella delle speculazioni incrociate economico-politiche in cui i ricattati sono pure ricattatori.
Cervello dell'agenzia è il grasso Senatore, coadiuvato da un Giovane assistente con master del Mit ("Siamo come Nero Wolfe e Archie Goodwin, però cattivi", dice il Giovane) e da un brasiliano, Oscarzinho, con un tenebroso passato alle spalle ("Lui è la Nemesi", dice il Senatore). Negli uffici di "Oracoli & Miracoli", nei cinici salotti zeppi di gattopardi di ogni taglia e sesso, passano i tronfi personaggi di una decadenza neppure elegante ma solo ben vestita: il palazzinaro entrato in politica, il banchiere bancarottiere, il cassiere del partito, il giornalista pronto a vendersi per una direzione, il conduttore televisivo in ginocchio davanti ai potenti. Unico contraltare, il Professore, grazie al minimo di decenza che la cultura e il ricordo di qualche ideale gli conservano e gli impongono.
È un mondo che richiama quello ritratto da Grosz, e sul quale si addensano le nubi di un cielo sozzo che, come avverte il titolo shakespeariano, non si pulisce senza una tempesta: l'acquazzone di Tangentopoli non basterà a schiarirlo, e solo si potrà contare, per mantenere una speranza di decenza, su quelli che Norberto Bobbio (al quale il libro è dedicato) definiva "pessimisti non rassegnati".
Francesca Baroni



11.8.04
Impressioni inviate da vocenarrante
Banana Yoshimoto, Il corpo sa tutto (traduzione di Giorgio Amitrano per Feltrinelli)
Comunione con le piante, con sé stessi, con il mondo. Verso tale direzione sembrano voler condurre questi racconti della celebrata scrittrice giapponese.
Quasi come moderne storie zen, prendono per mano la voce narrante e il lettore nell'attraversare la banalità del quotidiano e le asperità dell'imprevisto, i vuoti della malinconia e i tonfi del rimpianto, gli smarrimenti dell'inspiegabile per il poco o per il troppo, sempre alla ricerca di una quieta serenità, di un equilibrio saggio ma non statico.
Non è un capolavoro, ma è un libro che ti parla, a saperlo ascoltare. Se a un insegnamento mira, è che non si deve mai temere di perdere qualcosa mentre si percorre il divenire.
vocenarrante



6.8.04
Due anni fa nasceva Letture e riletture, così:
La lettura è un piacere dell'essere intero, l'intensità prolungabile all'infinito... e il piacere raddoppia se viene condiviso.

Per questo vi invito a rendere pubbliche le impressioni o le emozioni suscitate in voi dai libri: capitati sottomano per caso o cercati con determinazione, le nuove scoperte e i ricordi più antichi, quelli che non dimenticherete mai e quelli che non avreste voluto leggere, i testi che si divorano insaziabilmente e perfino quelli che si abbandonano (uno dei diritti del lettore esercitati più di rado)...

Uno scambio di consigli, segnalazioni, pareri...



