Letture e riletture


28.12.07
Recensione inviata da Jane Bowie
Anthony O'Neill, Il Lampionaio di Edimburgo (traduzione di Roldano Romanelli)
[titolo originale: The Lamplighter]
Un libro di Edimburgo. Un thriller gotico, ambientato nel tardo '800 che conta su una serie di personaggi bizzarri, ma soprattutto conta sul protagonista assoluto: la cupa, misteriosa capitale scozzese.
Una giovane orfana viene prelevata dall'orfanotrofio di Fountainbridge e trasportata in una misteriosa casa appena fuori città. Qualche anno dopo, la città è terrorizzata da una serie di sanguinosi, mostruosi omicidi. Il legame tra i due momenti sarà svelato soltanto nelle pagine finali di un noir molto noir che si spiega con passo lento ma regolare, adatto ai ritmi e le velocità del momento storico, e che frena il troppo correre del lettore del 21° secolo. Un passo che segue ora il goffo e pedante Ispettore Groves, ora i due eccentrici investigatori dilettanti, l'anziano McKnight, professore universitario di Filosofia, e Canavan, il giovane irlandese custode del cimitero, appassionato autodidatta in pieno stile ottocentesco. Due fili apparentemente incompatibili che pian piano si avvicinano fino a svelare in un incalzante dialogo narrativo ciò che tormenta Evelyn, l'orfana tornata da donna nella sua città natale.
Una narrazione che contiene e cita tanta altra narrativa di Edimburgo, che racchiude in sé la personalità della città. La dialettica tra il bene e il male assoluti riprende volutamente quella di Robert Louis Stevenson (nato a Edimburgo nel 1850) in Dottor Jekyll e Mr Hyde, specchio della natura schizofrenica di una città divisa nettamente in due: la ricchezza, l'eleganza, lo spazio della New Town neoclassica, e la povertà, la sporcizia, gli spazi angusti della Old Town medievale. Il duo McKnight-Canavan, echi di Holmes e Watson di Arthur Conan Doyle (nato a Edimburgo nel 1859) inseguiranno la soluzione del caso con le armi della filosofia e della teologia, strumenti altamente sviluppati e raffinati nella Edimburgo assetata di conoscenze e studio nel corso dei secoli (Adam Smith, morto a Edimburgo nel 1790; John Knox, morto a Edimburgo nel 1572).
Forse Il Lampionaio di Edimburgo poteva essere soltanto ciò, talmente radicato è nel tessuto della città stessa. Le strade e i luoghi sono tutti percorribili e accessibili a chiunque volesse seguire le orme dei vari personaggi. Ecco la città: cupa, nera, densa di mistero, dalla sua elegante New Town alle viscere orripilanti e luride del Cowgate. Ed ecco la testa di Evelyn, ed ecco che a volte perdiamo l'orientamento e non sappiamo più se stiamo passeggiando nell'una o nell'altra.
Jane Bowie (granepadane)



27.12.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
John Maxwell Coetzee, Aspettando i barbari (traduzione di Maria Baiocchi)
Un percorso nell'animo umano raccontato attraverso l'indagine introspettiva di un magistrato di un impero non meglio definito, funzionario di una tranquilla cittadina di frontiera. La vita è scombussolata all'improvviso dall'arrivo degli ispettori militari dalla "capitale". In verità epoca e localizzazione geografica dei luoghi sono intuibili, forse, appena accennate da indizi vaghi e indefiniti. Così come vaghi e indiziari restano gli argomenti a sostegno di un'imminente invasione che il popolo barbaro starebbe preparando a danno dell'Impero, tanto che sproporzionata appare subito la controffensiva militare messa in moto. Sperequazione che Coetzee sembra volere ben evidente per introdurre la sensazione del ridicolo dove fonda subito dopo impietosamente il tragico.
Ed è proprio lì, sulla linea di confine che si attende il nemico, il barbaro devastatore della ordinata e ricca civiltà imperiale. Su quella linea si snoda l'intera vicenda: si torturano innocenti, perseguitano popolazioni nomadi e primitive famiglie di pescatori, nella insopportabile attesa del pericolo. Un'angoscia che si fa ragion di stato, propulsore emotivo che arma l'esercito anche a danno degli stessi sudditi, e realizza il calpestio tribale di quelle moderne leggi su cui la civiltà imperiale ha fondato la propria fierezza e l'orgogliosa distinzione dai popoli primitivi. Un'angoscia che azzera il tempo, livella civiltà e l'umanità torna alla condizione animale, allo statuto dell'istinto.
Un libro sull'attesa del pericolo, scritto attorno alle sue conseguenze, alle paure, all'ansia di chi dovrà combattere un nemico, alla resistenza ostinata di fronte alle ragioni dell'Impero di chi non vede nemici, e alla preda inconsapevole che per nemico è scambiato, volutamente scambiato.
L'attesa angosciosa del potere tanto simile a quella del suddito/funzionario che lo replica è così diversa da quella del cittadino che non perde nè lucidità nè dignità e paga sulla propria pelle le conseguenze d'una coerenza che appare più come l'ineluttabile che scelta morale.
Anche qui Coetzee non manca di rapportarsi ai sentimenti umani della passione e dell'amore nel modo più vero. Essi non restano sospesi neppure dinanzi a una tragedia epocale. Il protagonista vive fino in fondo tutte le contraddizioni della situazione narrata. Egoismo e miseria del proprio sé si amalgamano alla compassione per la crudeltà che si consuma sull'altro, nella sua terra, e sopra il suo corpo. Un'esplosione di ribellione e di forza inattesa in lui risolte in resistenza ostinata davanti alla violenza gratuita fino a trasformarlo da funzionario dell'impero a martire, ma non a suddito. Molto riporta a L'uomo in rivolta di Albert Camus.
Carlo Giuseppe Diana



26.12.07
Recensione inviata da Dario Arena
Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue
È un'autrice completamente fuori dal coro dei bravi mestieranti delle parole. Quattro donne in assedio sette giorni tra le mura sgretolate di un condominio di Mitrovica. Guerra nei Balcani.
È un libro contro ogni logica umanitaria: "La logica dei mercenari del bene: dovunque ci sia un conflitto, instaurate la monarchia della commiserazione. Proteggiamo i più deboli!, e 'fanculo se ti chiedi quando i più deboli non sono per caso anche i più stronzi."
Da un'intervista a Peacereporter: "Io mi accontento di inoculare un dubbio, di sottolineare crepe e tagli con un evidenziatore."
Babsi Jones innesta l'Amleto nel proprio taccuino balcanico, in perfetta osmosi con la Storia raccontata. Attraverso domande che aprono crepe, esternazioni che abortiscono riferimenti, racconti egocentrici di gelo che rilasciano sangue, consegna al lettore le più cupe riflessioni. E dopo averlo schiaffeggiato, bombardato e annichilito, lo trascina insieme a sé fuori dal condominio, malconcio e in overdose di dubbi. Non esiste una parola, una sola parola tra le 254 pagine del racconto, che possa spiegare.
Dall'unica bonaccia che conosce, quella del "torpore dei medicinali", nei Balcani "dove stagionalmente si accatastano i morti", Babsi Jones espelle parole come sudori acidi, flashback come aliti fetidi, tempi reali come umori cinici, contraddizioni come passi storici. Tratteggia a pennellate sporche incubi e verità, inventa macro con batterie esaurite, corrompe certezze umanitarie, demolisce comode speranze con la sua guerra.
La prosa di SLMPDS, scritta sulle macerie e fra le macerie, contiene pagine ferite che devono essere lette, mostrate con orgoglio, riferite. Magari possano essere rappresentate in scena, per non dimenticare.
Dario Arena



