Letture e riletture |
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15.12.03
Doppia recensione inviata da Gianpaolo Armani
Chi ama la Spagna non può prescindere da due romanzi che sono usciti recentemente. Paloma è tornata di Antonio Steffenoni (Marco Tropea editore, pp. 252. Euro 14) e Spagna di Maurilio Barozzi (Giunti, pp. 157. Euro 7,5). Seppur diversi, i due libri, con la loro ambientazione nella terra iberica, riescono a descrivere una Spagna mitica e gravida di storia, cogliendo appieno il senso di amore e morte che da sempre si lega indissolubilmente a quella terra. Cominciamo con la morte. Entrambi i romanzi hanno la morte come referente e protagonista. Ma se in Antonio Steffenoni la morte è intesa come un ultimo atto di speranza, una compagna di strada con cui abituarsi a convivere, pronta a comparire all'improvviso in una sorta di colpo di teatro ("Sono riuscito a prendere in giro la morte. Perché lei crede di avermi sorpreso, capisci? Deve aver creduto, in tutti questi anni che io parlassi sul serio quando […] ripetevo che i toreri sono soltanto gente che passa la vita a convivere con la morte perché non ha il coraggio di morire"). Un atto di speranza, di forza, di coraggio. Un gesto tragico quanto politicamente corretto, finalizzato ad uno scopo, che lascia in chi resta un'eredità importante e di lui un'immagine alta. In Maurilio Barozzi la morte è altro. È la disperazione di qualche cosa che può anche non lasciare niente, nemmeno impronte "sul polveroso sentiero". È un mistero senza risposta. È l'ineluttabile che rende l'esistenza umana "orfana della parte finale" dei progetti che si è data ("Proprio qui sta il cuore della faccenda. La sua diversità con l'uomo va ricercata non tanto nella differenza di materia, ma nella capacità onnipotente e inalienabile che la morte ha di portare a conclusione la propria incombenza, chiunque essa riguardi"). Amore. Ad una lettura immediata, i due romanzi parrebbero essere declinati essenzialmente al maschile. Torero il protagonista di Steffenoni; figlio di un allevatore, quello di Barozzi. Ma a ben guardare, pur non apparendo troppo, nei due romanzi sono le donne il motore immobile della vicenda, come interessanti - e spagnolissimi - sviluppi dell'epigrafe di un capriccio di Goya ("Volaverunt?"). Il ritorno di Paloma, la donna di cui "il Rosso" era innamorato, spinge il protagonista di Steffenoni al ritorno alle corride. La disperata ricerca della donna affascinante incontrata nel capodanno Duemila a Barcellona, porta il Samuele di Barozzi in Spagna per ben tre volte. Amore e morte, dunque, che trovano approdo proprio in una terra, la Spagna, dove i contrasti sono così marcati. Ma non solo amore e morte. Anche violenza. Due libri violenti, si può dire. Paloma è tornata ha una violenza insita nei personaggi: i franchisti che picchiano e torturano con scosse ai piedi e ai genitali gli oppositori. E poi li finiscono. Violentano le donne, uccidono le madri. Ma Antonio Steffenoni dà vita a protagonisti buoni. Che riescono a convogliare la propria violenza, la propria sete di vendetta (di per sé negativa) in una giusta causa. Spagna viceversa ha dei protagonisti né buoni né cattivi che però si muovono, seguendo le tracce del loro destino, in un contesto, in un ambiente, arido, aspro, a volte addirittura trucido. Maurilio Barozzi, con prosa affilata e precisa, crea nell'Andalusia (percorsa a cavallo), in Aragona e lungo il Camino di Santiago (coperto in bici) un ambiente primordiale e talvolta spigoloso. Pure alcuni dialoghi sono in spagnolo, quasi a riprodurre, nel medesimo tempo, una sonorità e un'ostilità. Un contesto scelto opportunamente per un confronto vita-morte nella patria delle corride; una narrazione che mischia abilmente la vicenda con la mitologia, sempre pronta ad affiorare dalle pagine di Spagna. Finiamo con la struttura. Qui i due romanzi sono diversissimi. Antonio Steffenoni sfilaccia la trama facendola procedere a singulti, colmandola di flashback e digressioni che lentamente fanno fiorire il filo rosso della vicenda fino al finale che offre al lettore la chiave completa di fruizione. Maurilio Barozzi avanza lineare in un plot apparentemente semplice ma che, nell'incedere della storia, affonda il lettore in una sorta di oscurità misteriosa che lo stesso lettore deve risolvere. Entrambi i libri, comunque, sono accumunati da una finzione di fondo: la trama complessa di Steffenoni che approda a chiara soluzione e, viceversa, la lineare semplicità di Barozzi che, quasi trascinata da incontrovertibili leggi cosmiche, sprofonda nel mistero. Due romanzi diversi ma che offrono, ognuno a proprio modo e con le proprie caratteristiche, due spaccati davvero interessanti della Spagna. G. Armani 4.12.03
Recensione inviata da contaminazioni Marco Santagata, Il maestro dei santi pallidi, Ugo Guanda Editore, 2003 No, questo romanzo non è un capolavoro. Letterariamente è opera di buon artigianato: il meccanismo narrativo funziona, anticipazioni e flash back sono al posto giusto, i dialoghi sono credibili, i personaggi sono sufficientemente tratteggiati. Del resto, l'autore è un professore: sa quel che fa e sa come farlo. Forse la scrittura manca un po' di ritmo. Ma, d'altra parte, chi può dire che cosa sia il ritmo narrativo? La letteratura funziona come la buona cucina: a parità di ingredienti, con identica preparazione, uno riesce a creare un piatto sopraffino, l'altro si limita ad una dignitosa pietanza. E comunque il merito maggiore di questo romanzo non consiste nella sua qualità letteraria, quanto nel suo essere, come dire, pregno di dottrina senza essere saccente. Santagata è uno specialista del periodo in cui la storia di Cinìn, il suo protagonista, è ambientata, e si sente. L'autore maneggia con disinvolta abilità questioni e suggestioni critiche di indubbio spessore e le trasforma in racconto. Il Quattrocento: epoca strana, non più medievale, ma sempre lontana dalle sirene della modernità, epoca in cui l'uomo scopriva se stesso, quasi con timore, e i pittori, sebbene ancora onesti artigiani e tenuti in conto relativo dai potenti piccoli e grandi del tempo, lentamente stavano conquistando la loro aura, si trasformavano in artisti, rivendicavano il proprio genio, la propria unicità. Un'epoca sospesa fra latino e volgare, percorsa da sperimentalismi arditi nella scrittura come nell'arte, incerta fra l'aulicità petrarchesca delle corti e la ruvida, concreta carnalità popolaresca. Classica e anticlassica a un tempo, fra Burchiello e Poliziano, fra Lorenzo e Savonarola, desiderosa di laicità ma sempre tentata dall'aspro rigorismo religioso del Medioevo. Le sue dame si consumavano sui versi del Petrarca e sui romanzi cavallereschi, e si identificavano con i martiri della Francesca di Dante. I languori poetici delle donzelle preludevano al gioco raffinato delle corti rinascimentali, ma nella sostanza mantenevano ancora il declinante profumo del gotico fiorito. Eppure in questi anni incerti fra passato e futuro si imponeva la travolgente scoperta della prospettiva. È stato detto che la prospettiva rinascimentale "ha inventato, nello stesso tempo, la tecnologia ad alta definizione, cioè la perfetta riproduzione del mondo, la copia che vorrebbe confondersi con l'originale, e la cornice-finestra, cioè la domanda sulla natura del quadro, la differenza fra copia e originale" (Iacono). Tecnologia ad alta definizione, già: la cosa, nei nostri tempi abituati a fronteggiare le sfide della realtà virtuale, tempi viziati dagli effetti speciali e dall'avvolgenza del Dolby surround, non fa impressione più di tanto. Ma attraverso gli occhi ammirati e stupiti di Cinìn, attraverso lo sguardo scandalizzato dei suoi committenti che non riescono a tollerare la straniante ambiguità dell'illusione prospettica, noi cogliamo per intero l'impatto sconvolgente della prospettiva al momento della sua affermazione, riusciamo a intuire la profonda emozione che doveva cogliere lo spettatore contemporaneo davanti a quel gioco creativo che sembrava alterare irrimediabilmente i confini fra realtà e finzione. Cinìn, senza saperlo, è l'uomo dei tempi nuovi. È un bastardo, sconosciuto persino a se stesso. Il mondo che lo circonda, un mondo piccolo, di meschini adulteri sublimati letterariamente, di signorotti locali che si fanno la guerra per un lembo di terra, di pittori artigiani, onesti lavoratori del colore simili più a piccoli imprenditori borghesi che all'immagine romantica dell'artista tutto genio e ispirazione, che contrattano sul prezzo con committenti avari e ottusi, non può comprenderlo e, alla fine, in un modo o nell'altro, lo rifiuta. Cinìn, l'illetterato, l'analfabeta, omo sanza lettere come Leonardo (che si definiva così, manifestando tutta la sua diffidenza per il sapere libresco e faceva unico riferimento all'esperienza), rischia di morire per quel rifiuto. Ma il destino lo salva: la corda, con cui ha deciso di impiccarsi dopo che, dall'ottusità della dama segretamente amata per tutta la sua vita, amata come si ama un sogno o una chimera, è stato costretto a distruggere l’affresco in cui aveva speso tutta la sua arte, e’ marcia. Cinìn e’ salvato e rifocillato dal suo antico compagno di giochi alla masseria, Tugnin, il figlio più piccolo del Massaro, l'uomo indifferente e brutale che lo aveva comprato, chissà dove, chissà da chi, quando era ancora un bambino. E nella franca risata di riconoscimento di Tugnin, che un tempo era stato il suo unico amico, Cinìn si riconcilia con la sua vita e con un futuro che gli appartiene per intero: a lui, Gennaro, Bastardin o Bastardone, divenuto per sempre il maestro dei santi pallidi. Lorenza Boninu 3.12.03
Recensione inviata da Gus