30.7.04
Recensione inviata da Vincenzo Della Mea
Un mondo meraviglioso di Vitaliano Trevisan (Einaudi, 2003)
Il primo romanzo di Vitaliano Trevisan, uscito nel 1997 per Transeuropa (e quindi introvabile), è stato recentemente restituito ai lettori da Einaudi, che l'ha ristampato nella collana Stile Libero.
Leggere Un mondo meraviglioso dopo i bei lavori successivi di Trevisan è un'esperienza strana. Viene infatti da leggerlo come seguito, mentre è il suo primo romanzo, dove sperimenta linguaggio e forme che applicherà poi in ciò che però capita di avere già letto in forma compiuta.
In questo romanzo breve si trova infatti già il marchio che caratterizza tutta la sua produzione: il flusso di coscienza ricalcato nettamente e apparentemente senza mediazioni da Thomas Bernhard è lì, come ne I quindicimila passi e come nei racconti di Standards vol.1.
L'amore per la musica, e per il jazz in particolare, fa da traccia anche a questo romanzo, come ai racconti di Standards (per inciso, anche il sottotitolo di Un mondo meraviglioso è "Uno standard").
L'ossessione per le ossessioni si nota in questo romanzo esattamente come ne I quindicimila passi, dove diventa però più centrale e definita. Thomas, protagonista di questo romanzo, cammina molto: cammina e conta i suoi passi pure il protagonista de I quindicimila passi.
Queste le similitudini più evidenti, che danno l'idea più che di ripetitività, di forte legame coi temi e le scelte stilistiche ricorrenti.
Un mondo meraviglioso è però meno maturo dei lavori successivi di Trevisan. Manca forse il preciso meccanismo che ne I quindicimila passi diventa una trama avvincente degna di un giallo, e questo, secondo me, rende più fine a se stesso l'apparato linguistico e stilistico utilizzato.
Chi ama Trevisan troverà comunque conferma delle sue qualità, e vale la pena leggerlo se non altro per curiosità filologica; chi non lo ama, non troverà motivi per cambiare idea. Chi non lo conosce, legga (prima, o anche) I quindicimila passi, che è molto bello.
Vincenzo Della Mea



24.6.04
Recensione inviata da Davide L. Malesi
Rising up and Rising down, di William T. Vollmann
Il libro di cui sto parlando è un libro che non può piacere a tutti: che non è concepito per piacere a tutti: e che mi guardo bene dal consigliare a tutti. È un libro, tecnicamente, difficile. Forse dovrei dire "opera" piuttosto che "libro", perché sono qualcosa come sette volumi in cofanetto, più di settemila pagine. È una lettura fisicamente ardua. È un testo sfinente. Non è un giudizio di gusto: è un fatto. Quest'opera è sfinente. Eppure io l'ho letta, sfidandone l'enormità e la pesantezza (in senso anche puramente fisico: sta in un cofanetto delle dimensioni di una cassetta per gli attrezzi). Ho fatto questo perché m'interessa l'argomento.
L'argomento è la violenza, l'autore è William T. Vollmann e il titolo è Rising Up and Rising Down. Vollmann è uno dei cosiddetti "americani postmoderni" e di solito scrive roba che non m'interessa. Troppo grafomane, troppo pesante, troppo difficile. Lessico astruso. Mi piace però come personaggio: uno che va in pellegrinaggio nei luoghi di guerra più sporchi e bastardi del mondo, trascorre i migliori anni della sua vita in mezzo a ribelli e criminali, fa un reportage sui Talebani in cui ammette di essere affascinato dai fondamentalisti afghani e spiega il perché. Vollman ha scritto settemila pagine sulla violenza, affrontando l'argomento come a suo tempo Diderot e D'Alembert affrontarono l'idea di un'enciclopedia dello scibile umano. Cercando di esaminare ogni tipo possibile di violenza, dallo stupro alla guerra agli abusi sui minori. La cosa mi affascinava: e così ho letto Rising Up and Rising Down da cima a fondo.
Chiarisco subito la faccenda: è una cosa da impallinati. Io sono quello che ha in libreria roba come Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico (1943-1945) di Alberto Santoni, tre volumi, più di milletrecento pagine. O La battaglia dell'Atlantico di Leonce Peillard, 637 pagine. La notte dei lunghi coltelli di Kemski. Storia della violenza sessuale di Pollack & Martin, 4 volumi, quasi duemila pagine. Robbery and Assault di Peter Brucke, storia dell'arte della rapina dal 1400 a oggi, 845 pagine. Le opere complete di Billy the Kid di Ondaatje. Breve storia dell'omicidio nell'età barocca di Halleck. La banalità del male della Harendt. Le battaglie che cambiarono il mondo di Sergio Masini. Vale a dire: m'interessa ogni tipo di violenza e la studio con passione. Insomma: se uno mi chiede consiglio su un libro da leggere, non gli dico di andarsi a cercare Rising Up and Rising Down di Vollmann. E poi costa 120 dollari.
Però, se v'interessa sul serio la violenza, è una cosa da leggere. Rising Up and Rising Down è "il" libro sulla violenza, anzi il Libro della Violenza con la L e la V maiuscole. E va dato atto all'editore americano McSweeney's Books di aver fatto uscire un testo complicato, difficile da piazzare commercialmente, e profondamente complesso. Vale la pena di leggere Rising Up and Rising Down anche solo per il volume intititolato Giustificazioni alla difesa violenta. Un testo che può, in potenza, avere il peso e l'importanza del Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Vollmann salta dalla contemporaneità al passato remoto, affrontando i casi di Stalin e Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e della morte di Giulio Cesare, delle epurazioni fasciste e comuniste, dei "campi di rieducazione", della pulizia etnica. Non restano fuori le violenze domestiche, il sadismo, il masochismo e tutto ciò che ha una connessione anche remota con l'argomento "violenza". Impariamo a conoscere ranghi e rituali della mafia giapponese e vediamo in dettaglio quello che è successo nei campi di sterminio degli Khmer Rossi; scopriamo i retroscena del narcotraffico in Colombia e in Bolivia.
Insomma, sì: una roba da impallinati, ma anche una sfida affascinante.
Attualmente, Rising Up and Rising Down non è stato ancora tradotto: Mondadori ne pubblicherà un'edizione - ridotta, non si sa di quanto - dopo l'estate.
davide l. malesi