14.12.07
Recensione inviata da Dario Arena
V.M. 18 di Isabella Santacroce
La Satancroce, semidea di nicchia della quale qualcuno sarà contento di far parte, il sottoscritto no, ha impostato una storia di perversioni a tinte forti, nei temi e nei personaggi. Percorre, maestra del travestitismo, i sentieri della degenerazione degli istinti mediante manifesti ragionati, ragionamenti scellerati e gotiche iniziative portati avanti dalla protagonista, giovane dominatrice in un collegio di educande in possesso di una mente e un corpo assatanati. Chissà quanto di sé ha profuso l'autrice nel quattordicenne personaggio. A cui fanno compagnia, peraltro, grottesche figure interpreti di scene perfettamente integrate dalla loro caricatura. Figure che non sembrano affatto fuori posto: il grottesco, infatti, non è forse una versione distorta, alle volte perversa della realtà?
Singolare e immutabile dalla prima all'ultima pagina la struttura dei paragrafi: divisi da punti a capo, sono privi al loro interno di punti semplici. Altrettanto singolare la scelta di ripetere anche molte volte interi paragrafi o righe. Più che percosse alla pazienza di chi sta leggendo, li definirei briciole appiccicose ben integrate - ma in numero eccessivo - nelle perverse collosità di cui è intrisa la storia.
Ipotizzo infatti che l'autrice abbia adottato nella prosa una scrittura barocca, pretenziosa d'eleganza e un po' stucchevole per rendere deglutibili i paragrafi più osceni: una scrittura neutrale non avrebbe probabilmente rappresentato adeguato corrispettivo alle azioni efferate compiute dalle protagoniste. Una scrittura al contrario eccessivamente aggressiva avrebbe definitivamente sprofondato negli inferi la lettura e reso difficile l'arrivo alle ultime righe.
Nella maggioranza delle pagine la "morale" del lettore è oggetto di reiterate intimidazioni, per l'utilizzo di toni forti alternati ad alcune citazioni erudite, richiami classici ed egocentriche riflessioni religiose e sataniche: non si riesce, da ciò, a trarre una... morale. Ad ogni modo, se si è in possesso di un buon fegato, in entrambi i sensi metaforico e letterale del termine, meglio si possono assimilare le nefandezze raccontate nel romanzo, contro le quali si impatta in un continuo crescendo. Se proprio il lettore non reggesse il ritmo degli scontri, può essere utile un'azione interruttiva sotto forma di un'altra lettura o una sospensiva ossigenatoria di qualche giorno.
Non è infatti un libro per tutti. Occorre, appunto, o un buon fegato o un minimo di preparazione mentale, mirata al superamento temporaneo, o all'aggiramento, di personali blocchi moralistici, pregiudizi sessuali e sovrastrutture culturali che potrebbero pregiudicare l'arrivo al finale, non proprio inatteso.
Il blog dell'autrice contiene commenti che vanno dalle minacce di morte alla genuflessione eterna per lei: leggendo storie estreme come questa, è in effetti difficile darne giudizi intermedi.
Target: gli amanti del genere, e i più scafati... La copertina è intrigante, la prosa è valida e coerente, l'intreccio inesistente.
Dario Arena



3.12.07
Mikel Capelli, A passo d'angelo
In questo bel libricino d'esordio, uscito nel 2007 per Untitl.Ed, s'alternano la prosa agrodolce che accompagna la straordinaria quotidianità di un cammino sacro e i versi aspri che ti parlano, piani o enigmatici, raccontando la sacra straordinarietà del quotidiano.
Giulio Pianese, ovvero Zu



25.11.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi, 2005 (traduzione di Martina Testa, 2006)

Il paese per scrittori
Tre personaggi dalla statura di eroi classici si danno la caccia attraverso i paesaggi sconfinati del Texas dei primi anni Ottanta in questo romanzo che Cormac McCarthy conduce magistralmente attraverso l'azione registrata in terza persona e un orecchio unico per i dialoghi, senza per questo togliere peso e lucidità alle soggettive dal punto di vista principale dell'opera: quello di un uomo del passato che non si riconosce più nel mondo in cui vive.
Il sistema di valori di Bell, vecchio sceriffo di una piccola contea, si confronta con la natura diabolica di Anton Chigurh, criminale perfetto che nessuno ha mai visto in faccia senza essere ucciso pochi istanti dopo.
Moss, reduce dal Vietnam che vive in una roulotte con la giovane moglie, cacciando antilopi nel Rio Grande si trova di fronte a una scena emblematica del crollo di ogni etica, compresa quella mercantile: la consegna di una partita di eroina risoltasi in una strage perché nessuna delle due parti intendeva mantenere fede agli accordi. Aggirandosi fra cadaveri e fuoristrada crivellati di colpi, Moss trova un solo superstite pressoché dissanguato e una borsa con due milioni e mezzo di dollari.
Il denaro entra in gioco con tutto il potere rivelatore che ha nei romanzi di Dostoesvkij, concedendo al personaggio l'attimo di libertà sovrana che ne compie il destino. Moss è alla ricerca dell'avversario. Quello che lo stesso Bell non ritiene saggio affrontare: a metà tra un'oscura forza e un demiurgo cattivo che, attraverso il caso e un suo indecifrabile codice d'onore, invita i mortali a giocare con lui.
Abbastanza incosciente da non tirarsi indietro - sventurata vocazione che rimanda a quella di uno scrittore - Moss mette a repentaglio tutto ciò che ama per fronteggiare la sfida finale.
Matteo Ferrario



15.11.07
Recensione inviata da Dario Arena
Michel Houellebecq, La possibilità di un'isola (traduzione di Fabrizio Ascari)
"Sparito il contatto, svanì anche il desiderio."

"Un calendario ristretto, punteggiato di episodi essenziali di grazia minuta [...] organizza la mia esistenza, la cui durata esatta è un parametro indifferente." Ancora: "Respingendo il paradigma incompleto della forma, aspiriamo a raggiungere l'universo delle potenzialità innumerevoli. Richiudendo la parentesi del divenire, siamo entrati fin d'ora in una condizione di stasi illimitata, indefinita."

"Ero consapevole però, e più che mai, che l'umanità non meritava di vivere, che la scomparsa della specie poteva essere considerata, sotto tutti i punti di vista, solo come una buona notizia."
Agghiacciante, aggiungo io.
"Mi resi allora conto che a poco a poco tagliavo i ponti con tutto; in quel mondo non c'era forse un posto adatto a me."
Metafora della frantumazione della speranza è quando Daniel 25 trova il frammento del simposio di Platone, si ricorda di come continua la parte mancante e la cita mentre il documento gli si sbriciola fra le mani.
"mi dirigevo verso un nulla semplice, una paura assenza di contenuto"
"[nel mondo] non vi vedevo ormai altro che un luogo spento, privo di potenzialità, da cui era assente ogni luce"
Abbiamo appena letto la testimonianza più lucida dell'assenza di speranza in una storia che riguarda l'uomo e l'umanità intera. Non aggiungerei altro, al riguardo.

Un altro dei temi di questo grande romanzo è la presenza della sofferenza contro il suo opposto, l'assenza di sofferenza.
La sofferenza patita da Daniel1 è la più velenosa tra quelle che possa subire un essere umano. La sofferenza assoluta è conseguenza di un dolore assoluto autogenerato – la consapevolezza di un tumore - o sorto per causa d'altri in se stesso - la morte di un familiare caro. È un dolore-sofferenza assoluto, dai contorni netti, privo di sfumature, senza compromessi, di cui dobbiamo farci carico – con o senza speranza, ma sulla speranza abbiamo già sentenziato – e che abbiamo facoltà di comunicare agli altri attraverso l'esternazione dell'afflizione e l'immagine del nostro patimento.
Il tessuto della sofferenza di Daniel è invece intriso di veleno dispensato dall'universo femminile, l'unico in grado di generare vita o morte, amore e indifferenza, passione e dolore. È un tormento collegato alla passione, mescolata a tante altre sensazioni ambigue, interlocutorie, composte d'opposti. Il protagonista è vincolato a questa sofferenza contenente numerosi elementi contradditori, più quello relazionale alla sua età. Si aggrappa alla sua amante più giovane per iniettarsi quella fiducia nella vita che avverte di essere sul punto di perdere poco a poco. Ella poi si indirizza verso altre esperienze, si sottrae a lui, l'effetto dell'eroina nel cervello di Daniel svanisce, Daniel accusa la differenza e si svuota.
Per placare la propria astinenza – c'è anche chi nella storia la propria astinenza non la placa continuando a farsi davvero, di morfina, è una conoscente del protagonista intrisa di noia, poi trasformatasi in morte - decide di delegare il proseguimento della propria vita al suo clone, offrendo alla specie umana la possibilità di mantenersi in essere in un'isola. Un'isola ove, come scrive Houellebecq, "sparito il contatto svanì anche il desiderio". Ove egli, scegliendo di morire, ha scelto anche di presenziarvi, contraddistinto da un numero privo di sentimenti, anzi impersonificato in esso. L'isola del titolo a mio avviso è rappresentata dagli appartamenti in cui sopravvivono i cloni.

È un libro di opposizioni, di opposte fazioni. A partire dalle contrapposizioni: futuro vuoto vs. montagna [piena], sogni e presenze emotive vs. vita reale, ero vs. non ero più. Il neo-umano e i selvaggi. Terra secca contro cielo riarso. La selvaggia che gli si offre putrida contro la sua Esther profumata che è fuggita da lui. Il mondo come lo conosciamo contro il mondo dopo la prima e la seconda Diminuzione. E ancora la frase finale, già contraddittoria fra i suoi componenti, nel suo insieme ancora contraddice il finale di Daniel25, lo spegnimento infinito, il decadimento solitario, l'attesa fine a se stessa: cioè il nulla. E infine l'amore ossessivo di Daniel e il suo riscontro opposto nell'indifferenza velenosa di Esther.
Uno di quei libri che scuote dentro, che lascia profonda traccia emozionale dentro ciascuno di noi, che in qualche modo si ama di forza. Uno di quei romanzi che dovrebbero essere letti tre-quattro volte. Anzi, dovrebbero essere studiati.
Dario Arena



31.10.07
Doppia recensione inviata da Jane Bowie
Andrew Sean Greer, Le Confessioni di Max Tivoli (traduzione di Elena Dal Pra), 2004
Audrey Niffenegger, The Time Traveler's Wife, 2004
[tradotto in italiano da Katia Bagnoli: La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, 2005]

Due anime condannate da uno scherzo del tempo, due amori profondi beffeggiati da una cronologia impazzita. Due protagonisti che soffrono forme diverse della stessa malattia cronologica, dipinti con la tavolozza colorata di due scrittori padroni delle parole (non per niente una dei due è pittrice di successo).
Due scrittori che per uno strano scherzo del tempo anche nei loro confronti, sono usciti con i due libri nello stesso anno, il 2004.