Clara Miccinelli, Carlo Animato - Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto [Sperling & Kupfer 2003 - pp. 311 euro 12,50] Un originalissimo thriller italiano che nulla ha da invidiare ai maestri anglosassoni del brivido, ricco di sorprese e colpi di scena da mozzare il fiato agli amanti del genere. Questo Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto l'ho trovato un entusiasmante giallo storico ambientato in Perù, Spagna e Vaticano tra '500 e '600. In breve, la storia, tratta da antichi manoscritti inediti e cronache coeve, racconta la vita vera e avventurosa di Blas Valera: è un meticcio peruviano che fu tra i primi a diventare missionario gesuita nella sua terra, nato da madre inca e padre spagnolo (frutto bastardo d’uno stupro da parte d'un conquistador). Blas entra nella Compagnia di Gesù, per poter meglio aiutare la sua gente disgraziata e oppressa dalla protervia spagnola, ma il suo spirito indomito è un pericolo per gli invasori, e così il vendicativo Generale dei gesuiti lo esilierà proprio nella Spagna che da sempre contesta. Qui di Blas si perde ogni traccia, eccetto la sua tomba, in un piccolo cimitero di Malaga. E qui s'incontrano, casualmente pare, due personaggi che tentano di ricostruirne l'enigmatico passato, alla ricerca delle sue carte compromettenti (contro personaggi del calibro di Cristoforo Colombo e Francisco Pizarro) e dei suoi mille segreti: sono il grande inquisitore Juan de Mariana e l'eretico Ruiruruna, amico d'infanzia di padre Valera, che proprio sulla sua tomba sta premeditando uno sconcertante omicidio... Il tema è originale; i personaggi, credibili; gli ambienti, suggestivi; il plot, intrigante. Così tra sospetti e mezze verità, marrani ritrovati cadaveri e inquietanti lettere anonime, i due protagonisti affrontano temi fondamentali come il conflitto tra bene e male, l'ambigua e duplice natura dell'uomo, il senso della giustizia. E mentre il destino tesse la sua vischiosa ragnatela proprio lì, fra le lapidi di quel piccolo cimitero andaluso, la suspence mi ha inchiodato pagina dopo pagina, mentre preparava un'inquietante, duplice, insospettata sorpresa... Che non vi dico qui, naturalmente! gus 22.11.03
Recensione inviata da ranafatata
L'amante di Abraham B. Yehoshua (traduzione di Arno Baehr) È il terzo romanzo di Yehoshua che leggo, ed è quello che mi è piaciuto di più, anche perché la tecnica dell’alternanza dei punti di vista dei personaggi per dare forma alla storia - spesso adottata dall’autore – raggiunge in questo caso una perfezione esemplare che la dice lunga sui diversi significati che la realtà può assumere a seconda di chi ne è protagonista e di chi, eventualmente, la racconta. La storia – che è una storia “intima”, personalissima, anche perché i vari personaggi la raccontano in prima persona - è ambientata a Haifa, durante la guerra del Kippur. La guerra, che è in un certo senso la causa che innesca la vicenda, rimane sullo sfondo, mentre invece rimbalza di continuo in primo piano la difficile convivenza tra israeliani e palestinesi, narrata all’interno di una quotidianità che ci è perlopiù sconosciuta. Così, l’ostinata ricerca del misterioso "amante" da parte di Adam ci dà la possibilità di spiare il rapporto del proprietario israeliano di una grande officina meccanica con i suoi operai palestinesi, e con il giovane Na'im in particolare; è il pretesto per farci conoscere i pensieri dei vari personaggi che si alternano e si rincorrono, ricostruendo la storia della ricerca di quest'uomo che sembra scomparso nel nulla; ci guida fino al deserto, per raccontarci la guerra con gli occhi di Gabriel, e fino ai vicoli dei quartieri ortodossi di Gerusalemme. Pian piano il deserto ha cominciato a tingersi di rosso, e sull’orizzonte è fiorito improvviso un sole rotondo, come se qualcuno l'avesse sollevato al di sopra del Canale di Suez in fiamme – come se fosse anche lui uno strumento di guerra che prendeva parte alla battaglia. E verso il tramonto, il sole pareva riversarsi su di noi, come se l'avessero bombardato, e tutto – le nostre facce, le autoblinde e le armi che avevamo nelle mani – si è tinto di porpora.ranafatata 19.11.03
Recensione inviata da AleRooTs
Ryszard Kapuscinski - Il Negus (traduzione di Vera Verdiani) Un esempio da fornire quando si tratta di chiarire cosa si intende per inchiesta giornalistica. O anche cosa significhi rendere interessante la storia. Oltre che ovviamente una scrittura scorrevole e accattivante. Tutto questo nel libro-reportage che il giornalista polacco ha costruito a partire dalle testimonianze raccolte in terra etiopica, andando a cercare e ad ascoltare gli ex-cortigiani dell'imperatore Hailè Selassiè. E proprio la vita, le azioni e, per quanto possibile, i pensieri dell'autocrate, e dell'Etiopia che gli stava ai piedi, vengono ripercorsi attraverso le parole di chi lo ha servito fedelmente, partendo dagli anni del massimo splendore fino al momento della destituzione, ad opera dell'esercito ribelle. I racconti dei dignitari sono solo saltuariamente intervallati da considerazioni dell'autore, che interrompe il flusso dei discorsi unicamente per chiarire il contesto storico e permettere la totale comprensione del susseguirsi degli eventi. Ale 18.11.03
Rilettura inviata da Elisabetta Mori
Ivo Andric, Il ponte sulla Drina (traduzione di Bruno Meriggi) Il ponte del Visir, la vita sulla "porta" Tra le tante opere monumentali danneggiate dalle guerre, c'è il famoso Ponte di Visegrad, conosciuto come “Ponte di Mehmed Pasa Sokolovic”, il visir che lo fece costruire, oppure solo “Ponte sulla Drina” dal titolo del libro del Nobel Ivo Andric. Oltre ad esser stato danneggiato durante il conflitto, negli ultimi anni aveva sofferto a causa delle inondazioni provocate dall’attività della centrale idroelettrica di Visegrad. Ma il ponte non è solo il titolo del più famoso libro di Andric, è l'epopea di tutto un popolo, posto alla confluenza di due mondi, il cristiano e l'islamico, di due imperi, l'asburgico e l'ottomano, crogiolo di diverse culture, crocevia di razze, religioni, civiltà diverse. Testimone di avvenimenti storici e drammi quotidiani, della gioia e più spesso della sofferenza, il ponte sulla Drina è stato per secoli l'emblema di un mondo arcaico ed affascinante basato sui valori dell'onore e della dignità, un mondo lontano dal nostro tempo e dallo spazio europeo. Ecco un breve assaggio: Nel pilastro centrale del ponte, sotto "la porta", si trova un'apertura più grande, uno stretto e lungo uscio privo di battenti, simile a una gigantesca feritoia. Nel pilastro, si racconta, c'è una grande stanza, un'oscura sala in cui vive Arpin il Moro. Lo sanno tutti i bambini, nei cui sogni e nelle cui fantasie il misterioso personaggio svolge una parte importante. Si crede che colui al quale egli appare debba morire. [...] Spesso i ragazzi, dalla riva, osservano quell'apertura buia come un abisso che atterrisce eppure attrae. [...]Elisabetta Mori 15.11.03
Recensione inviata da Babsi Jones (di ex-ju e clorofilla)
Alessandro Marzo Magno, Il leone di Lissa - viaggio in Dalmazia Servono scrittori nomadi, dice il maestro Rumiz: servono scrittori viandanti che sappiano entrare nei soggetti che la realtà tiene a margine, che sappiano dedicare a questi margini il tempo delle parole, andarsi a cercare gli uni e le altre, le facce degli stranieri al confine ed i paragrafi lunghi. Servono scrittori nomadi, è così: non è un caso che il capolavoro concordemente riconosciuto della storia jugoslava, quel Black lamb and grey falcon di lady Rebecca West di cui ancora nessuno ha ancora tentato il reprise, sia proprio un diario di viaggio. Nella stesura della pagina e nel movimento della strada, della barca e della bicicletta c’è la stessa aspirazione al dubbio, la stessa volontà di scoperta. Viaggio e letteratura s’imbastardiscono a vicenda, in un intreccio di vocaboli e treni perduti, viaggio e letteratura hanno ritmo di virgole e ruote, bagaglio emotivo e fatica comune. Non è l’elogio della fuga celebrato da più di una generazione; è piuttosto il cammino ininterrotto del narratore che comprende d’essere il lontano figlio del figlio del figlio di quel rapsodo che a piedi percorreva le valli e le genti per cantar(n)e la storia. Il lapidario “dove andiamo non importa, ma dobbiamo andare” di Jack Kerouac sarebbe venuto a darne conferma un mucchio di secoli dopo. Servono scrittori nomadi, ed è interessante scoprire che Alessandro Marzo Magno del suo viaggio in Dalmazia ha fatto un racconto di gran classe, importante per stile e soggetto. La Dalmazia (chi s’è lasciato annegare nel brevijar di Matvejevic lo sa) è il nostro specchio smarrito; l’emisfero amputato d’un Mediterraneo che –ci siamo convinti- finisce con noi, presuntuosi che non ricordiamo d’essere generati dagli stessi leoni, delle stesse battaglie e delle stesse zuppe di pesce; stesse facce, stesse razze, tout court: solo l’altra costa, vicinissima. Ha scelto un soggetto importante e tosto, Marzo Magno: la Dalmazia che noi abbiamo scordato ma che non s’è scordata di noi, che conserva buona parte dei nostri segreti, delle nostre sciocchezze e, perché no, delle nostre bellezze. Sulle orme dell’abate Fortis (1741-1803) e del suo settecentesco Viaggio in Dalmazia, Marzo Magno ripercorre –con passione, umorismo ed un bel fagotto di cognizioni culturali, che non guastano affatto- un cammino fra le onde, le terre, le calli ed i fogli della storia e della storia dell’arte: più volte, leggendolo, mi sono ricordata di The stones of Venice, che fece la grandezza di Ruskin. Marzo Magno ha lo stesso occhio pronto, attento alle le piazze e alle trifore, ai pozzi ed alle minuzie –le maniglie, gli odori, le ombre, i mattoni- che trasformano un luogo qualsiasi in un luogo unico al mondo. È così che l’autore (che ha già nel suo curriculum un’opera di grande, differente valore come La guerra dei dieci anni) ci porta, con l’arguzia dello storico e l’estasi scanzonata del narratore, a scoprire il mare incrociato della ‘piccola capo Horn’ di Lussino, i mosaici nascosti nei cucinotti di Veglia, e di Veglia le lingue dimenticate; le scempiaggini fascistissime di Arbe –per i camerati dannunziani, l’Arbissima-, le saline lunari di Pago, il caravanserraglio di cestelli di lavatrice di stampo ‘Emir Kusturica’ che s’incontrano sul lago di Vrana, e poi bislunghe storie profumate di ginestra e lavanda, le ipotesi di Marco Polo, le bianche pietre di Brazza, le bombe cadute su Zara, i roghi inquisitori antichi e recenti di Spalato, i vampiri di Curzola, e gli austroungarici, i partigiani, i pirati, i morlacchi e i banditi. E poi i sapori dell’olio, dei formaggi e delle partenze, lo spavento delle guerre e la meraviglia del mare, l’ebbrezza del maraschino e l’ottusità dei governi –siano essi marinari, imperiali, socialisti, moderni. Il leone di Lissa è la lettura ideale per chi ha consumato la voglia di vivere, perché abbonda di scintille d’ingegno, di pensieri scattanti, di meraviglie impercettibili ma importantissime. Non ho bisogno d’aggiungere che è lettura perfetta anche per chi desideri conoscere il Mediterraneo –di cui dovremmo andar fieri e di cui saremmo, si spera, custodi ospitali- e la Croazia: quella delle origini e quella più attuale. L’autore, giornalista di Diario e veneziano (e si sente: i veneziani hanno un fiuto speciale per i dettagli preziosi), la racconta con la saggezza di chi è capace di coglierne le aspettative e le bellezze, ma anche i bisogni e le pecche. Ho già scritto, recensendo La guerra dei dieci anni, che di Alessandro Marzo Magno apprezzavo molto l’onestà, la capacità critica: non regala false lodi a nessuno. Lo conferma in questo Viaggio in Dalmazia. In aggiunta, però, ci sorprende con una narrativa itinerante, dolceamara, misurata, semplice quanto basta per godersela, raffinata quanto basta per lasciare una traccia. Dulcis in fundo, il dio della linguistica slava benedica coloro i quali hanno competenze di dizione, traduzione, glossari e fonetica serbocroata, e Marzo Magno è tra questi. babsi jones 11.11.03