19.6.04
Meir Shalev, La montagna blu, (traduzione di Elena Loewenthal per Frassinelli)
Un romanzo legato alla terra. Terra da bonificare e dissodare, terra in cui mettere radici e seppellire i morti.
L'ambientazione è quella della Terra d'Israele, non ancora Stato, che accoglie con la sua generosa asperità l'ondata di pionieri sciamati dalla Russia all'inizio del secolo scorso. Attraverso storie individuali ancora permeate dal sentore della libertà di chi non ha confini né regole prestabilite, ma accomunate dai limiti o dalla grandezza della condizione umana, si sviluppa la doppia valenza dell'opera, che è insieme racconto di vicende particolari e simbolo di temi universali.

La narrazione procede dal punto di vista di Baruch, eterno enorme bambino, orfano cresciuto dal mitico nonno ch'è figura imprescindibile per l'intera comunità e ancor più per il nipote, il cui corso del vivere continuerà a determinare anche dopo la sua dipartita.
Tre generazioni contribuiscono e assistono alla crescita del villaggio senza però riuscire a mutarne la sostanza profonda, quella che trae l'essenza della sua connotazione dalla terra stessa. Terra che nutre, terra che chiama. Terra destinata all'agricoltura, terra usata per la sepoltura. Più del raccolto, redditizia sarà la raccolta di morti: quelli tornati a farsi inumare al Riposo del Pioniere.
Legati alla terra, tutti, uomini e donne di questo romanzo agricolo. Legati alla terra che produce, alla terra causa ed effetto del vivere, alla terra che sfianca e uccide, alla terra simbolo e materia, che accoglie abbraccia e infine seppellisce.
Dalla terra ci si stacca esclusivamente grazie all'amore, solo grazie ad esso il pensiero si libra e l'animo si fa leggero. L'amore viene mostrato in diverse accezioni e quasi nessuno sembra farvi eccezione, sia pure con diverse sfumature gustative che vanno dall'innocenza dell'amore innato tra infanti alla delusione dell'abbandono, dalla dolcezza spirituale dell'entusiasmo monogamico adorante a quella palatale di colei che abbandona il marito per un apicultore, dal sale delle lacrime per il distacco violento a quello per il rimpianto mai sopito, dal rassicurante sapore antico della dedizione tra nonno e nipote, con il salto di una generazione mutilata, a quello squieto ma divertito dell'insaziabile adulterio.