[ATTENZIONE: i paragrafi seguenti potrebbero contenere rivelazioni sulla trama delle opere]

Max Tivoli, l'uomo che viaggia su due binari in senso opposto. Nasce nel 1871, neonato dentro, 70enne fuori. Intorno al collo la sua condanna, la medaglietta con inciso "1941", data calcolata come quella della sua morte. Viaggiando sempre su un doppio binario, Max vive i tormenti dell'adolescenza da 50enne e la crescita interiore della maturità da ragazzo; vive con l'eterna spada di Damocle sopra la testa, e l'eterno fidato amico Hughie al fianco finché un giorno non accade l'orrore.
intorno a me il mondo cominciava a crescere... Cominciai a rovesciare bicchieri d'acqua... e a inciampare sui marciapiedi... Ma il peggio fu quando il mio corpo ... in silenzio mi evirò.
Henry DeTamble, l'uomo che viene rapito dal tempo, portato via in altri momenti, e lì scaraventato nudo e indifeso. Il passato, come diceva L.P. Hartley, è un paese straniero, lì fanno le cose diversamente. Ma quando il passato è tuo e vorresti tanto che lì facessero le cose diversamente, e invece sei condannato a guardare tutto, il bello e l'insopportabile in moviola? E quando il futuro ti condanna a riportare indietro con te le cose, quella cosa, che viviamo tutti felici e sereni non sapendo...

Due uomini che si innamorano della loro donna "fin da piccola" e che la ameranno sempre. Henry, cui sarà concessa la realizzazione dell'amore vissuto e ricambiato di Claire, che lo aspetta sempre; Max che amerà e sarà amato, e non si renderà conto fino alla fine quanto, e da chi, e finalmente si accorgerà che "siamo tutti il grande amore di qualcuno".
Due scrittori diversissimi tra loro che rendono in maniera quasi plastica i loro soggetti. Le voci di Henry e Claire che si alternano in una perfetta simbiosi, a volte poetiche e a volte semplicemente banali, a volte esaltate a volte stanche e spente, due voci come tante, come le nostre, due persone in ogni loro umore, momento, pensiero, intento. La Niffenegger non maschera in esercizi stilistici il loro cruento, sanguinoso dolore, così come non riveste di mielosità e saccarina le loro gioie. E poi la voce elegante ma sincera, l'accurata visione (di Greer) di una visione non sempre accurata (di Max), l'umorismo e l'ironia, il coraggio di ridere che sfoggia sempre Max, la concessione di un'occasionale apertura del sipario sul suo mondo interiore di dolore, senza pathos, senza pietismo.

Due libri che finiscono con due protagonisti consapevoli che il tempo per loro è scaduto, due libri così diversi per stile ma nati insieme come gemelli, due autori che alla fine ci lasciano lo stesso messaggio, affidato alle ultime parole dei loro protagonisti verso le donne che amano:
Henry: "you, as an old woman, in the future. It was sweet beyond telling... live, fully, present in the world, which is so beautiful." (eri tu da vecchia, nel futuro. È stato dolce, non hai idea quanto... vivi appieno in questo nostro mondo bellissimo.)
Max: "invecchia felice amore... Lascia che i tuoi capelli incanutiscano, e che i tuoi fianchi si allarghino nella sedia... Non rimanere sola."

Jane Bowie (granepadane)



29.10.07
Recensione inviata da Lisa Pietrobon
Enrico Brizzi, Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro, 2007
È l'ultimo libro di Brizzi e costituisce una sorta di seguito al precedente Nessuno lo saprà: vengono ripresi il motivo del narratore che raccontando in seconda persona si rivolge a sé stesso come "tu" e quello del viaggio a piedi.
Quattro amici si mettono in marcia sul sentiero della Via Francigena, ricalcando le tracce dei viandanti medievali, da Canterbury a Roma. Così, lungo i passi che attraversano le Alpi, i quattro, che al giro di boa dell'età adulta si trovano a indagare sé stessi, si imbattono in un pellegrino particolare, Bern, personaggio strano: quasi un integralista cristiano, con eccessi di fanatismo e simpatia e con le braccia interamente tatuate. Bern porterà scompiglio nella comitiva e le cose peggioreranno durante il viaggio...
Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro, attraverso le atmosfere accattivanti e noir, segna la rinascita letteraria di Brizzi: par di vedere che sia nel viaggio la dimensione adatta alle corde narrative dell'ormai trentenne scrittore bolognese.
Lisa Pietrobon



28.10.07
Recensione inviata da Luca Caddia
Francesco Campora, L'acqua non ha memoria, 2007
La città è la grande protagonista dei romanzi di Campora. In questa seconda prova, non solo Roma, che si attacca addosso a chi vi abita come una seconda pelle sporca e fastidiosa, ma anche Amsterdam, la città delle canne, delle donne in vetrina, ma anche dei romani in trasferta che si fanno riconoscere quasi ovunque. Secondo una certa teoria, l'acqua conserva la memoria delle molecole che l'hanno attraversata, ma il protagonista, il sempiternamente fuoricorso Francesco Marlowe, passa e scorre per la gelida città olandese senza colpo ferire, da cui lo scetticismo del titolo. In questo romanzo il dilettante professionista accetta un incarico più pericoloso del precedente e non si accorge che, mentre matura la consapevolezza che la sua vita non è all'altezza di essere raccontata, gli altri lo osservano e gestiscono i suoi piani. Tra gli altri un serial killer che, oltre a rappresentare il secondo narratore di questo romanzo dalla prospettiva doppia, appare infine come un angelo sterminatore. Il bicchiere è mezzo pieno, il romanzo si ricorda.
Luca Caddia



27.10.07
Recensione inviata da Carlo
Peter Cameron, Quella sera dorata (traduzione di Alberto Rossatti)
Tra gli acquisti recenti, proprio da Quella sera dorata mi aspettavo molto, vuoi per le cose lette e sentite in giro sul romanzo e Cameron in genere, vuoi per un bel soggetto che, a poche ore dalla lettura, è tutto quel che mi resta. Non fosse carta stampata, verrebbe quasi da sperare in un remake.
Omar Razaghi, iraniano cresciuto a Toronto, è un dottorando all'Università del Kansas, che grazie a una borsa di studio lavora alla biografia di Jules Gund, semisconosciuto autore de "La gondola" e morto suicida. Manca solo quel consenso alla pubblicazione che gli esecutori testamentari hanno già negato, portando a un bivio la sua intera carriera: spinto da Deirdre, compagna che ben compensa la sua carenza di ambizioni, Omar parte per l'Uruguay nella speranza di convincere gli eredi.
Ciò che trova è forse la ragione stessa della reticenza, una famiglia forzosamente allargata, in declino come i possedimenti e la fortuna dei Gund. Caroline, Arden e Porzia (moglie, amante e figlia dello scrittore), dividono la villa che fu di Jules, poco distante dall'altra logora tenuta che ospita Adam (l'anziano fratello di Jules) e il giovane compagno Pete.
Il suo arrivo inaspettato convoglia su Omar le ruggini silenziose che serpeggiano in quel perpetuo meriggiare pallido e assorto, fino a spostare l'accento su questioni che col vecchio Gund hanno ormai poco a che fare.
Gran soggetto, dicevo, ma non si va molto più in là.
I dialoghi spesso velleitari e stereotipati non aiutano, ma passerebbero in sordina se solo negli altri comparti Quella sera dorata funzionasse come avrebbe potuto; del resto sono tanti i canali aperti e mai percorsi appieno, dall'emigrazione che fiorisce nel melting pot di Ochos Rios - i Gund fuggiti dalla Germania, le origini orientali di Omar, quelle americane di Caroline o thailandesi di Pete, gli amici italiani... - alla memoria, la famiglia (o le famiglie possibli), al feticcio dell'intimità altrui: luce dorata e polvere sono quanto concesso alla bella cornice uruguagia, così come la penna di Cameron s'accontenta di abbozzare i pur pochi personaggi (fatto salvo Adam, gay dandy e attempato, sagace, snob, logorroico e troppo aderente a un prevedibile cliché), affannati in una spola tra antiche paralisi e brusche epifanie mai abbastanza argomentate.
Carlo (Lo Scaffale)