Recensione inviata da AleRooTs
Daniel Guedj - Il teorema del pappagallo Parte piano piano, ma poi ingrana e finisce in crescendo, coinvolgendo il lettore e lasciandogli la giusta malinconia quando anche la pagina 553 finisce di scorrere sotto i suoi occhi. Bisogna resistere nei primi capitoli, o meglio, io ho dovuto farlo, sforzandomi di non ricorrere a uno dei sacrosanti diritti del lettore elencati da Pennac, quello di abbandonare un libro senza averlo finito. Temevo di trovarmi di fronte alla versione matematica de Il mondo di Sofia, a suo tempo additato come capolavoro della divulgazione narrativa, ma che mi deluse completamente: la parte filosofica non era nulla di che, e il romanzo in cui era artificialmente infilata non prendeva e faceva acqua un po' da tutte le parti. Questa volta invece il pericolo è scampato: la storia tiene, i personaggi ci stanno decisamente entro (ehm, forse sarebbe un minimo più professional qualcosa del tipo "personaggi azzeccati e ben caratterizzati"), e anche la parte "matematica" si rivela una bella sorpresa. Senza nessuna mira di esaustività, si segue un unico filo che si snoda dagli arbori del pensiero fino ai giorni nostri, un filo disteso più che sulla matematica, sui matematici, sulle loro vite e le loro storie, aneddoti curiosi e significativi, e poi bozzetti sempre piacevoli da leggere dipingono le situazioni e i contesti - le condizioni al contorno per usare una terminologia in tema - in cui si trovarono a vivere e a creare coloro che spesso conosciamo solo per i teoremi a cui hanno dato nome. Guedj attinge ai piene mani dal calderone degli elementi evocativi e affascinanti, quelli che fanno tanto "cultura": matematica, storia e filosofia sono coinvolte continuamente, e poi, libri antichi e preziosi, dimostrazioni segrete, biblioteche leggendarie, il rapporto fortissimo e particolare fra fratello e sorella gemelli, l'handicap come punto di forza, innovativi registratori biologici, il tutto a scorrere sullo sfondo suggestivo di Montmartre o delle bellezze naturali di Siracusa e dell'intera Trinacria; ma l'autore è bravo a gestire tutti questi input, a dosare gli ingredienti, a mantenere interesse e attenzione fino alla fine, e chissà, forse anche a ricucire prematuri divorzi fra qualcuno dei suoi lettori e la vera protagonista del libro, la matematica. Ale 10.11.03
Recensione inviata da Raffaella Casati
Lo ammetto, ero davvero scettica una settimana fa, quando uscivo dalla Fnac con Gli eroi son tutti giovani e belli di Luigi Bolognini nella bustina verde. Io che sono totalmente asportiva, nella teoria ancora più che nella pratica. Figuriamoci poi quando si parla di gente che non ho mai nemmeno sentito nominare! E invece credo che sia questo uno dei risultati che devono rendere più soddisfatto chi scrive dedicandosi a un argomento specifico: riuscire a trascinare, ad avvincere anche chi non legge per passione o familiarità con la materia. Venti ritratti in ordine cronologico che si sviluppano seguendo un percorso ben ordinato. Si inizia con un flash, la descrizione della sfumatura che rende unico il protagonista, il tratto più saliente e saldo della sua personalità e del suo stile di vita e di gioco. Poi la piccola confessione, i ricordi, i momenti migliori e quelli peggiori, che non sono quelli oggettivi di chi legge gli annuari o ripensa alle radiocronache, ma quelli interni, a focalizzazione zero (e il bello è che quasi mai coincidono). Le emozioni più che gli ori, il sudore più che le sconfitte, i viaggi più che i soldi, la tenacia nel volersi migliorare, la competizione che diventa amicizia, i sacrifici che non sono mai rimpianti. E poi la nota agrodolce che chiude ogni biografia come la prima ed unica pennellata scura su una tela impressionista. Le ultime frasi sono quelle che parlano di treni persi, di nostalgia, dello sport che non è più quello di una volta, di scelte forse sbagliate, dell'ineluttabile destino di ogni sportivo, che è quello di incontrare limiti invalicabili. Di eroi che la voglia di mettersi alla prova continuano ad averla anche dopo aver appeso al chiodo la giovinezza. Perché continuano ad esserlo davvero, giovani e belli. Raffaella Casati 5.11.03
Jean-Claude Izzo, Solea (traduzione dal francese di Barbara Ferri) Questo noir chiude la trilogia che l'autore marsigliese incentra sulla figura di Fabio Montale. L'ex poliziotto si trova sempre invischiato in vicende nelle quali la mala, il crimine, la mafia, il sistema corrotto schiacciano l'umanità dei singoli esseri umani che vorrebbero semplicemente vivere e saprebbero farlo assaporandone ogni aspetto in modo autentico. L'intreccio avvincente non è l'unico motivo per cui riesce difficile staccarsi dalla lettura: Izzo scrive in modo pregnante, semplice e denso ad un tempo, efficace per senso del ritmo e giusto dosaggio dei dialoghi. Scorrendone la prosa viene di continuo voglia di annotarsi le frasi, perché ha una capacità di verbalizzazione in grado di rendere tangibile anche la sfera invisibile. Quella delle sensazioni, dei sentimenti, del sentire profondo; ma anche quella in cui ci si smarrisce quando capita di inabissarsi troppo. Quella in cui amore e malinconia, amarezza e malia si miscelano avviluppando l'individuo di quel non so che capace di perderlo. Leggendone le descrizioni si avverte in ogni momento la materialità delle cose, la trasparenza della luce, la realtà del clima, la irresistibile sensualità delle sue donne. Siamo noi ad assumere pietanze e bevande, siamo noi a fumare su quel terrazzo rimirando un paesaggio ironicamente augusto, contraltare delle miserie subumane di chi opprime il bello, di chi affoga il vero. È un duro con tanta sensibilità, un disincantato che non cede al cinismo, un vinto che non si rassegna alla rinuncia. Un autore da gustare e da amare. E rimpiangere, purtroppo, dal 26 gennaio 2000. Consiglio senza riserve quel che di lui ho letto fino ad oggi: Casino totale, Chourmo, Solea; Marinai perduti; Il sole dei morenti. Giulio Pianese, ovvero Zu
Lettura inviata da tequila
Ancora una - Le fiabe del filo invisibile di mammeonline Zucche che curano il mal di pancia, cornacchie bianche come la neve, fatine che portano i bambini alle mamme troppo sole. Ecco un libro per bambini scritto davvero da qualcuno che sa cosa i bambini vogliono ascoltare: le mamme! Nove membri della comunità mammeonline hanno scritto altrettante fiabe, una di loro le ha illustrate e il risultato è fresco, gradevole, convincente. Io sono una mamma, l'ho letto per mia figlia, ma anche per me: perché allargare i confini della fantasia aiuta i bambini a crescere, e le mamme a restare bambine. tequila 23.10.03
Contributo inviato da Carlo Annese
Ho riscoperto il piacere della lettura: non per sottolineare qualcosa da analizzare o su cui riflettere o semplicemente da segnalare, ad alta voce; ma per la voce che dalle pagine si leva verso le mie orecchie interiori. Continuo a pensare, analizzare, valutare e considerare ma senza la preoccupazione di mettere da parte i fili per svolgerli appena mi fossi seduto davanti a un computer. A volte mi manca, spesso però mi accorgo di quanto pensare/bloggando o bloggare/pensando abbia relativamente accorciato il mio respiro. Per respiro ampio, per esempio, intendo quello che si avverte leggendo i profili di sportivi che Emanuela Audisio, giornalista di Repubblica, ha raccolto in Bambini infiniti. Emanuela è una cara collega-amica con la quale ho condiviso olimpiadi e campionati del mondo: il mio giudizio, dunque, rischia di essere condizionato. Credo, però, che il suo modo di scrivere e di fare giornalismo sia originale, diverso, in qualche modo superiore, a prescindere dalla considerazione personale. È il frutto di un lavor(i)o interiore, di letture e soprattutto di una capacità di visualizzazione delle persone e delle cose che non è facile realizzare e trovare. E che è necessario saper usare con equilibrio, senza sprechi. Carlo Annese 17.10.03
Rilettura inviata da Auro
Sulla pelle viva, di Tina Merlin. Lo avevo già letto, ma il libro mi era stato prestato. Ho approfittato dell'offerta dell'Unità per acquistarne una copia e tenerla per me. Se avete visto (e se non lo avete visto fatelo, c'è il DVD in edicola a 7,99 euro) il Vajont di Paolini sapete già tutto. Molte parti dello spettacolo sono riprese pari pari dal libro, di cui è sfruttata soprattutto la parte documentale. Il libro è un colpo al cuore, una calamita che ti prende e ti estrania. Lo si legge di istinto anche in metropolitana durante l'ora di punta perché ha la capacità di spostarti con il corpo sui monti di Belluno e con la testa negli anni '60, e anche prima. La Merlin infatti racconta tutta la storia della grande diga, fin dal suo essere solamente pensiero nella testa di Dal Piaz. Non tralascia neanche un nome. Neanche una ruga, un morto e un sopravvissuto. Tutto lì, parola dopo parola, rabbia contro rancore, metro cubo di cemento armato contro metro cubo di roccia e di montagna. È la storia di uno scandaloso silenzio e di un poderoso e drammaticamente controllato raggiro, in nome di un progresso che non guardava in faccia nessuno, neanche la politica, che probabilmente non ha avuto neanche il tempo di far finta di non vedere. È una storia che non si può credere vera, che non si può giustificare, che non si può e non si deve dimenticare. Auro 15.10.03
Recensione inviata da AleRooTs