Lo sfondo storico è vago: si sa di guerre lontane e di conflitti vicini, entrambi in grado di venire a strappare le carni vive nel cuore del villaggio. I pionieri, eroi della natura, si confrontano con una realtà fatta di terra e fango, di lotta contro le paludi, di fame, che la mitopoiesi del ricordo fa trascolorare in età dell'oro.
Come nei midrash, il mito e la leggenda si fanno quotidianità e vengono osservati con mente raziocinante e non impressionabile dall'osservatore privilegiato che ne diviene voce narrante. Così, le persone restano tali, anche se sapevano far rifiorire magicamente un'intera coltivazione o portare in spalla un toro di diversi quintali.
Di quelle figure, la comunità pare conservare il rimpianto più che il ricordo. L'atteggiamento rispecchia un rapporto conflittuale con il passato che in qualche modo coinvolge tutti i personaggi, i quali non riescono a staccarsi da ciò che è stato per accogliere e vivere pienamente ciò che è. Paradigmatica in tal senso la figura di Meshulam, ossessionato fino al feticismo e oltre, quando tentando di ricreare la palude, l'antica nemica, attua l'insano meccanismo di chi in fondo vuole ritrovare la sofferenza per sentirsi vivo.

La montagna blu, presenza incombente ma mai invasiva, è una sorta di firmamento immobile, protezione ma anche isolamento. Al suo cospetto si susseguono costruzione e disfacimento, incanalamento e pazzia, dottrina e ribaltamento, regola e sregolatezza.
Non vi si sfugge: e chi non è toccato dal salvifico amore può sottrarsi al fallimento solo mediante un abnorme distacco, possibile solo nella deformazione di chi anziché vivere in proprio racconta il vivere altrui e poi seppellisce tutti, come il romanziere quando chiude il cassetto.

Giulio Pianese, ovvero Zu



9.6.04
Contributo inviato da Milena Pavano
Ho riletto dopo più di dieci anni Cent'anni di solitudine di Marquez, ritrovando tutta la magia del mondo racchiuso a Macondo. Non mi era rimasto quasi niente a livello di memoria dalla prima lettura, tranne il fascino di quel mondo triste e magico. Man mano che procedevo nella lettura, i fatti dimenticati riemergevano e insieme intatta la magia descrittiva di questo autore. Mi sento di dire che alcuni libri vanno necessariamente riletti in periodi diversi della nostra vita. Siete d'accordo?
Milena