26.10.07
Recensione inviata da Chiara Guidarini
Antonia Romagnoli, La Magica Terra di Slupp
In un mondo affascinante, magico e periglioso, ha inizio l'avventura di un manipolo di giovani maghi chiamati a difendere la loro terra.
Slupp, infatti, splendido mondo dove regnano incanti e magia, è in pericolo: il Signore delle Tenebre l'Oscuro Signore sta per impossessarsi della mitica spada Albin Taran Bilah Comah Geran Katalbabes, forgiata da nani, elfi, fate e giganti della cooperativa Fabbri riuniti e appartenuta per secoli alla famiglia Babes, poi persa a poker dall'ultimo discendente della famiglia.
Guidati dalla saggia Ghidia e dalla fata Gys, i nostri eroi devono cimentarsi in romanzesche avventure capaci più volte di strappare una risata, e dare prova del loro valore tramite oscure profezie, grandi magie e valorose imprese.
Un romanzo, questo, già catalogato tra le storie "delle meraviglie" grazie alla comicità che più volte imperversa tra le sue pagine, ma capace anche di strappare riflessioni profonde e, perché no, qualche lacrima.
Antonia Romagnoli dimostra con questo suo romanzo d'esordio una splendida capacità narrativa e guizzante creatività stilistica capace di rendere vivide immagini che si impongono al lettore con lampante immediatezza.
Basato su personaggi reali che ben volentieri hanno accettato di essere messi su carta e animato da nuove e grandi avventure, è un libro capace di ribaltare completamente tutti i canoni della fantasy classica, grazie non solo alla già citata comicità, ma anche agli escamotage usati dall'autrice durante la narrazione.
Slupp è magia, schiettezza e divertimento: un mondo fantastico, grande e meraviglioso che non smette mai di stupire e appassionare.
Chiara Guidarini



25.10.07
Recensione inviata da Lisa Pietrobon
Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo
Il titolo, che allude alle vicende dei Red Hot Chili Peppers, che in quel periodo si trovavano ad affrontare l'abbandono del chitarrista John Frusciante, non ha molto a che vedere con la storia che viene raccontata qui, se non per la comunanza della perdita.
La storia, ambientata a Bologna, è quella di Alex D., un adolescente alle prese con l'innamoramento per una coetanea: un amore platonico e sublimato a cui fa da sfondo la scoperta della personalità di un Alex "triste e inutile come la birra senz'alcool", un diciassettenne a cui hanno inculcato che bisogna "sbattersi per gli obbiettivi da raggiungere", una coscienza tormentata, arrabbiata, in divenire, in conflitto con la società che lo circonda, con la scuola, ma solo come sfogo alla propria frustrazione adolescenziale.
"E va bene che non bisogna dipendere da nessuno nella propria cazzo di vita, ma io mica dipendo. Io vivo anche da solo senza dipendere da nessuno, col pilota automatico. Mi sbatto le mani in tasca e comincio a camminare dove mi porta la strada. [...] Posso sopravvivere col pilota automatico, ma vivere è un'altra cosa."
Lisa Pietrobon



24.10.07
Giorgio Scerbanenco, Traditori di tutti
Il padre del noir italiano è nato a Kiev e ama Milano. Ambientazione anni '60, una schematizzazione eccessiva tra buoni e cattivi e una moralità senza abbastanza chiaroscuri, però l'intreccio regge; e poi, in un narratore che sa farsi cinico, c'è lo stupore di trovare un afflato poetico che a tratti illumina con chiarore improvviso un mondo desolato.
Giulio Pianese, ovvero Zu



3.10.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Bret Easton Ellis, American Psycho, 2001 (traduzione di Giuseppe Culicchia)

American Psycho o l'impossibilità della redenzione
Sedici anni dopo la pubblicazione, capace di sconvolgere il mondo letterario contemporaneo quanto la vita dell'allora ventisettenne Bret Easton Ellis, American Psycho si ripropone al lettore di oggi con accresciuta forza e ambiguità: memoriale di un maniaco omicida mimetizzato fra squali dell'alta finanza o diario di un privilegiato che non riesce più a reggere la sua immagine pubblica?
L'involucro seducente di Patrick Bateman, giovane yuppie di fine anni Ottanta che si divide tra Wall Street, esercizi in palestra e ritrovi mondani, cela uno spirito malato e invaso dall’odio. Smembramenti e sevizie di mendicanti, modelle, taxisti, colleghi, si alternano nel suo racconto apatico a interminabili descrizioni di vestiti, oggetti di design e recensioni dell'opera di pop star.
Collante di un materiale tanto disomogeneo è il talento di Ellis che, dopo le notevoli prove di Meno di zero e Le regole dell'attrazione e i racconti giovanili destinati a finire nella raccolta Acqua dal sole, ha scritto il suo capolavoro.
La vita interiore del personaggio è ottenuta in negativo attraverso il suo rapporto con gli oggetti, anteposti alle persone con esiti che spaziano dal comico al raccapricciante. Gran parte dei riferimenti all'attualità contenuti nel romanzo appartiene già alla preistoria consumistica, eppure è proprio questa obsolescenza di merci e celebrità a lasciare campo libero alla sua sostanza imperitura di classico.
"Ogni occidentale tormentato" scriveva Cioran, "fa pensare a un eroe dostoevskiano con un conto in banca." Ellis, che prima del dantesco incipit cita il Sottosuolo, concede a Bateman una possibilità di salvezza almeno teorica. Come nei grandi romanzi di Dostoesvskij, a offrirla è una donna di appartenenza sociale inferiore a quella del protagonista: la segretaria personale Jean, una moderna sventurata in abiti Ralph Lauren, infatuata da stili di vita per lei irraggiungibili, ma all'ostinata ricerca di un contatto umano.
La pietà si frappone quindi come unico ostacolo alla furia di Bateman, riconducibile allo scatenamento rilevato da Georges Bataille nell'opera di Sade. Come gli aguzzini delle 120 giornate di Sodoma, Bateman tortura e distrugge i corpi dei suoi simili per negare la propria appartenenza a un ordine di cose finite.
A fare del romanzo di Ellis un'opera blasfema agli occhi del pubblico di fine Novecento è tuttavia un ulteriore scarto compiuto dall'autore, che riesce a fare delle atrocità di Bateman una maldestra riscossa prometeica del figlio occidentale, lasciato solo in balia del mercato. Da una parte lo vediamo rispondere a un impulso conservativo, tenendosi aggrappato all'ambiente sociale di provenienza con una recita che gli costa sempre maggior pena, e dall'altra inseguire una disperata affermazione di vitalità tramite la distruzione di questo suo mondo.
Se il Pasolini di Salò finisce per riportare il sacrificio umano alla sua funzione originaria di mantenimento di un ordine, riproponendo i torturatori delle 120 giornate nella veste di gerarchi fascisti, Ellis mette la crudeltà a disposizione del suo controverso eroe come ultimo strumento di liberazione, ma solo per denunciarne l'impotenza.
Consegnando alla storia della letteratura la deriva individualista di una Manhattan da cui non c'è scampo, American Psycho teorizza l'impossibilità della redenzione in una società in cui "Dio non è vivo" e il male è "l'unica cosa permanente".
Matteo Ferrario



4.9.07
John Irving, A Prayer for Owen Meany
Destino e libero arbitrio nel percorso vitale che dalla fanciullezza all'età adulta attraversa un'adolescenza drammatica, il tutto raccontato con una generosa dose di humour e umanità.
Frase memorabile: "There's no need to be crude."
Giulio Pianese, ovvero Zu