Michel Houellebecq, Piattaforma (traduzione di Sergio Claudio Perroni) Un altro Houellebecq, un altro shock. Gli ingredienti di base sono gli stessi che mi avevano atterrito al tempo della lettura di Le particelle elementari. Protagonisti grigi, che non trovano il loro senso in una Francia - un Occidente - che non comprendono e in cui non si riconoscono. Calzanti applicazioni in vivo della scala dei bisogni di Maslow; non hanno difficoltà a soddisfare le esigenze "vitali": impiegati statali, posto fisso, rendite sicure, sono quindi pronti per salire al gradino superiore, desiderare qualcosa di più, perché così è la natura umana. Ma il "qualcosa di più" che la società occidentale propone, prodotti di marca, vita culturale, dedizione al lavoro, possibilità di viaggiare, non possiede alcun significato ai loro occhi. Ecco allora attorno a loro aprirsi un vuoto totale, un senso di nulla denso e invadente che pervade lo spazio e il tempo, e lascia sopravvivere solo un cinismo estremo e disperato. Nessuno spazio alle emozioni, il mondo è inquadrato in una visione totalmente razionale. Totalmente razionale e senza soluzioni né prospettive. La vita, l'esistere in sé, non ha alcun tipo di significato. Solo il sesso, e questo è l'altro fortissimo elemente caratterizzante, sembra poter emanare qualche raggio luminoso nel grigio globale. L'autore non lo dice, ma è facile capirne il ruolo. Attraverso il sesso l'uomo perde temporaneamente il completo controllo cerebrale su di sé, e sulle proprie sensazioni. L'unica possibile via di fuga, pochi istanti di piacere primordiale per dare senso a esistenze vuote di significato. Ma, totalmente fine a sé stessa, questa via di fuga si rivela ben presto nient'altro che un vicolo cieco. Ma in Piattaforma Houellebecq non si ferma alla prese di coscienza dell'inutilità dell'essere. Offre a Michel uno spiraglio, una ragione di felicità; una felicità vera, ben più profonda e completa degli effimeri brandelli di gioia al culmine dell'estasi sessuale. Una donna ovviamente, come nella più collaudata, e forse banale, tradizione narrativa. Una donna, ovviamente, speciale: affascinante e bella, amante del sesso e in carriera, quasi un pesce fuor d'acqua nello scenario anonimo e demotivato dipinto nel romanzo. E il cinico e rassegnato burocrate riesce a trovare in lei, nell'amore che - mai citato - li lega, nella reciproca gioia del procurarsi piacere a vicenda, una ragione nel vivere, una fonte di mai sperata speranza. "...potevo sopravvivere grazie a una donna, una donna da amare e rendere felice..."Dicevo, in questo libro H. non si limita a teorizzare la vacuità assoluta della vita, no, in un impeto di sadica crudeltà concede al suo personaggio di assaggiare la gioia completa dell'amore, solo per poter poi farlo precipitare, un tremendo ritorno alla condizione ex-ante, un passo indietro terribile e violento, uno shock impossibile da assorbire per l'anima che coinvolta e illusa dall'amore e dalla speranza allenta le difese nell'aprirsi all'altro. Scioccante da leggere, è impossibile rimanergli indifferenti; qualsiasi dubbio esistenziale ne esce amplificato e ingigantito nelle sue conseguenze, e ancora più sconvolgente è l'accorgersi dei tanti, troppi, punti in comune tra la propria vita e il cupo mondo descritto nel tascabile appena concluso. ...ale... 29.9.03
Precisazione inviata da Wu Ming 1 a GiallodiVino
Nessuno ha mai sospettato che dietro Q ci fosse Umberto Eco. Uno potrebbe fare tutte le ricerche possibili, fino ad esaurirsi, ma non troverebbe mai il documento originale, la versione di prima mano, l'ur-articolo in cui qualcuno effettivamente sospettava che l'autore fosse Eco. Esistono soltanto articoli in cui si dice che "qualcuno ha sospettato ecc.". Resoconti di terza mano insomma. Il bello è che la cosa cominciò subito: la prima recensione, uscita sul Messaggero 2 giorni dopo la pubblicazione (marzo '99) diceva già che qualcuno aveva sospettato che ecc. ecc. Quando, di grazia, se il libro era sugli scaffali da 48 ore? È come quando compri il n. 0 di una nuova rivista e ci trovi già le lettere dei lettori. La cosa fastidiosa è che la cosa si ripete all'estero: in ogni paese in cui esce una traduzione, i giornali scrivono che "in Italia si è addirittura creduto che il libro lo avesse scritto Umberto Eco". La verità è che basta leggere qualche pagina di Q per vedere che lo stile non ha nulla a che vedere con quello di Eco, e che le fonti d'ispirazione sono tutt'altre (principalmente Ellroy e Taibo II°). Altra cosa: Eco non ha mai pubblicato alcuna presa di distanza "sottilmente ambigua". Si è limitato a fregarsene, come abbiamo fatto noi. Non ha mai nemmeno nominato né noi né Q. Preciso che non sto dando la colpa al buon Gialdinelli, che anzi ringrazio per quel che ha scritto su Q. Incolpevole, si è fidato dei resoconti dei resoconti dei resoconti ecc. :-) Wu Ming 1 Aggiungo, a titolo di curiosità, il rimando a un articolo segnalatomi da Franco G. che parla più diffusamente di questa vicenda (o meglio, leggenda). Giulio Pianese, ovvero Zu 22.9.03
Considerazione inviata da Franco Gialdinelli Il re e il suo giullare di Margaret George e Q di Luther Blissett (alias Wu Ming) sono due libri già di per sé stessi assolutamente da leggere; se però consideriamo che il periodo storico coperto dalle due opere (1518 – 1555 Q, 1494 – 1547 Il re e il suo giullare) è praticamente lo stesso, allora leggere prima Q e poi Il re... diventa un'esperienza unica. Nel primo, che è propedeutico al secondo, si trovano indispensabili elementi per meglio comprendere il secondo e da questo si ha uno straordinario controcampo sul primo, con personaggi ed eventi che ricorrono, magari in luce diversa, e le vicende europee di Q viste con il già allora distaccato occhio inglese. In entrambi i casi la tecnica narrativa è quella della full immersion, facilitata dal taglio autobiografico dei romanzi: ci si trova così a compiere un avventuroso viaggio attraverso un’intera generazione di vita del Cinquecento, dal fango e sangue delle battaglie allo sfarzo delle corti reali, passando spesso anche per luoghi nascosti e privati. In totale sono 1655 pagine, ma sono di quelle che mentre le scorri ti fanno venire voglia di consultare atlanti ed enciclopedie ed alle quali continui a pensare per un bel po' dopo che hai finito i due libri: un'esperienza che va al di là del momento della lettura, libri che fanno riflettere e insegnano. Viene da pensare che se nelle scuole la storia fosse un po' più raccontata che spiegata, forse non sarebbe divenuta quella materia ostica, noiosa, e purtroppo pericolosamente trascurata, che è oggi. Franco G. 21.9.03
Lettura inviata da Franco Gialdinelli Avevo appena, e un po' a malincuore, lasciato il fianco dell'affascinante e sconosciuto antieroe protagonista di Q, quando mi sono trovato a far da scudiero, anzi da giullare, ad un personaggio invece conosciutissimo: Sua Maestà Enrico VIII, Re d’Inghilterra e Francia, artefice dello scisma – a tutt'oggi in essere - della chiesa inglese da quella romana, della condanna a morte di S. Tommaso Moro, il sovrano dalle sei mogli, di cui due ripudiate e altrettante fatte decapitare; tutto ciò in Il re e il suo giullare, dell’americana Margaret George (traduzione di R. Rambelli), autobiografia del sovrano annotata dal buffone di corte Will Somers. Ovviamente si tratta di un'autobiografia immaginaria, per la quale l'autrice escogita il pretesto di un diario del re, recuperato dal suo vecchio giullare e da questo fatto avere ad una sua figlia illegittima, ma è così sorprendentemente ben curata e documentata (quindici anni di lavoro per un manoscritto originale di tremila pagine) da risultare credibile in modo sconcertante. L'opera ha infatti tutte le caratteristiche di un'autentica autobiografia, compresa la nuda umanità dell'autore nel raccontare, con disarmante candore, quelle che per lui sono vicende assolutamente normali, ma che a noi appaiono terribili malefatte, come nel trovarsi delle plausibili – sempre per lui – giustificazioni quando il senso di colpa si fa troppo pungente. La storia però è narrata così dal di dentro che nel senso di colpa rischia di incappare anche il lettore stesso, quando si rende conto di quanto in realtà sia facile, forse comprensibile per qualunque uomo, cadere nell'errore dell’abuso di un potere così assoluto come quello che aveva un re di quasi cinque secoli fa: viene da domandarsi se noi, al posto suo, saremmo stati capaci di non fare altrettanto. Qui l’atmosfera è tutt'altra da quella di Q: non c’è nulla di eroico e ci si trova a stretto contatto con i fasti assurdi e gli sporchi intrighi della corte inglese, ma si tende, alla fine, a simpatizzare per quest'uomo pieno di contraddizioni, spesso crudele in modo infantile, ma capace comunque di amare davvero e anche di portare l'Inghilterra, con le sue scelte tutto sommato coraggiose e grazie anche ai suoi acuti consiglieri, ad uno dei momenti di massimo splendore e potenza, splendore e potenza che saranno poi ulteriormente esaltati anni dopo dalla sua figlia più famosa: la regina Elisabetta I. A conti fatti è difficile immedesimarsi nella storia di una vita così esclusiva e tormentata, ma è difficile anche non farsene intrigare, seppur come spettatori; e di intrighi, poi, ce ne sono a iosa e di quelli assolutamente succulenti! Commovente, in mezzo alle spesso pesanti critiche, l'affetto per il proprio re che traspare dalle poche note del giullare Will il quale, nonostante tutto, lo accetta per quello che è e che lui, grazie alla sua intelligenza, riesce a vedere: semplicemente un uomo, che però dà a noi la possibilità di viverci la realtà dal punto di vista di un re. Franco Gialdinelli 19.9.03
Lettura inviata da Franco Gialdinelli Dopo un lungo periodo di grossi cambiamenti personali, durante il quale avevo quasi smesso di leggere, ho ripreso in mano un libro che da un bel po’ stava sullo scaffale in attesa: Q di Luther Blissett, romanzo storico e picaresco d’ambientazione cinquecentesca. Era quello che ci voleva: i tumulti del neonato evo moderno e la tempesta del rinnovamento che in quegli anni coinvolse e squassò tutta l’Europa, sono stati la spinta giusta per disincagliarmi dalla secca letteraria in cui mi ero arenato. Q è un’avventura di quarant’anni di vita, narrata in prima persona: quasi istantanea è la simpatia che si prova per il protagonista e subito conseguente l’immedesimarsi in lui, riconoscere come propri i suoi ideali, ammirarne la determinazione, incrollabile pur nelle più cocenti sconfitte, e l'umanissimo coraggio, e seguirlo nel suo straordinario viaggio tra Riforma e Controriforma, Luterani e Cattolici, guerre e rivolte contadine, in un susseguirsi incessante di episodi drammatici ed esaltanti. Ci si trova così al suo fianco sulle mura della città tedesca di Münster, a combattere per la libertà dei contadini contro le truppe imperiali, si getta uno sguardo indiscreto tra i segreti e gli intrighi della Roma dei potenti cardinali, si vola fino alla lontana Istanbul, ci si ferma sulle coste atlantiche ad Anversa, si finisce tra le calli di Venezia, il tutto tra spie, banchieri, capitani di ventura, prostitute, predicatori e stampatori. Il libro è uno di quelli che intriga sul serio, che quando lo si ripone sul comodino dispiace un po’ di essere troppo stanchi per continuare la lettura, di quelli verso i quali il pensiero, ogni tanto, scappa a ragionarci su anche durante la giornata di lavoro. In più, oltre all’avvincente mistero di Q che fino alla fine non si svela, la sua grandezza sta nel fatto che si tratta di una godibilissima e trascinante, quanto eccezionalmente ben curata e documentata, lezione di storia. Il romanzo, alla sua uscita nel 2000, finì al centro di una specie di caso letterario: sotto lo pseudonimo "Luther Blissett" si nascondeva un gruppo di autori (che attualmente scrivono invece firmandosi Wu Ming) che qualcuno sussurrava facessero capo a Umberto Eco, il quale pubblicò pure una specie di presa di distanza dalla cosa, ma in un modo così sottilmente ambiguo che più che chiarire le cose, al contrario, alimentò i già numerosi sospetti sul suo coinvolgimento. In effetti, c’è da pensarci: la maestria con cui l’opera è scritta e il rigore e la competenza con cui sono usate le fonti storiche sono assolutamente degne dell’autore de Il Nome della Rosa. Attenzione: il punto di non ritorno, quello arrivati al quale ci si porta il fondo il libro d’un fiato, è in questo caso pericolosamente arretrato: se vi c’imbattete a tarda notte, com’è capitato a me, siete fritti. Franco Gialdinelli 12.9.03