6.6.04
Recensione inviata da Alice Avallone
Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche (a cura di Giovanna Spendel per Mondadori)
L'infido connubio di acque e di marmi che oggi ha nome Leningrado e che nacque come San Pietroburgo, più familiarmente Piter, ebbe origine dal capriccio di un autocrate che volle prevalere sulla natura oltre che sugli uomini, e decise di costruire la capitale del proprio impero in una fangaia, esposta a maree, glaciazioni, alluvioni, tempeste di neve e periodici affossamenti. Il sogno di Pietro il Grande, che pose la prima pietra nel 1703, non fu abbandonato dai suoi successori, malgrado i lamenti e recriminazioni sull'infamia della località scelta; a Caterina II, che deplorava gli effetti del clima feroce sulla sua salute, un cortigiano altrettanto costipato rispose che non era colpa di Dio se gli uomini insistevano a costruire la capitale di un grande impero in un luogo destinato dalla natura a dimora di orsi e lupi. Nella prima metà dell'Ottocento, Pietroburgo era ormai sostanzialmente la città che possiamo ammirare oggi. Si estendeva su una superficie di un centinaio di chilometri quadrati, dispiegandosi a ventaglio lungo le braccia ramificate della Neva e comprendendo sei grandi isole naturali, una artificiale e una quantità di isolotti. Scenario immenso e grandioso, fondale ideale per le escogitazioni dei romanzieri: lo scintillo della Corte, il tumulto della metropoli, le imponenti quinte neoclassiche e barocche, il tocco esotico delle cupole a cipolla ortodosse, la babele di costumi russi ed ucraini, lettoni ed ebrei, finni e samoiedi, i mercanti tedeschi e i musicisti francesi, le uniformi sgargianti della guardia imperiale e le pellicce sontuose delle signore, le notti bianche d'estate, quando il sole non scende mai oltre la linea dell'orizzonte, e i cupi mesi invernali quando il giorno è poco più di un protratto crepuscolo; i ponti e i canali, la Neva gelata, le immense nevicate. Una città anfibia e teatrale, una Roma da Disneyland trapiantata fra le brume del Nord. Dostoevskij colse di questa strabiliane scenografia solo gli aspetti più cupi. La sua Pietroburgo è triste, grigia, umida, buia, percorsa da personaggi tormentati e straziati, umiliati e offesi, vili e meschini, vittime e delinquenti. Un'umanità sofferente e penosa, minata da tare palesi o nascoste, insidiata da mali morali e materiali preferibilmente vissuti senza colpa, un catalogo di miserie dilatato per migliaia di pagine al termine delle quali il lettore è in preda a una profonda sensazione di angoscia... Ed è in questa surreale città che vive Nastenka, una brunetta assai graziosa, con la nonna. A far da sfondo, una Neva color carta da zucchero e la fatale balaustra che accoglie i tristissimi slanci amorosi del Sognatore e i soprassalti della fanciulla diciassettenne. Il Sognatore resta da solo in città, senza amici, senza conoscenti, poiché in tanti anni che vive lì non è riuscito a crear alcun legame. Gli unici contatti da lui instaurati sono con i palazzi, con le strade di Pietroburgo. Il suo vivere distaccato dalla realtà, in un mondo etereo, termina quando, su un ponte della città, gli appare Nastenka, che diventa per lui l'essenza preziosa di quattro notti di illusioni, di compassione prima e poi di folle e innegabile amore. E a concludere tutto, ecco "Mattino", quasi a significare che la bellezza e il fascino delle notti era ingannevole e il risveglio è spesso una delusione. Lei era promessa a un altro giovane, che compare alla fine, frantumando la Vita del Sognatore.
Alice Avallone



28.5.04
Recensione inviata da Barbara Delfino
Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe (traduzione di Nini Bompiani Bregoli)
La prima cosa che dovrebbero insegnare a un bambino che inizia a leggere è quella di non saltare le dediche, quando ci sono. Nel leggere quelle al Piccolo Principe si sentirebbe sicuramente lusingato nello scorrere le umili scuse dell'autore per aver dedicato il suo libro a una persona adulta; e proverebbe non meno piacere nella correzione che l'autore stesso riporta alla dedica che resta sempre rivolta ad un amico adulto... ma quando questi era bambino.
E così il piccolo lettore si sente a pieno titolo amico dell'autore, nonché pilota d'aereo, che racconta il singolare viaggio di un piccolo principe che per sfuggire alla tirannia della sua rosa vaga per gli spazi, conoscendo i personaggi più strampalati.
La chiave di lettura di questa fiaba moderna che interpreta il mondo con l'ingenuità della fantasia è nascosta nell'incontro con il pilota in panne, l'unico personaggio di altri mondi di cui il piccolo principe diventa amico. Sarà proprio in quel momento che il protagonista si accorgerà del suo rapporto d'amore, di dedizione e di responsabilità nei confronti della sua rosa, e tornerà al suo pianeta cosciente di ciò che significa l'amicizia: un sentimento insostituibile che "rende un giorno diverso dagli altri giorni".
Barbara Delfino