24.8.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Caos calmo di Sandro Veronesi
Del romanzo si coglie subito una malizia narrativa. Il continuo riferimento alla piccola strumentazione tecnologica che guarnisce il testo, come ciliegine la torta. La comune vita quotidiana, di comuni cittadini, in comuni contesti metropolitani, può risultare accattivante e garantire un'attenzione più folta, alla stregua d'ogni libro di cassetta. Nel lettore più esigente, che cerca sempre nel testo assonanze con un classico della letteratura, o la specialità editoriale in controcorrente, il sovrappiù stona e rinforza una velina difensiva. È quindi la prudenza a guidare lo scorrere delle prime pagine, per non cedere alla seduzione del personaggio "mediano" nel quale tanti potrebbero identificarsi. Proprio questo insospettisce il lettore esigente. Un effetto perverso e inatteso per la tecnica narrativa che di quegli elementi fa una cornice nella roccia dove incastona il romanzo. La tensione per il timore d'essere catturati nel solito fiume di parole pretenziose, si scioglie man mano che il personaggio Pietro si appropria del tempo narrativo e, per questa via, d'una personalità tutta sua, affatto comune, in cui ci si può identificare soltanto dopo un doloroso lavoro introspettivo.
È appunto il dolore il protagonista assoluto, nelle sue diverse apparizioni nello scenario che intreccia richiami romantici e ottocenteschi alla ovvietà della nostra quotidianità. Lì, in un angolo nascosto ma centrale di una normalissima Milano dei tempi nostri, il protagonista-dolore si rappresenta nei diversi personaggi che sfilano in un giardinetto, su una panchina all'ombra di un oleandro, accanto all'Audi A6 di Pietro, parcheggiata ogni giorno di fronte alla scuola di sua figlia Claudia, orfana di madre da meno di un mese.
Quel dolore per la recente morte della moglie che Pietro sembra rifiutare o semplicemente non vedere, riaffiora in amici e parenti, come catalizzati dalla stramberia di Pietro che essi scambiano per lacerazione profonda e inconsapevole. L'autore manipola bene la vastità dei sentimenti in gioco, dall'amicizia vera all'invidia malcelata e strisciante, al tradimento, ai sentimenti filiali eccessivi, spesso causa di errori e pene dei destinatari, alla passione sensuale, al sesso crudo, fino a sfumare nella stima sincera, nel calore tiepido di una conoscenza casuale.
I personaggi che di volta in volta si confidano con Pietro partecipano quasi sempre una delusione che accompagna un dolore. Lui li ascolta, a volte attento, altre distratto, annoiato, divertito, meravigliato. Mai sofferente. Il dolore degli altri non lo ferisce. Pietro non soffre. Prova pena, addirittura quel dolore altrui in lui si fa risarcimento di antichi screzi, o ammirazione di fronte a un'abbagliante umanità che mai avrebbe sospettato amalgamata al cinismo.
Pietro sembra sgusciar via come un pesce, uscire inalterato, indenne da tutti quei rapporti che in qualche modo vorrebbero coinvolgerlo in un dolore. Nulla lo scuote oltre la soglia della razionale elaborazione, del meccanico contenimento. Tutto resta sotto un controllo razionale, le emozioni di Pietro si giocano sul piano della elaborazione concettuale, e il quadro narrativo dei personaggi in cui l'autore ripone sentimenti forti ed emozioni devastanti quasi a compensazione, contraltare alla razionalità di Pietro, si infrange nell'unica nota dissonante.
Caos calmo è oltre l'apparenza della mancanza di dolore, oltre la dilazione di esso, oltre il rinvio. Caos calmo è il dolore che già c'è, che pervade e strazia sotterraneo, il dolore che sconvolge senza manifestarsi a sé. Così pervasivo e penetrante da non poter che essere rifiutato. E non basta neppure il gioco speculare a stanarlo, non è sufficiente il dolore di un qualsiasi "altro" per ricongiungere un'assonanza. Esso può affiorare a coscienza soltanto quando l'altro è la sede del nostro, quando egli ce lo rimette addosso con tutto il suo peso non per librarsene ma solo per condividerlo. È Il contrario di uno di Erri De Luca.
Carlo Giuseppe Diana



23.8.07
Recensione inviata da Luca Caddia
Francesco Campora, Il dilettante, 2003
Questo non è proprio un libro giallo, ma un libro giallo-rosso. A poche settimane dal terzo scudetto della Roma, città in cui anche le luci delle auto sui lati opposti della carreggiata riflettono i colori della sua squadra, uno studente che sembra di Lettere ma ciondola a Giurisprudenza riceve una quantità di soldi incredibile per scoprire chi ha ammazzato Alberto il Biondo, micro-criminale di San Lorenzo. E Francesco, protagonista omonimo dell'autore, si spinge nel labirinto umano di Roma con lo scopo di arrivare al dunque. Il dilettante si muove su autobus che portano da Centocelle ai Parioli, prende il fresco in macchina fino a Torre Maura, coglie il cielo plumbeo all'obelisco dell'Eur, va a Prati - non in Prati – e intanto porta avanti l'esame della vita incontrando personaggi di tutti i tipi, dall'hacker fan di Califano al mago tarocco di Tele Gianicolo. In una città in cui tutti, tranne un medico senza frontiere, perdono il tempo senza sprecarlo, il nostro capisce che al di là delle soluzioni enigmistiche la capitale d'Italia nasconde un finale che non lascia scelte. Bel gol di Campora al primo romanzo, di cui urge film con Mastrandrea nella parte del protagonista (ma andrebbe bene anche nel ruolo di guardia fascia, così, tanto per cambiare).
Luca Caddia



22.8.07
Contributo inviato da Raffaela
Antonio Molinari, L'ideale raggiunto?
È un diario romanzato di un artista che ha vissuto l'ultima guerra.
Molinari non ha mai perso l'ottimismo. Anche quando si è trovato esiliato in Austria, tra bombardamenti e macerie, aveva sempre con sè un taccuino e gli acquerelli, ha dipinto scene di Vienna mortificata dalla guerra.
Ha scritto la sua storia pensando ad un Europa unita e questo nel lontano 1944/45. E poi ha vissuto una bellissima storia d'amore... Secondo me va letto.
Raffaela (C.Æ.S.A.R. ONLUS)



21.8.07
Recensione inviata da Carlo
Zadie Smith, On Beauty, 2005
L'ho preso appena uscito, iniziato, lasciato, ripreso, finito, riposto. A pensarci, non so se attribuire l'idea di discontinuità che associo al libro (se devo trovare un limite) alla mia lettura indisciplinata, o se addebitarla all'imperfetto amalgama dei molti, diversi elementi che si accavallano in 443 pagine di romanzo.
Un'impietosa caricatura del mondo accademico (che la Smith ben conosce) è il pretesto per l'esplorazione di temi già affrontati nei lavori precedenti: come in Denti Bianchi, al quale On Beauty è più vicino, al centro degli eventi è il rapporto tra famiglie radicalmente diverse, stavolta costrette al confronto da infinite e imprevedibili connessioni.
Howard (non a caso: il romanzo è un omaggio a Howard's End di E.M. Forster) Belsey è un docente di Wellington, bianco, laico e liberale, sposato con Kiki, impiegata afro-americana. Dalla loro unione Jerome e Zora, votati l'uno al superamento, l'altra all'incarnazione dei valori di famiglia, e Levi - carattere smithiano per eccellenza - coinvolto nella compulsiva ricerca di un'identità, passi essa per la cultura hip hop o l'impegno nella causa haitiana.
Monty Kipps, marito di Carlene e padre della bellissima Victoria, è un illustre accademico di colore, cristiano conservatore e detrattore dell'affirmative action ("Equality was a myth, and Multiculturalism a fatuous dream"), è un autore di successo in eterna querelle con Howard per le opposte vedute sull'opera di Rembrandt (secondo Howard niente più che un abile artigiano) e l'arte in genere, che Mr. Belsey definisce, con decadente cinismo: "the Western myth, with which we both console ourselves and make ourselves". Non così per Kipps, che colleziona dipinti di valore: "Art was a gift from God, blessing only a handful of masters, and most Literature merely a veil for poorly reasoned left-wing ideologies".
Due intellettuali agli antipodi, eppure vittime di identiche debolezze, in un romanzo quasi matriarcale: uomini fragili, volubili, vili, alienati, piccoli e banali, che camminano sulle spalle di donne granitiche.
Sullo sfondo della difficile convivenza a Wellington (e delle frizioni che ne scaturiscono), si scrive e ragiona di arte, amore, tradimento, politica, religione, disuguaglianza (il ritratto dell'impaccio con cui le vecchie minoranze, fagocitate dalla middle-class, fanno i conti col proprio status, le categorie in cui riconoscersi [è ancora sufficiente parlare di "colore"?] e le nuove classi subordinate è magistrale), ma soprattutto di bellezza: quella dipinta, quella scritta, quella che si fa potere (come per Carl, rapper locale, il cui aspetto e carisma hanno forse un ruolo nel successo dei suoi versi), quella negata, quella scordata e riscoperta troppo tardi.
Né manca, la bellezza, nell'usuale perfezione ed equilibrio dei dialoghi, negli infiniti registri modellati sui personaggi (dallo Standard Black English alle forme pompose della dissertazione accademica, che spero non siano andati persi nella traduzione), nella prosa raffinata ma brillante che ha un valore - estetico, appunto - in sé, capace di intrattenere anche quando, di tanto in tanto, l'abbrivio della narrazione sembra sottrarsi al controllo dell'autore.
Carlo (Lo Scaffale)



27.7.07
Art Spiegelman, Maus
Gli ebrei erano topi, i nazisti gatti, gli altri maiali: i drammi della disumanità raccontati dalla voce di un sopravvissuto , senza tratti edulcoranti e senza buonismi, al figlio fumettista, che ne ricava un capolavoro.
Giulio Pianese, ovvero Zu



14.6.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Dennis Cooper, Troie, 2007 (traduzione di Stefano Tummolini)