Consiglio inviato da Elisabetta Mori
Segnalo, per chi volesse leggere uno scrittore dallo stile raffinato e dalla scrittura ricercata ma pulita, Glenway Wescott, americano, contemporaneo di Hemingway e Scott Fitzgerald, ed in particolare il suo romanzo Appartamento ad Atene. Pubblicato qualche mese fa da Adelphi (tradotto da Giulia Arborio Mella, dopo una prima traduzione che risale al dopoguerra a cura della Bompiani), Glenway Wescott descrive magistralmente l'umiliante stato di sottomissione di Nikolas Helianos, ex editore colto di Atene che ha perso tutto a causa della guerra, all'ufficiale della Wehrmacht che trova alloggio nella sua casa. Il modo dispotico, la pervicacia, il sottile piacere con cui il maggiore Kalter tiranneggerà tutta la famiglia Helianos, mi sono sembrati il filo conduttore di questa storia, che si snoda all'interno di un quartiere di Atene assediata dai nazisti. Esiste una precisa strategia, studiata a tavolino, della tortura psicologica ma anche materiale che Kalter riversa, giorno dopo giorno, su povere creature inermi, in definitiva per alimentare il suo odio, tutto ariano, verso il popolo greco che ritiene inetto e lontano dal fulgido avvenire del nascente impero tedesco: fino all'epilogo, che si rivelerà quanto mai assurdo e inaspettato. Uno splendido libro da leggere e rileggere, dove Wescott mostra di conoscere l'animo umano in tutte le sue sfacettature, in una esternazione che va dal nobile sentire alla strisciante perversione. Elisabetta Mori 5.9.03
Recensione inviata da AleRooTs
Giorgio Bettinelli - In Vespa da Roma a Saigon E io che ero orgoglioso perché quest'estate mi sembrava di aver viaggiato fino a chissà dove, anche se mi ero fermato a Mosca e nulla più. E mi dicevo di essere stato anche un vero viaggiatore, perché ero riuscito a barcamenarmi tra diversi mezzi, e addirittura (!) avevo fatto un trasferimento su una corriera... A dimostrare per l'ennesima volta la relatività di qualsiasi valutazione, a smontare il mio (ingiustificato) sentirmi un po' Indiana Jones, e soprattutto a farmi sognare nuovi e affascinanti viaggi, a tutto questo è servita la lettura post-vacanziera di questo libro. Personaggio alternativo, l'autore sta meditando il trasferimento permanente a Bali, ma lì recupera una Vespa, se ne innamora, e come folgorato decide di mettere in pratica il sogno di arrivare fino in Vietnam, solo e in Vespa, dall'Italia. Non aspettatevi divagazioni tecniche sul mezzo, totalmente assenti, e neanche i dettagli logistici-burocratici su visti, spese o quant'altro; nel caso decidiate di ripercorrere il suo itinerario, dal punto di vista pratico il libro non vi sarà di nessun aiuto; le pagine indagano invece profondamente i luoghi attraversati, come appaiono al viaggiatore, la storia che li caratterizza e le popolazioni che vi abitano. Inizialmente ero scettico sul suo scrivere, mi pareva dalle prime pagine poco fluido, ma era solo un'impressione iniziale smentita dal seguito. I capitoli scappano via veloci, e alla fine di ogni capitolo sempre mi ritrovavo a pensare "devo proprio andarci...", "quand'è che mi compro una vespa?" Non sono così tanti i libri di viaggio in cui arrivati alla fine ci si sente come se il viaggio l'avessimo fatto noi, questo è uno di quelli, e se avete appena finito le vacanze leggerlo può essere molto pericoloso per il ritorno alla vita quotidiana... Quando si parte? ...ale... 22.8.03
Preferenza inviata da Paola
avevo deciso di scrivere qualcosa ma quando decidi che è il momento giusto per farle le tue cose migliori o ti vengono una merda o non ti vengono proprio. è proprio questa la differenza tra me e un grande scrittore, non so ad esempio marquez. lui quando ha partorito cent'anni di solitudine era bello bello in macchina, direzione vacanza, con tanto di moglie e due figli. zacchete. l'ispirazione, il momento magico, quello in cui potresti dettare parola per parola tutte le 800 pagine. e che ha fatto? ha rigirato la opel, è tornato alla su' casa e si è messo a scrivere. tu dirai: certo lui se lo poteva permettere! manco per niente: era talmente poveraccio che s'è dovuto vendere la opel e la moglie di suo ha venduto il phon. di fatto s'è chiuso in casa per un anno e ha vomitato su carta assorbente tutto quello che nei decenni andati aveva serbato nella sua memoria e nel suo cuore. e io ancora dovevo nascere. 8 mila copie vendute in una settimana, proprio la settimana della guerra dei sei giorni, proprio la settimana in cui la rivista primera plana gli doveva dedicare la copertina e che all'ultimo momento dovette cederla alla guerra. 8 mila copie senza uno straccio di pubblicità. tu dirai: ma aveva già scritto cose come le foglie morte, nessuno scriva al colonnello, la mala ora, i funerali della mamà grande! si si le aveva scritte ma se al monte dei pegni portò anche l'asiugacapelli, tu quante copie di quei libercoli credi avesse vendute? pochine. un libro magico visto che la mamma, che se è ancora viva dovrebbe avere oggi 100 anni, in vecchiaia si trasformò nella perfetta ursula. io ancora non ero nata e nel maggio del '68 uscì in italia e vendette 1 milione e mezzo di copie. ad oggi ne ha vendute più o meno 25 milioni nel mondo. un libro misterioso perchè fu visto come una specie di manifesto pur non rispecchiando affatto le idee del '68. doveva intitolarsi con un insulso "la casa" e invece aureliano, ursula, remedio e tutti gli altri scalpitarono talmente forte che fu impossibile tenerli in casa e così la casa cedette il posto a cent'anni di solitudine. gabo si ritrovò ad essere prigioniero della sua stessa creatura, quasi odiata perchè mito, mentre lui avrebbe voluto solo scrivere un libro. poi venne la crisi certo, perchè tutti si aspettavano un altro cent'anni di solitudine e invece sfornò l'autunno del patriarca, ora come ora forse il più amato dei suoi libri, ma non amato a quei tempi. insomma, nel frattempo io sono nata, cresciuta e pasciuta e darei la mia mano destra, chè non sono neanche mancina, pur di trascorrere una giornata con lui a chiacchierare. Paola 12.8.03
Recensione inviata da GiallodiVino
L'affondatore di gommoni, di Francesco De Filippo La vita del Genio d’Albania di qua e di là dell’Adriatico. La vita di uno che non è un semplice scafista, ma fa qualcosa di più, lavora come Affondatore di gommoni (Mondadori, 216 pagine, 16.60 euro). Mestiere che è il titolo del secondo romanzo di Francesco De Filippo. Un viaggio agli inferi andata a ritorno, compiuto con la tenerezza e lo stupore che s’addice a un bambino. Pjota Barnovic - il protagonista, l’affondatore - è un ragazzino. “Sono uno specialista io, un professionista. Non uno scafista qualunque, che rischia la sua vita, quella degli altri, che ha a che fare con la polizia (...). Io sono libero”. Essere affondatore di gommoni è un privilegio, perchè si tratta di un incarico rischioso e difficile. Pjota - nonostante sia un mocciosetto che vive in mezzo alle peggiori gang criminali che trafficano carne umana, droga e armi in mezza Europa - viene scelto perchè lui è un genio. Ha letto tutto, tutti i libri, li ha imparati a memoria, ma non sa nulla della vita. Così il suo capo, Razy Leone Papà, lo prende con sè. “Razy mi piaceva, andava in giro con un'auto lunghissima e con uomini armati che non lo lasciavano mai. Ma soprattutto mi piaceva quel suo incisivo d’oro: un tocco di eleganza e di distinzione, di distinzione sì. Nessuno poteva permetterselo, soltanto lui; mio padre ne aveva uno ma dovette impegnarlo quando nacque Natasha. Tutte le altre dentature del villaggio vivevano più di cavità che che di osso e smalto”. Razy Leone Papà vuole Pjota con sè e ma prima deve metterlo alla prova, farlo scendere in una grotta dove piega le volontà delle ragazze che andranno a battere oltremare. Un antro che ricorda quello dov’era rinchiuso Hannibal, nel Silenzio degli innocenti. Ancora più lurido e schifoso, buio e affollato di topo lunghi come un braccio. Ma Pjota un giorno se ne va dall’Albania, arriva in Italia. E gira come una trottola tra Napoli, Milano e Roma. E vede l’inferno con i suoi occhi. Le puttane, i boschi frequentati da travestiti e papponi, s’inventa improbabili commerci di preservativi, batte lui stesso e riprende a fare l’uomo di fiducia di una gang. Sentite qua: “il gioco era che gli uomini passavano con le macchine e ogni tanto qualcuna si fermava, faceva una domanda alla femmina e quella se rispondeva bene allora saliva sulla macchina e lui la portava a fare un giro e tornavano dopo un poco, altrimenti niente. (...) Battere lo chiamavano questo gioco, c’erano tante ragazze, pure albanesi, anche se non capivo perchè si chiamava così in quanto nessuno si batteva. E la ragazze nel gioco si chiamavano puttane”. Una storia semplice, avrebbe detto Sciascia. “La notte stavo dentro alle stazioni, sotto i cartoni e vedevo la luna con un litro di vino nella testa che qualcuno mi faceva bere, mi addormentavo e chiedevo al cielo nero che stava sopra di me, alle stelle, chiedevo un poliziotto del cielo, qualcuno che esistesse che mi facesse passare la paura, come potevo diventare italiano in Italia. In Albania non avevo paura di nulla, ma lì, in Italia, da albanese, sì, ce l’avevo la paura. Tanta”. Il romanzo sembra la trascrizione di un racconto orale. La vita di Pjota narrata da lui medesimo. C’è uno stile che De Filippo si porta dietro, e che gli consente di rendere con naturalezza le prospettive più truci e i panorami più desolanti. Non si tratta di un reportage sulle disavventure di un ragazzino che sbarca ne Lamerica, da un gommone di clandestini. È un romanzo, e potrebbe anche essere la vicenda di un piccolo messicano che scavalca il muro nero che separa Tijuana dagli States e invece d’arrivare a Napoli mette piede a Las Vegas, l’effetto sarebbe lo stesso. È l’obiettivo scelto dalla macchina da presa che dà a questo libro una marcia in più. Un tele che sta sempre dietro le spalle di Pjota e ci mostra il mondo, l’Albania, l’Italia come lui la vede. E non è facile. Se avete letto Céline, e v’è piaciuto Viaggio al termine della notte. Se vi ha appassionato J.T. Leroy di Sarah. Provate una dose di De Filippo. Uno con una faccia normale, stempiato il giusto, occhiali tondi e che nella vita fa il giornalista all’Ansa. Ma che intinge la penna in un epos quotidiano, surreale, ma allo stessso tempo vicinissimo a noi, e ne tira fuori una storia che prende giù alla bocca dello stomaco e ti lascia respirare soltanto alla fine. Provate a immaginare un bambino che vede e vive stupri, amazzamenti e vite bruciate dal buco d’una serratura. E questo buco, piano, piano s’allarga. Non bastano tutti i libri che Pjota ha letto per svelargli tutto il male e l’amore del mondo. Deve viverli sulla sua pelle. Nicola