18.5.04
Recensione inviata da Sara Mostaccio
Coraline di Neil Gaiman (traduzione di Maurizio Bartocci per Mondadori)
Nel miglior stile di Gaiman, ma declinato, solo in apparenza, a lettura per ragazzi.
Vi trova spazio uno dei nostri peggiori incubi, la perdita dell'identità. Non già la propria, ma quella del mondo cui si appartiene.
La piccola Coraline si ritrova in un mondo alla rovescia, un mondo fotocopia di quello solito e familiare, ma con sfumature inquietanti. I genitori, sempre disattenti e indaffarati, si tramutano in amorevoli, attenti, morbosamente affettuosi. Gli animali parlano, e l'ambiguità impregna l'aria. Il terrore serpeggia sotto i letti e dietro i muri, luccica negli occhietti appuntiti dei topi, si infiltra dalle serrature delle porte chiuse, aleggia dietro gli specchi.
Gli sguardi sono ciechi, gli occhi sostituiti da bottoni cuciti nella carne. Solo lo sguardo limpido di Coraline riuscirà a vedere la distinzione tra incubo e realtà, tra sogno e verità, e ripristinare l'ordine delle cose. E finalmente, dopo avventure di ogni sorta e visioni meravigliose e spaventose, riuscirà ad apprezzare la piatta ma confortante consuetudine.
Sara Mostaccio



17.5.04
Recensione inviata da Barbara Delfino
Olga Tokarczuk, Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli (trad. Raffaella Belletti per edizioni e/o)
Ci sono dei libri che fin dalla prima frase coinvolgono il lettore senza effetti speciali ma grazie alla forza della bellezza di una lingua semplice e scorrevole. Indubbiamente Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli, il terzo romanzo di Olga Tokarczuk, l'unico tradotto in italiano, appartiene a questo genere di opere letterarie.
Esso si presenta contemporaneamente come un racconto realistico e una fiaba poetica sul mondo; pur trattandosi di una storia rurale nella quale s'intrecciano i destini di alcune generazioni di famiglie in un periodo compreso tra la Prima Guerra Mondiale e gli anni '80, il lettore non viene coinvolto suo malgrado in una noiosa lezione di storia. Da subito ci si accorge che i protagonisti non sono gli abitanti di Prawiek ma è il villaggio stesso a ricoprire il ruolo di personaggio principale della narrazione.
Come racconta in un'intervista rilasciata a una nota rivista letteraria: "La storia che mi viene in mente e che intendo raccontare si colloca subito nel tempo e nello spazio [...] Del resto anche i luoghi vivono; lo spirito del luogo vive e influisce sulle persone".
Pur senza libri magici nascosti, spiriti e apparizioni, la trama di questo nuovo romanzo non si riduce alla descrizione di una classica e monotona campagna polacca tra le città di Taszów e Kielce.
"Alfa è un luogo situato al centro dell'universo"; così ci dà il benvenuto Olga Tokarczuk, ma non soddisfatta del disorientamento creato nel lettore aggiunge che la città è sorvegliata da quattro angeli custodi. Alfa è quindi contemporaneamente il Paradiso e il centro mitico del mondo dove l'ordine naturale dell'uomo si incontra direttamente con l'ordine soprannaturale di Dio. L'inevitabile e non ostacolata confluenza delle due realtà fa sì che la quotidianità sia comunemente popolata di personaggi ed eventi poco convenzionali ed episodi più concreti come quelli riguardanti la guerra in corso siano percepiti solo come il frutto di una lontana eco.
Il punto di vista dal quale vengono raccontate le vicende delle varie famiglie del romanzo non è quello dei singoli personaggi, ma è quello della natura, dei boschi e dei fiumi che circondano il villaggio, lo custodiscono, ne salvaguardano l'ordine e garantiscono un'atmosfera arcaica e fiabesca. Già, perché ad Alfa tutto procede secondo un ordine proprio del mondo mitico; nel momento in cui qualche personaggio per caso o per necessità si allontana da esso, si sente privato della propria sostanza ontologica e immerso nel caos.
Succede anche la reazione inversa, ovvero coloro che si avvicinano a Prawiek ed entrano a far parte della sua realtà ibrida (sempre in bilico fra l'umano e il divino) non si sentono a proprio agio, ritengono troppo opprimente lo spirito del luogo e prima o poi l'abbandonano.
Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli si distacca in modo significativo dai romanzi precedenti della giovane autrice polacca, presentando un nuovo modo di concepire il mondo legato alla tradizione non solo polacca ma di portata più generale.
Barbara Delfino