Il mito nasce su una mailing list: Dennis Cooper tra epica e pornografia
Nel suo nuovo romanzo, Dennis Cooper dimostra di meritarsi ampiamente le credenziali di scrittore nato riconosciutegli da Burroughs. Come nel più convenzionale Frisk, il territorio esplorato in Troie è ancora una volta al crinale fra pornografia e prostituzione nella comunità gay americana, ma stavolta la particolarità sta nell'aver scelto le molte voci di visitatori di un sito di escort come interfaccia tra chi legge e la realtà - mutevole, illusoria, in costante divenire come i protagonisti.
Il testo alterna parti interamente costituite da recensioni online di un misterioso escort di nome Brad con un forum in cui si confrontano le più disparate teorie su di lui e l'altrettanto oscuro Brian, suo fidanzato/agente con fantasie omicide. In un formidabile gioco di specchi, Cooper salta da una sfaccettatura all'altra della verità sui due personaggi attraverso gli interventi sempre più stravolti e deliranti degli iscritti alla mailing list, in una spirale di mitomania che priva il lettore di punti di riferimento, perché dietro i nick dei partecipanti si aprono in continuazione microstorie in grado di ribaltarsi e invalidarsi a vicenda. Il processo che coinvolge l'identità e il volto di Brad è quello ben noto attraverso il quale, tra dicerie, menzogne e spizzichi di verità, prende forma un mito. La traccia si fa a tratti più sfocata e contraddittoria, a tratti più chiara, ma vale la pena anche di perdersi per poche pagine nei meandri spassosi di una community i cui membri - non di rado professionisti di successo dall'immagine irreprensibile - si danno appuntamento sul set di uno snuff movie o si staccano dal sito principale per aprire un forum tra chi sogna di uccidere un membro dei Backstreet Boys, non senza il plauso di qualche appassionato di musica.
In Troie si mescolano i registri del thriller più cerebrale con scene splatter efferate. Sadico quanto scaltro, Cooper si affida all'onnipresente humour per rendere il tutto sopportabile, ma è la felicità della scrittura a rimanere sempre in primo piano.
Matteo Ferrario



31.5.07
Recensione inviata da Carlotta De Melas
Giovanna Giolla, Vermi. Diario d'amore
Vermi è un romanzo sulle conseguenze estreme dell'amore.
In forma di diario, Giovanna Giolla ci consegna una storia dove tutto è raccontato con brutalità e dolcezza. Senza il compromesso di uno scrivere troppo pensato, ragionato, ma attraverso l'uso d'immagini cinematografiche e la naturale musicalità delle parole; con una rapidità che inchioda il lettore. È la storia di un'ossessione d'amore, narrata dalla protagonista Monserrat, durante un affascinante viaggio in India, che nelle pagine si trasforma in un reportage visionario e allo stesso tempo realistico.
Il romanzo ha due binari: la scoperta di un paese e il ricordo di una relazione sentimentale che nulla nasconde, mostrandosi nuda e perciò assolutamente inquietante. La contrapposizione tra lusso, vacuità dell'occidente e la rinascita, la purificazione che può donare l'oriente a chi ha il coraggio di viverlo. A chi riesce a sopravvivere in un luogo che gli Dei non hanno dimenticato, ma dove la notte indiana è carica di tormenti. Forse l'unica notte al mondo in cui si rimane soli con la propria anima. In un faccia a faccia che non lascia via di scampo.
Carlotta De Melas (Smagliature d'inchiostro)



6.4.07
Recensione inviata da Bhuidhe
Luigi Bolognini, La Squadra Spezzata
...l'Ungheria stava lottando contro l'unico avversario in grado di batterla: l'Ungheria...
Gabor, bambino ingenuo, dalle passioni forti, bambino che nonostante la fame cronica è una scintilla di vita, bambino innamorato della squadra di calcio del cuore, dello stadio nazionale, del Partito (o forse no? Forse non è poi così ingenuo?), dell'amico Sandor, della mamma tenera che gli regala la maglia del suo idolo. Bambino che cresce, anche troppo in fretta, e dal calciare un pallone per le strade di Budapest si trova a percorrerle con un fucile in mano...
L'Aranycsapat, la squadra d'oro dell'Ungheria che dal '50 al '55 perde una sola partita, la squadra che unisce e fa una cosa sola di giocatori brillanti in modi poi diversissimi, ognuno che fa il suo assolo unico al servizio del gruppo e del socialismo, la squadra delle coreografie, ora di grazia sublime ora di scatto animalesco, la squadra che fa sognare, la squadra dei sogni.
L'Ungheria, nazione dalla storia nobile, imperiale, nazione dove ormai si sogna tanto e si mangia poco, nazione che ha una gloria calcistica che è l'invidia del mondo, nazione che presto balzerà all'attenzione del mondo non per il forcing di centravanti e ali, ma per i carri T55 sovietici, nazione che trova i suoi sogni frantumati per le strade di Budapest.
Eppure se lui era diventato così era grazie anche a Puskás, alle sue carezze al pallone e ai suoi tiri secchi, potenti, schioccanti col sinistro. E anzi, in fondo sentiva che c'erano di mezzo anche quelle carezze, e quelle botte nella sua ribellione di oggi, nella sua sete di libertà, nella sua voglia di dolcezza, nella sua lotta con fucili e molotov.
Bhuidhe (granepadane)



5.4.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Joseph Sheridan Le Fanu, Carmilla, Fanucci 2004 (traduzione dall'inglese di Annalisa Di Liddo)
A dare il titolo a questo racconto lungo è uno dei vampiri più originali che si siano mai visti. Non solo non fa gran parte delle cose che ci si aspetterebbero - non dorme in una cassa di pino, non fugge la luce del giorno, non calma l'appetito col primo topo a tiro, non porta camicie orrende, non frequenta goth club - ma, fatto ben più rilevante in un testo scritto nella seconda metà dell'Ottocento, è una vampira. Altro aspetto degno di nota è quello della scelta della preda, cui l'ormai vasto repertorio di libri e film sui vampiri ci ha abituati ad attribuire una forte connotazione sessuale. Se di amore si tratta, e piace pensare che sia così, quello di Carmilla per le sue vittime predilette - giovani aristocratiche, bellissime e innocenti - ha tutta l'aria d'essere un amore lesbico.
Come nel Nosferatu di Werner Herzog, l'elemento irrazionale irrompe fascinoso e prepotente nella normalità quotidiana.
Più ancora dell'innocenza, della bellezza e della giovane età, ad attrarre il vampiro è la solitudine. Laura, la vittima mancata che racconta la vicenda in una sorta di memoriale, vive col padre in un castello in Stiria, circondata dall'incanto desolato della foresta e con la sola compagnia delle governanti. Nella parte conclusiva, quando si tratterà di proteggerla dall'estremo assalto, la stanza di Laura verrà sorvegliata da più persone per intere notti. Come se i pericoli più terribili minacciassero l'animo umano quando si trova solo con se stesso. Naturalmente, visto che siamo pur sempre nel 1871, lo spettro da cui si vuole proteggere la giovane donna è anche quello del piacere carnale, specie se di natura "perversa". Questo non fa di Carmilla un racconto meno attuale e interessante. Semmai ci svela qualche prurito di una società che ha il terrore di trasgredire ma al tempo stesso sembra averne una voglia matta.
Carmilla, come Laura una ragazza bellissima e meno che ventenne, irrompe nella sua vita a seguito di un misterioso incidente in carrozza nei pressi del castello, a causa del quale la madre, che deve a tutti i costi proseguire il viaggio, chiede per lei la temporanea ospitalità nel maniero. Laura, che non vedeva l'ora di poter uscire dal suo isolamento e avere un'amica con cui dividere le sue giornate, accoglie Carmilla con entusiasmo adorante. Quest'ultima la ricambia con altrettanto affetto, ma anche con saltuari e improvvisi deliri, al limite dell'ossessione erotica.
Non ci si deve aspettare niente di particolarmente esplicito, ma più il dolce abbandono cui allude l'aggettivo più usato nel racconto: languido. Gli sguardi ardenti e le farneticazioni su amore e morte di Carmilla possono turbare Laura, ma solo solleticare l'immaginazione del lettore di oggi, abituato a ben altro. Dell'eros, questa creatura di Le Fanu esprime piuttosto la carica demoniaca e irrazionale, l'inaspettata e pericolosa bellezza che emerge per un istante dal caos, illudendo e soggiogando un cuore umano. Nemmeno a una vampira si potrebbe chiedere di più.
Matteo Ferrario



4.4.07
Recensione inviata da Silvia Corti
Victoria di Sami Michael (traduzione di Antonio Di Gesù)
Victoria è una giovane donna. Vive a Baghdad all'inizio del '900 nel cortile della sua famiglia. Come le altre donne del cortile è costretta a obbedire alle volontà e alle voglie degli uomini della famiglia, secondo le norme sociali dell'epoca e del luogo. Tra questi uomini, Rafael, giovane stravagante e desideroso di uscire dai confini del proprio tempo, si eleva rispetto agli altri e si guadagna l'amore delle ragazze del cortile, che aspettano trepidanti la sua scelta e vedono in lui la possibilità di emanciparsi e soprattutto di vivere un amore libero, non sotto la forma di un giogo, ma come una passione reciproca, un piacere e non una sottomissione. Anche Victoria si innamora di Rafael e il filo conduttore del romanzo è il suo amore testardo e ingovernabile che va oltre il desiderio fisico o spirituale e diventa simbolo di una realizzazione personale.
Ma intorno alla storia d'amore, filo conduttore del romanzo, c'è la bellissima cornice del cortile, della città e dei personaggi. Un'atmosfera densa di suggestioni, dove la realtà si mescola spesso alla superstizione, odori e sapori mediorientali condiscono la lettura di un piacere esotico e sorprendente. Donne velate sussurrano in angoli oscuri di segreti indecenti, mariti infedeli vanno a cercare avventure nei luoghi più promiscui della città, tradimenti e passioni si consumano tra maledizioni e sortilegi. Ecco, è un romanzo non europeo, dallo stile afoso e lento, ma coinvolgente e speciale. Una lettura diversa.
Silvia Corti