Recensione inviata da Latte & fiele
Di tutti i mali che il colonialismo ci ha portato, il più subdolo è stato il "sogno d'amore". Affermazione delle donne somale al Forum Migranti e Native. Roma, 1997. Maria Cristina Fedrigotti, Sogni d'amore, Edizioni Energy - ISBN 88-88244-09-3 È un mosaico di sentimenti e contraddizioni, quello che ci ha regalato Maria Cristina Fedrigotti. Dopo lo splendido ed incredibilmente maturo esordio con A cosa stai pensando, arriva Sogni d'amore edito da Energy. Il primo racconto, Alba, ha vinto lo scorso anno il premio Teramo. Ma Alba è solo l'inizio, l'aurora di una più complessa rete di rapporti e di illusioni, di incantesimi e di speranze, che hanno come perno storie di donne. Donne in un impianto narrativo forte e capace di sorprendere, coeso eppur prismatico. Donne un po' in là nel tempo, quasi che il contesto storico e culturale più timido possa fungere da alibi, sino a giustificarne l'ingenuità. Donne riscattate forse oggi dal personaggio di Chiara, che sembra voler fare da contraltare alla sconfitta emotiva di chi l'ha preceduta. L'hanno preceduta storie diverse, raccontate con voci toccanti e personalissime, che anche stavolta denotano la completa capacità di mimesi linguistica dell'autrice, che sembra sciogliersi, scomparendo nelle voci delle sue donne. Voci che a loro volta sprofondano nel loro tempo, nei ricordi, in un'immagine di femminilità che sembra voler essere congelata per non cedere il passo alla vecchiaia. Sentimenti, sogni d'amore, totalizzanti e distorti. Di quelli che alzano la soglia del dolore. Perché la vita con l'uomo che si ama è privilegio, grazia ricevuta, e il tradimento un prezzo giusto da pagare. Il dolore diventa allora una prova di appartenenza che non può mai condurre al disincanto. Il riscatto, quello di Chiara, quello della nuova generazione, porta lontano dai sogni d'amore, dalle illusioni che hanno ferito le donne. Una nemesi, nell'intenzione di Maria Cristina Fedrigotti, che lancia Chiara verso un futuro più consapevole, senza rinnegare la forza d'animo delle protagoniste e rispettandone la sofferenza. Latte & fiele 24.7.03
Recensione inviata da L'intercapedine
Igiene dell'assassino, di Amélie Nothomb (traduzione di Bruno Biancamaria) La particolarità di questo romanzo, che tra l'altro è uno dei motivi che mi ha incuriosito e spinto a leggerlo, è di essere composto quasi per intero da dialoghi; le parti descrittive sono quasi assenti e non occupano più di qualche facciata. In pratica è come se non esistesse un narratore e l'effetto per lo più è quello di stare ascoltando in cuffia delle interviste registrate. Infatti anche nella finzione romanzesca, si tratta proprio di interviste; al famoso scrittore ottantenne Prétextat Tach, già premio Nobel e che fino a quel momento si era reso inavvicinabile conducendo un'esistenza ritirata e solitaria, viene diagnosticata una rara malattia che gli lascerà soltanto un paio di mesi di vita. L'ultraottantenne in vista della sua dipartita decide di fissare cinque incontri con altrettanti giornalisti per lasciarsi intervistare. Tutti gli inviati di sesso maschile vengono annientati dalle capacità retoriche dello scrittore e dalla sua voglia di prendersi gioco di loro, demolendoli verbalmente; soltanto Nina, nonostante l'ottuagenario non faccia mistero di nutrire un odio profondo nei confronti di tutto il genere femminile, riuscirà a tenergli testa riportando alla luce il suo passato inquietante ed i suoi pensieri latenti. Il modo in cui è strutturato il romanzo, e cioè l'infinita serie di "botta e risposta", porta ad una lettura rapida ed estremamente scorrevole. Tutto scivola via veloce e sull'onda di questa spigliatezza sembra poter accadere di tutto. Non avevo mai letto nulla di simile... Di scontato questo libro ha ben poco. Peccato per il finale troppo brusco e precipitoso. scintilla 22.7.03
Impressioni inviate da Massimo Morelli
Ebbene, alla fine ho letto anch'io Dave Eggers, L'opera struggente di un formidabile genio (tradotto da Giuseppe Strazzeri). Se ne parla molto in giro ed è consigliato da amici che ritenevo ;) affidabili. È persino citato nell'ultimo libro di Hornby. È un pacco colossale. Da un punto di vista strettamente personale credo di aver letto pochi libri più brutti di questo. Se escludiamo la prefazione, che non è male, e qualche ragionamento originale (che nella noia montante ha evitato accuratamente di rimanere impresso nei miei neuroni) si tratta del resoconto inutile della vita noiosa di personaggi insignificanti. Dopo le prime cento pagine, se non fosse stato per le raccomandazioni e per l'assottigliarsi pericoloso della collezione di libri da mare, l'avrei certamente archiviato per sempre. Verso metà ho cominciato a sperare in un asteroide che venisse a portare allegria sterminando questa banda di pomposi fancazzisti (puntato particolarmente verso il fratellino stronzetto). Verso la fine le signore degli ombrelloni intorno si sono allarmate mentre auguravo ad alta voce all'allegra combriccola un soggiorno in miniera. E starci. Lo so che la megalomania e la leggerezza dovrebbero risultare simpatiche, ma non fatemi dire cosa avrei fatto con il fresbee di cui il buon Dave (fosse colpito da blocco dello scrittore) ci descrive (e non una volta sola) le struggenti evoluzioni. Di formidabile qui c'è lo spreco di ottima cellulosa. Non so se si è capito ma non mi è piaciuto. Massimo Morelli 17.7.03
Recensione inviata da moscafe Ho scoperto un giorno Ian McEwan, per caso mentre non lo stavo cercando, e devo rigraziare per questo un'amica che voleva disfarsi di Lettera a Berlino, libro entrato subito nella mia top chart (una forma di bookcrossing ante litteram, solo che poi il libro si è fermato sui miei scaffali e da lì non si è più mosso...). Quello di cui voglio parlare però è L'inventore di sogni - The Daydreamer (trad.it. Susanna Basso) - un libriccino apparentemente innocuo, e se conoscete McEwan capite cosa voglio dire. Al punto che ad ogni mezza pagina ci si aspetta di veder irrompere la ben nota angoscia, l'orrore travestito di normalità, la perversione formato famiglia. Invece no. E probabilmente a un neo-lettore di McEwan può sembrare solo una serie di sogni ad occhi aperti del bambino Peter Fortune, tanti racconti legati dal filo conduttore della metamorfosi, del cambiamento, e della doppia identità di cose, persone, animali. Eppure da ogni pagina traspare una morbosità quasi impercettibile, come l'odore di zolfo che preannuncia il diavolo, come se McEwan si divertisse a tenerci in sospeso, tentato ad ogni capoverso di far precipitare la situazione da favola a incubo. Ho trovato magnifica la capacità di passare inavvertitamente dalla realtà al sogno, di farti attraversare lo specchio e trasportarti in un mondo parallelo: quando te ne rendi conto sei ormai nelle sue mani. Non saprei scegliere fra i racconti del libro, di certo il gatto Peter vorrei averlo inventato io. moscafe 14.7.03
Recensione inviata da Ranafatata
La camera azzurra di Georges Simenon (Titolo originale: La chambre bleue. Traduzione di Marina Di Leo) “Era vero. In quel momento era tutto vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo era tutto vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto…”. Due amanti, una camera azzurra, un pomeriggio di agosto. Sin dalle prime righe il lettore ha l’impressione che la scena raccontata sia un flashback e, quasi immediatamente, gli appare chiaro che gli eventi devono aver preso una piega singolare; dopo un paio di pagine, è evidente che c’è un’inchiesta in corso. Il lettore, però, non sa che cosa sia accaduto, né per quale motivo il protagonista sia coinvolto in una serie di interrogatori. Così, i ricordi e i racconti di Tony si intrecciano con le domande di uno psichiatra, di un avvocato, di un giudice istruttore che suscitano, a loro volta, nuove riflessioni. A poco a poco, la storia-puzzle si arricchisce di nuovi tasselli, di nuovi particolari, conducendo il lettore alla scoperta di quanto accaduto e, poi, alla conclusione del processo. È la storia di un amore/non-amore totalizzante e cieco, ma quello che, a parer mio, colpisce e affascina è questo attrarre il lettore nella narrazione senza svelare quale sia stato il corso degli eventi, proponendo la soluzione per gradi, quasi incidentalmente, come se non fosse poi così importante. ranafatata 10.7.03
Recensione inviata da Squonk
31 canzoni - Nick Hornby Bisogna aver coraggio, a scrivere un libro come questo. Perché ci son poche cose come la musica, e più ancora le canzoni, alle quali ci attacchiamo come sanguisughe. Devi avere il coraggio di far capire che non stai scrivendo di "quella" canzone, ma stai scrivendo della Musica, e di ciò che significa per te. Da lettore, devi avere il coraggio di capire che lo scrittore non ti sta sfidando, non ti sta dicendo che le canzoni che lui ascolta sono le migliori canzoni mai scritte. No, non è facile, perchè parlare (o scrivere) di musica è come parlare (o scrivere) di politica, o di calcio: è facile buttarla in rissa. Ecco, tutto questo non accade in 31 canzoni. Finisci il libro e, dopo i primi trenta secondi passati a chiederti che razza di musica ascolta Nick Hornby, vorresti semplicemente trovarti in un pub in sua compagnia, ad ascoltare il gruppo sul palco; niente di più, niente di meno, perchè 31 canzoni è, semplicemente, una lunga e splendida dichiarazione d'amore per il pop. Squonk 8.7.03
Impressioni inviate da frammento