16.5.04
Recensione inviata da Francesca Baroni
Franco Mimmi, Il nostro Agente in Giudea (Aliberti Editore)
Chi uccise Gesù? E perché? Questo romanzo - che si può definire una "storia politica" di Cristo - offre risposte diverse da quelle tradizionali, basate su una lettura logica della storia che va a riempire i tanti punti oscuri dei Vangeli.
Il nostro agente in Giudea si presenta con una struttura narrativa che è quasi di un thriller, ma presto si capisce che l'intenzione di base è assai più ambiziosa. In questo romanzo Franco Mimmi affronta il problema della relazione tra il potere politico e la religione, di come il primo abbia sempre fatto della seconda un instrumentum regni, e per farlo si riferisce a quel momento di duemila anni fa che vide nascere il mondo in cui ancora viviamo: gli anni della predicazione di Gesù Cristo.
Quale fu, in quegli anni, la relazione tra politica e religione? Ce lo raccontano, ovviamente, i vangeli, ma evidentemente l'autore di questo romanzo ritiene che il loro racconto, da questo punto di vista, manchi di logica. I vangeli dicono che i sacerdoti giudei e i conquistatori romani vollero la morte di Gesù, ma perché l'avrebbero desiderata? Quel galileo offriva l'altra guancia, prometteva giustizia ma nell'altro mondo, ammetteva la differenza tra ciò che spettava a Dio e ciò che spettava a Cesare, predicava la pace e, meglio ancora, la rassegnazione in questa vita.
Insomma, predicava ciò che i governi e i poteri economici desiderano di più, in casa loro o nelle loro colonie: una stabilità derivante dalla acquiescenza del popolo, da istanze sociali minime. Conclusione: dal punto di vista del potere costituito, che Caifa volesse la morte di Gesù e che Pilato lo accontentasse non ha alcun senso logico. Anzi, logico sarebbe stato il contrario, e proprio su questa ipotesi del contrario - un complotto del potere politico, del potere religioso e del potere economico per trarre vantaggio dalla predicazione di Cristo - si basa il romanzo, che viene così a dare una risposta - romanzesca, ma del tutto logica e storicamente verosimile - alle due domande millenarie: Chi ha ucciso Gesù? Perché è stato ucciso Gesù?
Il romanzo si appropria della storia grazie alla figura di Lucio Valerio Adunco, uno spagnolo di buona famiglia che da giovane, come tanti altri giovani provinciali benestanti, è andato a Roma a studiare retorica, ma poi è stato portato dalle circostanze della vita a essere soldato e prefectus urbi, ovvero capo della polizia della capitale dell'impero. Quando lo incontriamo ha già una settantina d'anni, ma è ancora vigoroso e Tiberio lo ha convocato d'urgenza a Capri dove si è ritirato per sfuggire l'amarezza che gli provocano le meschinità della corte e della famiglia.
In questi due poli di potere - Cesarea, sede del prefetto di Palestina, e Capri, residenza dell'imperatore romano - nasce la trama in cui Gesù resta intrappolato. Ma non il Gesù al quale siamo abituati, non il figlio di Dio frutto della immacolata concezione di Maria, né il Gesù dei miracoli. Qui ci troviamo di fronte a una persona che vive la sua condizione umana insieme con la sua famiglia in un paese invaso, ci troviamo di fronte a un ebreo che vive la sua condizione di innovatore di fronte a una schiera di conservatori e a una di fanatici, e che accetta i rischi derivanti da entrambe le condizioni. Come finirà, lo sappiamo tutti, eppure l'autore ci conduce fino alla conclusione scontata in piena suspense, aprendo la porta su nuovi orizzonti.
Francesca Baroni



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