3.4.07
Recensione inviata da Silvia (Phoebe)
Ci sono libri che inizi a leggere così, per sfida. Giusto perché intorno a te c'è chi lo ha amato alla follia e chi non lo userebbe nemmeno come fermo per una porta che sbatte. Insomma, tutti intorno a te ne parlano e tu non hai una idea tua. Che altro si può fare se non leggerlo? Proprio io che mi vanto di capirne di libri... potevo tirarmi indietro così? Inevitabile. Con timore, forse. Con zero aspettative, a dire il vero. Sicura e certa di trovare la solita boiata finto intellettuale che spesso si cela dietro un libro di un autore italiano cosiddetto giovane, ma già osannato dalla critica e benedetto dalle vendite.

È così che ho iniziato a leggere Caos calmo di Sandro Veronesi. Ed è così che dentro ci ho trovato molto di più.
Il protagonista è Pietro, rampante manager di una pay tv, che in una domenica d'agosto salva la vita, insieme a suo fratello Carlo, a due donne che stanno per affogare. Contemporaneamente la sua compagna, Lara, muore all'improvviso nella loro casa al mare, unica testimone la figlia di 10 anni, Claudia. La sua vita cambia dal quel giorno in modo radicale, cercando attimo dopo attimo di ritardare il momento in cui l'ondata del dolore per la perdita subita lo travolgerà. Per il bene della figlia, si dice lui. Il bene della piccola, saggia e riflessiva Claudia, che come tutti i bambini del mondo, nonostante i genitori non lo sappiano, sanno vedere molto più in là e capire il mondo e le emozioni di quello che il mondo degli adulti pensa.
Per uno strano gioco, il primo giorno di scuola promette che si fermerà fuori ad aspettarla. Lì. Tutto il tempo lì. Per il bene di Claudia. Prima fuori dalla macchina, approfittando di un autunno che non vuole arrivare e di una estate che non vuol saperne di finire. Poi, in inverno, in macchina. Ad aspettare un cenno della figlia alla finestra. A osservare una varia umanità che prima non aveva nemmeno notato, preso dalla folle corsa che è la vita quotidiana: la madre che porta a fare terapia il figlio down, la ragazza col cane, il vigile, le maestre, la cognata, il vicino di casa. Un mondo sconosciuto che tenta di convivere con il dolore di Pietro. Dolore che però non arriva.
E proprio lì, Pietro riceve colleghi, superiori e amici. Fuori dalla scuola rilegge la sua relazione con Lara, ripensa a lei, cerca di entrarne in contatto telepatico attraverso la musica, riesamina i rapporti professionali sconvolti anch'essi da una fusione industriale, da licenziamenti e dimissioni, da promesse di promozione (rifiutate) e da confidenze di uomini potenti. La sua postazione fuori da scuola diventa un confessionale dove venire ad ammettere le proprie colpe e a manifestare le proprie lacrime, come se il dolore inespresso e mascherato del protagonista fosse in grado di dare comprensione a tutti.

Perché caos calmo è proprio questo: il momento di attesa in cui si aspetta l'ondata di dolore che di sicuro ci sommergerà sopraffacendo la razionalità che tanto il nostro secolo decanta. È il rimandare il momento della presa di coscienza che quella persona, sì proprio quella che amiamo così tanto, non c'è più e non tornerà. Caos calmo vuol dire vivere nel limbo, andare avanti e allo stesso modo rifiutarsi di farlo. Posporre.
Sensazione che ho chiara in mente, in cui sono maestra. Ritardare il dolore. Ignorarlo. Raccontarmi un'altra storia con un finale diverso. Ed è inutile, perché senza affrontare il dolore, esso non passerà. Non smetterà di inseguirci.
Ma il libro di Veronesi non è solo questo: è una piccola perla di sensibilità. L'autore con estrema leggerezza narrativa disegna immagini e sensazioni, racconta piccole storie e grandi emozioni che portano alla crescita e all'evoluzione del protagonista.
Non posso affermare che si tratti di un capolavoro, ma è comunque uno di quei libri che fanno riflettere sulla propria vita e creano spunti di riflessione. E questo non è certo poco, vista l’aridità che c'è in giro per il panorama letterario. Se c'è un appunto che si può fare a questo libro, è la mancanza di un ritmo che incalzi il lettore. Lo scrittore, infatti, si lascia spesso andare in lunghe divagazioni narrative che però, secondo me, sono la vera forza del libro. Ne fanno un piccolo affresco della vita di oggi, che spesso ci scivola addosso senza che l'80% delle cose che viviamo, vediamo, incontriamo ci tocchino. Anzi, senza che nemmeno le notiamo.
È, come ho detto all'inizio, un libro assai controverso. O lo si ama, o lo si odia. Ma non credo, come è stato detto in una recensione non mi ricordo da chi o dove letta, che questo sia un libro solo per chi ha un QI molto elevato, un libro non per tutti. Penso che, come tutti i libri, debba essere letto nel periodo giusto della propria vita per essere capito davvero e che bisogna essere dotati di una sensibilità particolare per innamorarsene.
La fine del libro porta con sé una morale notevole: spesso, anzi sempre, crediamo di fare le cose per il bene degli altri. E invece, senza accorgercene, le facciamo per il nostro. Non per utilitarismo, ma semplicemente per spirito di conservazione che contraddistingue gli uomini. Involontariamente, senza nessuno spirito egoistico, non per tornaconto. Solo per proteggerci.
Ma non si può. Il dolore è come una pantera che ti segue nell'ombra. Paziente aspetta, non ha fretta. E quando pensi che sia troppo tardi, che oramai sia passata, di averla infine sfangata, ti salta alla gola. E allora, tanto vale affrontare le cose a viso scoperto. Fosse facile...
Silvia (La stanza di Phoebe)



2.4.07
Contributi inviati da Simona Magnoni
Leggi Scusa ma ti chiamo amore di Federico Moccia e contemporaneamente leggi Il colore del sole di Andrea Camilleri.
Con il primo ti senti adolescente e torni indietro nel tempo, forse con la speranza che il solo ricordare come ti sei sentito con certi primi amori possa farti sentire così anche oggi con nuovi o vecchi amori, nonostante adolescente proprio non ti si possa definire. E leggi queste pagine quasi a voler rubare la freschezza dei sentimenti raccontati con la smania di saper raccontare anche i tuoi così ma soprattutto di poterli, in questo modo, vivere o rivivere. E illuderti o pensare che siamo un po' padroni del nostro destino o quanto meno di una parte di esso e che le nostre decisioni possano fare la differenza.
E quasi contemporaneamente leggi Camilleri. Il grande Camilleri, e la cupezza della vita di Caravaggio ti avvolge portandoti indietro nei secoli fino a farti toccare quasi con mano la vita di questo artista così travagliata e intrisa di morte. E percepisci l'ansia e la paura e la tristezza di un uomo maledetto e braccato dalla vita stessa. Ma soprattutto percepisci la rassegnazione con la quale quest'uomo, come molti, accetta che la vita abbia un destino e che nulla dipenda da noi.
E per un animo inquieto e un po' insoddisfatto e mai arrivato come il mio che tutto cerca e tutto vuole e tutto desidera perché vuole che la propria vita sia felice ma vuole anche essere artefice della propria felicità, che dice ancora una volta: "unico Camilleri", ma a volte forse è meglio leggere un "qualunque Moccia".
E lo so, Camilleri racconta una vita vera. Moccia ti fa solo sognare.
Simona