Ho appena terminato il delizioso Vita di Pi, di Yann Martel: a tratti rivoltante, specialmente per chi è vegetariano come la sottoscritta - ho dovuto scorrere qualche paragrafo frettolosamente per non soccombere a un conato ininterrotto - eppure delizioso. Fresco pur narrando di sete inestinguibile, arsura e deriva nell'immensità, in tre delle sue misure: l'immensità di solitudine e sale dei flutti oceanici, l'immensità dell'elevazione spirituale, il congiungimento nella religione di creatore e creato e l'immensità dell'abiezione a cui il desiderio di sopravvivenza induce. Tre misure per la stessa incommensurabilità. Le persone emigrano perchè logorate dall'angoscia. Consapevoli che i loro sforzi non serviranno a nulla, che quello che riusciranno a costruire in un anno verrà distrutto da qualcun altro in un solo giorno. Convinte che il futuro sia ipotecato, che con un po' di fortuna forse loro potranno farcela, ma non i loro figli. Intimamente certe che a casa nulla cambierà, che possono essere felici solo altrove...frammento 3.7.03
Recensione inviata da Rina Romanazzi
Titolo Tra di noi il silenzio, autrice Elisabetta Mori, genere romanzo, ed. Beta 2002, euro 12,50 Si tratta di un libro semplicemente bello, dove ogni donna che abbia già compiuto il giro di boa dei quarant'anni può trovare risposte ai tanti no della sua infanzia, un ritorno indietro per capire i vari modi di manifestarsi dell'amore materno. L'incipit è quasi disperato, ossessivo con quell'aggettivo mio: "mia madre. il mio cagnolino, la mia famiglia, la mia scuola, il mio cuore, il mio bene, mia madre, mia madre, la mia vita, mia madre..." Sulla scena Maria Sole non entra timidamente: il ritmo che accompagna inizialmente la narrazione, al di là delle pause di riflessione del dottor Eugenio, è martellante, brevi le sospensioni del pensiero, del tempo, in attesa di un altro racconto di altri eventi. La vita di Maria Sole si svolge davanti ai nostri occhi, non c'è riposo, una vita concentrata nel suo essere, un pugno di anni messi là, sul proscenio, dove si susseguono personaggi diversi, importanti, ma sempre personaggi minori rispetto a lei, a Violante, la madre. Non Fulvia, non gli zii Damiano e Emma, non l'amato fratello Tonio, non il dottor Eugenio o il dottor Tobia, né il dannato Angelo protetto perché nulla è mai avvenuto e neanche Guido l'amore della sua giovinezza, nessuno entra nella vita di Maria Sole e intreccia con lei un legame perenne. Sono solo il segno di un Dio Immanente che interviene a salvare, per sorreggere e confortare, ma di nessuno di loro riusciamo a connotare i lineamenti, le voci, i colori, i profumi. Comparse che sfumano quando appare Violante, stupenda figura di donna, regina, sovrana della vita di chi da lei dipende. Maria Sole ce la descrive e in quelle parole senti il profondo amore per questa madre, che, al contempo, vorrebbe distruggere perchè non sa o non può aiutarla. È una figlia prevaricata dal proprio dolore, dalla necessità di dare un nome alla propria malattia, una figlia che chiede e una madre che non risponde. E allora è facile ricorrere alla scienza per l'ineluttabilità della risposta. Ognuno le dà una spiegazione diversa ma plausibile e l'animo si acquieta: la madre invece rimane insensibile , aspra, arida, apparentemente all'origine del malessere, incapace di fare, di agire, di ribellarsi, nel preferire la rinuncia, la negazione di tutto. E poi c'è Enrico, il padre: è lui la tenerezza, la complicità, il gioco, lo riconosci, un padre discreto che dispensa quelle carezze che Violante non riece a dare, forse perché presaga di una perdita inaspettata che la costringerà ad essere nello stesso tempo madre e padre, in una sovrapposizione, terribile, di ruoli che non danno tregua e riposo. Enrico scompare presto dalla scena, mentre Violante è sempre lì, magnifica madonna delle famiglie meridionali, madri meravigliose della nostra infanzia, senza carezze ma di un amore reale, fatto di totale dono di sé fino all'estremo sacrificio. Ciò che sono oggi le donne lo devono a quelle madri che riuscivano a stendere un velo protettivo (per dirla alla Goffman, uno dei sociologi più attenti alle relazioni sociali, ai rapporti interpersonali) sulle proprie figlie mentre erano in crescita. Oggi, quella in cui viviamo, è una realtà più complessa, molteplici i mondi in cui si entra e da cui si esce incessantemente: eventi, fatti, storie accadono, spesso distinti da qualsiasi sogno o previsione e il velo si strappa o la sua trama diventa sempre più lasca. Luciana Bozzo 29.6.03
Recensione inviata da Enzo Baldoni Gialloviola, di Andrea Ballarini: una sophisticated comedy guarnita di humour, sesso e cultura. C'è un nuovo personaggio nel mondo del giallo divertente e sofisticato: Viola Anhalt, una storica del Settecento - ma anche una gran bella gnocca - di origine tedesca ma immigrata a Venezia dove si occupa di studiare la vita e le opere di Casanova. Il suo ex professore di storia le chiede di esaminare un sensazionale documento casanoviano ritrovato nell'archivio del castello di Dux, ultima dimora del seduttore, ma appena Viola vola a Parigi scopre che il professore è stato brutalmente accoltellato in un vicolo di Pigalle. Comincia così un duplice inseguimento del misterioso assassino e di un elusivo manoscritto che promette di essere l'autografo di cui i casanovisti di mezzo mondo hanno di volta in volta, supposto, desiderato, negato o temuto l'esistenza. Attraverso due continenti, dal giardino del Lussemburgo al castello di Dux, dai silenzi dell'isola veneziana di San Lazzaro degli Armeni alla convulsa medina di Marrakech, Viola troverà il bandolo di un'intricatissima vicenda che avrà l'insospettabile epilogo in una fornace di Murano. GialloViola è una romantica detective story ricca di suspense e di personaggi memorabili che è anche una sophisticated comedy raccontata dallo sguardo pungente e autoironico della protagonista. e. 23.6.03
Recensione inviata da Astrid
Ho letto Fahrenheit 451 ed è stata una specie di illuminazione: troppo di quel che Bradbury ha scritto anticipa quel che sta accadendo al giorno d’oggi, con il dilagare della televisione, il prevalere della finzione sulla realtà, la manipolazione della storia (ma forse quest’ultima c’è sempre stata), l’impoverimento del bagaglio culturale delle persone. La frase più triste: ”Non dimenticate che i militi del fuoco raramente sono necessari. Lo stesso pubblico ha cessato di leggere di sua iniziativa”. Vorrei essere come Clarisse McClellan, la ragazza poetica e allegra che viene considerata un’eccentrica solo perché non sa accettare le tristi convenzioni sociali e vuole invece conoscere le cose per quello che sono, e invece mi rendo conto di essere spesso piuttosto simile a Mildred, la moglie alienata di Guy Montag che passa le sue giornate fra tranquillanti e soap operas negandosi ad un rapporto diretto con la realtà. Ma probabilmente sarò sempre un misto tra le due: ascolterò la radio fino a notte tarda per avere compagnia, e continuerò a cercare e annusare “l’erba medica alta e il profumo di terra” (citazione dei Tre allegri ragazzi morti - Bella mia), camminando in mezzo ai campi dove nessuno va per diletto, ma solo per i lavori agricoli o al massimo per la caccia (e io non riesco a considerarla uno svago!). Ma più di tutto, più della faccenda “bruciare i libri – imparare i libri a memoria”, mi ha dato da pensare ciò che Granger racconta a proposito del nonno: egli aveva un nonno che sapeva fare molte cose, scolpiva il legno e allevava i piccioni e raccontava le storie ai bambini, e lui, Granger, non era mai riuscito a superare la sua morte, pensando che essa comportava la perdita di un milione di bellissime cose che il nonno avrebbe ancora potuto fare. Che il senso vero della vita è lasciare qualcosa di sé agli altri che resteranno dopo di noi, un figlio, un quadro, una scultura, una casa, una pianta piantata da noi, qualcosa. Ecco che allora mi è venuto spontaneo pensare a che cosa lascerei io al mondo se morissi adesso, e mi sono accorta che sarebbe davvero ben poco, forse è per questo che mi è venuta voglia di seminare, di piantare dei fiori, perché ho pensato di aver preso abbastanza dagli altri, da coloro che mi hanno insegnato ed educato, forse è arrivato il momento di restituire qualcosa di quel che ho ricevuto. È la prima volta che un libro mi spinge a fare qualcosa (che non sia leggere un altro libro), ciò conferma che mi ha davvero colpita e spero che i risultati si vedranno presto in una certa aiuola, sempre se riesco a impedire al mio cane di sabotare tutto! 'strid 17.6.03
Recensione inviata da GiallodiVino
L'ultima ceretta di Anna Berra (Garzanti) Alice è alta, una stangona, tira di boxe, faceva danza un tempo, ha una benda nera su un occhio malandato, una laurea in lettere moderne e batte. Sì, batte in un centro estetico di quelli che spesso affollano le pagine di cronaca dei quotidiani, perché vengono “smascherati” dai militi dell’Arma, dopo lunghi mesi di indagini e appostamenti. E lo sanno tutti che dentro battono, anche se alla vista di bandoliere e fiamme sul berretto è tutto un fuggi fuggi, pantaloni a fraccoscio, camicie stazzonate e “volevo solo farmi un peeling”, se non peggio “lei non sa chi sono io”. “Lo vediamo subito chi è lei, favorisca i documenti”. Le professioniste del sesso sono le insospettabili per definizione: casalinghe, studentesse e tutto il circo dell’accostamento morboso tra mestieri distanti che viene partorito da un cinico caporedattore in cronaca. Alice è una di loro, ed è la protagonista dell’Ultima ceretta, titolo azzeccato, spregiudicato nel marketing, giusto nella ciccia della storia. E la storia, infatti, si apre con una professionista, una capa estetista, la tenutaria di Ali, morta affogata nella cera, strozzata. Siamo a Torino, all’oggi. Alice e l’amica e collega Paola vogliono capire chi diavolo è stato e perché. Iniziano a indagare senza saperci fare con qualunque tecnica investigativa e quindi si ritrovano con mucchi di cazzate alle spalle. L’ultima ceretta è un noir-giallo solo perché c’è una morta, un mistero e una tipa che indaga. Per il resto non saprei. Le anticipazioni che avevo letto facevano pregustare una Torino diversa, misteriosa e vampiresca (quello un po’ sì, ma trattasi di draculini per amore), una Torino che nelle pagine del libro non c’è assolutamente. La presenza della sabauda la avverti dal dialetto dei genitori di Alice – incomprensibile – e da qualche dettaglio noto anche a me che non sono di quelle parti. Esempio: a Porta Palazzo ci sono gli immigrati. Ma questa non è una colpa, anzi, è la fretta dell’editor nell’appiccicare un’etichetta a un romanzo che è bello per altri motivi. E cioè per una protagonista strepitosa: Alice è un grande personaggio, per nulla scontato, tenace ma fragile per duemila cose. Ama una ragazza e un ragazzo dello stesso amore. Con lui s’incazza. Con lei si ritrova a pendere dalle sue labbra come un’adolescente inebetita che disegna cuori sulla smemoranda. Ma l’adolescente è quell’altra e presto andrà a ficcarsi nei guai. Alice è una che prende a cazzotti crucche statuarie e sadiche nel bel mezzo di un partouze sadomaso, che ricorda la “festa in maschera” di Eyes wide shut. Ama la boxe, senza essere una di quelle fighette che lo fanno per avere la giustificazione per indossare una felpa Everlast, a una festicciola bordo piscina. Alice è tutto il contrario. Dice: la boxe è lo sport più potentemente omosessuale che esista. Due corpi nudi che di continuo s’abbraciano, sudati, sanguinanti che danzano, quasi si corteggiano. Anche tutto il resto, i comprimari, le controfigure, quelli che Gadda chiama i “prottagonisti der dramma, sto branco de fregnoni e de fiji de mignotte che stanno ar monno, e de le commare loro e madame porche futtute” , insomma tutto il resto pure funziona. Come Paola, amica per il cuore, impiegata alla Asl. Alice legge Céline, e non Viaggio al termine della notte, ma Da un castello all’altro, si muove in autobus e va in giro con una valigetta piena di strumenti sadomaso, non usa il cellulare. Credo possa bastare per capire che di tipi così in giro per i boschi narrativi ce ne siano pochi. Come lettore di gialli forse sono rimasto un po’ deluso, come lettore e basta, proprio no. Nicola 12.6.03
Recensione inviata da L'intercapedine
Hotel New Hampshire di John Irving (traduzione di Pier Francesco Paolini) Anni fa rimasi fulminata dalla tragica leggerezza e dalla scanzonata pazzia che trasudavano le pagine de Il mondo secondo Garp, il primo romanzo di Irving che abbia mai letto. Non potete immaginare la mia gioia quando, dopo qualche pagina di Hotel New Hampshire mi son resa conto che si trattatava di una storia raccontata con la stessa ironia e costellata di personaggi altrettanto bizzarri. C'è il nonno Iowa Bob, con le sue teorie esistenziali da allenatore di rugby; la mamma e la sua irresistibile scrollatina di spalle; il capofamiglia sognatore; Frank il primogenito introverso; Franny la capobranco; John il narratore; Lilly e la sua voglia di crescere; Egg ed i suoi "cosa?"; Sorrow il cane che galleggia. Poi ci son varie specie di orsi ammaestrati e travestiti, stupratori e stuprati, il Braccio Nero della Legge, prostitute, radicali, bombe simpatiche, c'è Freud -l'altro Freud- con la sua mazza da baseball... e poi ancora sucidi, omicidi, tragiche fatalità e dolci amenità. Della maggior parte dei romanzi resta impresso il finale (come ad esempio, proprio per alcuni dei personaggi di Hotel New Hampshire accade con Il grande Gasby), invece a me di questa storia ha colpito particolarmente l'inizio, le prime pagine, in cui si parla dell'incontro dei genitori, del momento quindi in cui tutta la saga familiare ha avuto inizio agli occhi dei figli, che, seduti raccolti intorno a loro, ascoltano rapiti il racconto dell'estate del '39 in cui il loro futuro padre Win Berry incontrò la loro futura madre Mary Bates ed insieme videro per la prima volta l'orso chiamato State o'Maine. E come direbbe la piccola Lilly: tutto è favola, tutto. Bisogna continuare a passare oltre le finestre aperte. scintilla 6.6.03
Contributo inviato da Carlo Annese
La manutenzione degli affetti, scritto da Antonio Pascale per Einaudi Non è un capolavoro, ma una raccolta di sette storie vive e vivide, scritte in un italiano non troppo ricercato tantomeno "di categoria" (sebbene ci sia una caduta di tono nell'ultima short story, "Spettabile Ministero" in cui si fa pesantemente il verso a un McEwan d'annata nella descrizione di ciò che si trova in un cassetto dimenticato). Il fatto che Pascale, casertano, usi un punto di vista a Sud non è certo una diminutio. Anzi, la freschezza che trasmette nell'elencazione della giornata dei ragazzi di primo pelo addetti all'esazione del pizzo nei cantieri edili ("Qui le chiacchiere stanno a zero") o, ancora di più, nel tratteggiare nascita, evoluzione e morte di una famiglia medio-borghese della provincia ("Il ceto medio") sono una prova davvero notevole. L'apice si tocca in "La controra", un argomento (al di là della storia, in sé splendida per quanto reale, di un ragazzo che diventa rotondo, poiché trova conforto nel cibo dalle continue liti dei genitori e dalla fine del loro rapporto) che ha sollecitato ricordi e momenti di vera e propria nostalgia. La controra è il periodo che va dalle 14 alle 16/16.30 in cui il caldo e una legge non scritta induce gli uomini e le donne del Sud a non agire. Bensì spesso a dormire. Chi sfida quella legge, è considerato un pazzo ma ha anche il vantaggio di poter realizzare ciò a cui altri nemmeno si affannano di pensare (viaggiare, ad esempio: ho sempre amato quelle ore per partire nelle mie scorribande in auto tra gli ulivi e il mare della mia terra) in totale solitudine. Giocavo a pallone con gli amici del condominio. D'estate, scendevo in giardino verso le cinque. Prima non si poteva. Me lo vietava mio padre: - Deve passare la controra -. Perché la controra era un limite: superarlo significava entrare in un territorio rischioso che non dovevo permettermi di frequentare.Carlo Annese 4.6.03
Impressioni inviate da AleRooTs
Mondo Blog, La Pizia Leggere le sue parole è un piacere della mente; nemmeno una lettera è lì per caso. A portarti dall'inizio alla fine né un segmento arido e inespressivo, né una linea troppo ricamata e soffocante, ma una curva armoniosa e efficace, che ti guida attraverso pensieri e emozioni, e ti conduce a destinazione soddisfatto e un po' più completo. Ma ogni magia non è infallibile, e questa nasce se può attravarsare venti righe attorno a un'emozione; giusto il tempo di regalarti un'immagine: ancora più bella perché senza troppi dettagli, e tutto il resto lo puoi aggiungere da te. Se le pagine sono troppe rischia di perdersi, e un libro non può essere un blog, mal gli si adatta una struttura così spezzettata e episodica; il libro si legge di filato, dalla prima all'ultima pagina; il blog è una sfilata di perle, che un giorno dopo l'altro ti accompagnano per qualche minuto in un mondo che non è il tuo. Neanche il più ampio degli zoo-safari può rendere giustizia alla fiera rapita dal suo ambiente; e non tutte le parole nascono in un mondo di carta e inchiostro di tipografia... Ale 29.5.03
Recensione inviata da Auro
Ho letto Morituri di Yasmina Khadra, edizioni e/o, collana Noir - 1997 È un bel noir. Veloce, sia nella storia che nella lettura. È anche scottante, sia nella storia che nella lettura. Ci si trova catapultati ad Algeri, sotto gli spari e la violenza del terrorismo. Nella pelle di un commissario di polizia che vive con difficoltà quello che vede, intrappolato dai ricordi e dal futuro che per lui può solo durare 5 minuti. Incontra sulla sua strada colleghi, moglie, figli, boss, criminali, ex poliziotti, gente che sa troppo o che sa troppo poco, donne e papponi. Li incontra e molto spesso deve affrontare dolorosi saluti. Li incontra con lo stesso sguardo sconsolato e senza emozione, li saluta invece riscoprendosi uomo. L'autrice (che scrive dietro uno pseudonimo) è decisamente in gamba: la storia regge, nonostante l'intreccio complicato e nervoso. Si dice che dietro lo pseudonimo femminile, in realtà ci sia un uomo. Personalmente non ho trovato nel libro tratti che suggerissero una scrittura femminile, né tanto meno una scrittura maschile: un altro punto a favore del libro. Che mi è piaciuto decisamente e che consiglio vivamente. "L'unica differenza fra lei e i terroristi è che i terroristi corrono rischi, e lei no. Se la loro audacia non cancella la loro vigliaccheria, dimostra però che lei non merita neppure il disprezzo". Auro 26.5.03
Recensione inviata da Carlo Annese
Mondo Blog de La Pizia. Un libro pieno di emozione, vissuto, intimo e umano appunto. Un libro onesto, in cui non traspare mai un calcolo o una provocazione, com’era invece per Diario di una blogger di Francesca Mazzucato: né dietro l’idea di scriverlo, tanto meno dietro la volontà di aprire il weblog che ha reso famosa l’autrice (è raccontata quasi per caso: “La cicogna arrivò il 28 marzo 2001, portandomi in dono il mio primo, tanto atteso, piccolo blog”). Non conosco La Pizia, non sono citato nel libro né i nostri blog sono vicendevolmente linkati fra i preferiti. Anche per questo non mi sembra il caso di scomodare paragoni roboanti con Hemingway o Verga o di indicare Mondo Blog fra i primi capolavori di un eventuale NeoVerismo tecnologico, come ha fatto Marie Marion. Ma ne riconosco comunque il valore. È un libro generoso, genuino, che unisce dettagli tecnici e momenti di vita vissuta, network di rete e relazioni sociali, sia pure con qualche discontinuità che un buon editor avrebbe potuto evitare, sempre con la stessa capacità di tenere alta l’attenzione, già caratteristica del weblog da cui trae spunto. Perché, come scrive la stessa Eloisa, il bello del blog non è nella tecnica, e nemmeno nella straordinarietà dei contenuti. […] I blog sono un ritorno al minimalismo. Contro la pomposità dei siti web che la new economy ha voluto vuoti e asettici, i blog parlano la lingua di casa, raccontano cose familiari, sono disinteressati e senza secondi fini. Ma per parlare questa lingua, è necessario che sia elaborata. Trovo una straordinaria coincidenza con alcuni miei vecchi post, quando La Pizia scrive che il blog non è un semplice diario ma è il risultato di un artificio narrativo (il che vale anche per i siti non diaristici). Si scrive un blog sapendo di essere letti, quindi essendo consapevoli di dover catturare e conservare l’interesse di chi lo frequenta. In che modo? Ricorrendo a una dissimulazione della realtà, che è l’arte dello scrivere, e trasferendo in forma leggibile e veritiera l’urgenza della comunicazione che molti di noi sentono. Tra gli strumenti di questa arte, c’è soprattutto il senso della misura, l’abilità di rendere pubblico ciò che è privato senza alterare la verità e incidere nei rapporti interpersonali. Il rischio è consistente, essendo insito nella natura spersonalizzante della tecnologia. La Pizia non concepisce questo rischio, poiché umanizza la Rete e i blog. Lo confermano le citazioni di altri blogger, l’idea che traspare di una condivisione di sentimenti e di contenuti, di una comunità effettiva che si sviluppa dietro e attraverso questi siti. Ma ne fa fede soprattutto l’ultimo paragrafo, dedicato al quartiere di Roma nel quale vive l’autrice: uno scarto improvviso, intenso. In apparenza, non ha nulla a che vedere con i blog e invece li inserisce in una geografia umana reale, come piccole o grandi tracce su una mappa che ha ben poco di spersonalizzante e di virtuale. Carlo Annese
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