1.4.07
Recensione inviata da Brunello Arborio
Mara Alei, Un amore di carta
Il fascino di questo bellissimo romanzo di Mara Alei è tutto nelle figure dei due protagonisti, di cui vengono descritti in modo mirabile i sentimenti, le emozioni e le sensazioni. Stefano e Luna, due persone dalla vita modesta, priva di grandi risultati e prospettive, due "perdenti" secondo i canoni materialisti della nostra società, ma ricchi di una profonda vita interiore, si conoscono e si cominciano a inviare e-mail. Protetti dallo schermo del computer che evita il contatto diretto, si fanno confidenze sempre più intime su passioni, sogni e aspirazioni. Entrambi amanti della musica classica e della letteratura, si accorgono di avere molto in comune. Ma mentre Stefano è una persona che, nonostante le avversità della vita, continua ad avere aspirazioni e sogni, oltre a una grande passione per la letteratura che gli dà forza ed energia, Luna è una persona depressa, piena di paure e incertezze, con una visione dell'esistenza totalmente pessimistica. Stefano si innamora di Luna, della sua fragilità, del suo bisogno di protezione, ma la poca autostima, le continue paure e un senso continuo di inferiorità nei confronti del prossimo hanno inaridito la capacità di Luna di provare un qualsiasi sentimento. Quando l'amore di Stefano per Luna diventa così evidente da non poter più essere negato, Luna decide di rifiutarlo pur continuando a desiderare l'amicizia di Stefano. Inizia un periodo pieno di incomprensioni e difficoltà tra i due protagonisti, tra addii e riconciliazioni, con il costante rifiuto di Luna di vedere Stefano di persona. Stefano non si rassegna al rifiuto di Luna e comincia a tempestare la ragazza di richieste di spiegazioni: Luna risponde sempre in modo reticente e ripetitivo, ma qualche brandello di verità viene fuori, fino al finale a sorpresa, tragico e struggente: l'amore tra Stefano e Luna esiste, ma è troppo puro e ideale per poter essere vissuto in questa nostra realtà terrena; solo la morte e il passaggio a un'altra dimensione potranno dare un senso all'amore tra i due protagonisti, così grande e sublime da non conoscere alcun confine. La bravura dell'autrice sta nel riuscire a offrire uno spaccato della nostra società partendo dall'analisi tutta interiore dei due personaggi principali. Questo libro è infatti una bellissima storia sul "male di vivere" in una società egoistica e superficiale, che rende difficile comunicare agli altri i sentimenti profondi e nascosti costringendo a indossare una maschera di indifferenza e ipocrisia: diventa quindi molto difficile avere rapporti appaganti con altre persone; risulta difficile l'amicizia e impossibile il vero amore: ci si deve accontentare di conoscenze fugaci e superficiali. Gli unici valori della nostra società sono la ricerca del successo e della ricchezza: chi vive coltivando la propria interiorità viene emarginato, come dimostrano le vicende dei due protagonisti, soli e incompresi anche quando sono in mezzo a tante persone. La storia di questo romanzo è quella di due solitudini che si incontrano, di due persone non capite da amici e conoscenti che instaurano un forte rapporto esclusivo, con tutte le incomprensioni dovute alla differenza dei caratteri e alla impossibilità di vivere i sentimenti in modo ideale. In questo romanzo Mara Alei riesce ad affrontare tutte le tematiche presenti nelle sue precedenti opere con una forza e una sensibilità davvero straordinarie: la simpatia per i deboli e i perdenti, il rifiuto dell'esteriorità e del materialismo della nostra società, l'esaltazione della ricchezza interiore, l'arte come unica possibilità di riscatto e realizzazione dell'individuo condannato altrimenti a un'esistenza insignificante, l'amore ideale visto come il bene supremo ma irrealizzabile nella nostra dimensione terrena. Un bellissimo libro quindi, pieno di idee e spunti di riflessione, in cui tutti ci possiamo ritrovare perché siamo tutti un po' "Stefano" e un po' "Luna", un libro che vale sicuramente la pena di leggere.
Brunello Arborio



31.3.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Non ora, non qui di Erri De Luca
Come in altri lavori di De Luca, l'ultima guerra mondiale è lo sfondo del racconto. Una famiglia borghese precipitata nella povertà non si arrende, e nel periodo postbellico della ricostruzione trova la forza di riemergere a un'antica agiatezza.
La vicenda segna un primo passaggio con il trasloco della famiglia da un quartiere povero di Napoli a uno più agiato, nella nuova casa più comoda, a una vita migliore. Il figlio più grande (ragazzino di nove anni) vive questo cambiamento tanto desiderato dai genitori, frutto d'una ostinata volontà di recuperare la migliore condizione sociale persa, come la rottura d'una continuità di vita e di abitudini e la morte di una parte di sé. La sorellina sembra invece trovare in quel cambiamento aspetti positivi e nuova curiosità.
Il racconto è affidato al figlio più grande, balbuziente, poco espansivo, schivo, dotato di una particolare sensibilità che gli consente di cogliere gli aspetti più delicati nel difficile mondo che vive da bambino e da adolescente, ma anche quelli più sottili e spesso contraddittori nel rapporto con la madre, cuore della narrazione. Il figlio ha sessant'anni quando racconta e conduce il lettore fin dentro le pieghe più nascoste del rapporto materno. Lì si annidano le normali incomprensioni generazionali alle quali se ne aggiunge una particolare, a debito della balbuzie, distanza che la madre crede di colmare con interpretazioni del comportamento e delle parole del figlio, spesso in dissonanza con la volontà del ragazzo. In verità, la donna sembra vedere un altro figlio e tanto la balbuzie quanto il carattere taciturno del giovane le offrono una costante occasione per rappresentare, attraverso l'equivoco e il malinteso, più il figlio desiderato che il suo ragazzo reale. Il risultato è la definitiva sottrazione della parola del figlio, sostituita, soffocata da quella materna che palesa, forse, il desiderio frustrato della madre.
È questa anche l'amarezza che lievemente traspare in chi narra, mai disgiunta dal trasporto quasi magico che incatena il ragazzo alle parole materne, vera scenografia nella immaginazione del figlio, tanto intensa da essere percepita come reale. Il ragazzo sembra vivere dentro le parole della madre e provare quelle stesse sensazioni ed emozioni che animano i personaggi dei racconti materni.
La narrazione colora sempre più intimamente quel rapporto che De Luca rappresenta attraverso un gioco ottico e una prospettiva quasi filmica, sovrapponendo e scomponendo le dimensioni dell'immagine e del tempo. I due soggetti - la madre e il figlio - sono entrambi fissati in una foto, con il figlio piccolo all'interno di un autobus che guarda la madre in procinto di attraversare la strada. Dietro quel finestrino si snoda tutto il racconto del figlio che parla all'immagine della madre e il tempo-immagine sembra in movimento solo per chi narra. La fiabesca dimensione del tempo-immagine rende madre e figlio coetanei in un punto della narrazione, dilatandosi fino a consentire al secondo di trovare la sua stessa morte attraverso il ricordo, dentro le parole della madre. Un sottile gioco di fusione dell'immagine e del tempo che l'autore ci regala con il racconto dentro il racconto.
Per tutta la narrazione il figlio rimane una parola mancata. Egli è la parola della madre, luogo in cui spende l'intera vita e colloca la sua morte.
Carlo Giuseppe Diana



30.3.07
Recensione inviata da Armando Giuliani
Una bellissima sorpresa. Un libro spassoso e delizioso, nella sua semplicità ed eleganza. Parlo di “Il più grande calciatore del mondo di Renato De Rosa, pubblicato da Limina. Intanto non è scritto in forma tradizionale, ma tutta la storia è narrata utilizzando ipotetiche testimonianze, articoli di giornale oppure trascrizioni di trasmissioni televisive. Ȓ come se l’'autore ricostruisse la vicenda del protagonista attraverso un'inchiesta, raccogliendo interviste e documenti, tutti divertenti. La storia è quella di Giulio Capriata, un toscano che alla bella età di trentaquattro anni viene scoperto e portato alla Juventus, perché è capace di calciare la palla alla perfezione, anche se non ha proprio un fisico da atleta. I guai iniziano quando Capriata si trova a tu per con tifosi, giornalisti, compagni, avversari, medici: la sua semplice dignità turba gli equilibri basati su affari, denaro e ignoranza. Così altrettanto velocemente diventa prima un idolo e poi un personaggio ingombrante. Il finale è bellissimo e inaspettato. La bellezza del libro, che piacerà pure a chi non ama il calcio, sta anche nel messaggio di semplicità che trasmette. Credo di non esagerare se scrivo che questo libro abbia tutte le carte in regola per diventare un piccolo cult-book, considerato anche che il suo autore è un esordiente.
Armando



13.2.07
Recensione inviata da Simona Magnoni
Yasmin Crowther, La cucina color zafferano (traduzione di Paola Mazzarelli)
Avvolgente, affascinante, conturbante, appassionante: il miglior libro letto negli ultimi mesi.
La cucina color zafferano ti trasporta in un altro mondo, anzi in più mondi, in Iran e in Inghilterra, nel passato e nel presente e ti ci trasporta in modo così travolgente che fai fatica a pensare di essere solo il lettore di queste incantevoli drammatiche pagine. Ti immedesimi in tutti i personaggi, che siano giovani, vecchi, uomini o donne e vivi i sentimenti, le passioni, i drammi, le scelte di vita proprio come se fossero sulla tua pelle, anzi no, di più, sotto la tua pelle. E pensi che avresti detto proprio così, o avresti agito proprio in quel modo, e questo indipendentemente dal personaggio di cui si sta raccontando in quel momento. Senti i profumi, il vento, vedi i colori, ascolti e parli la lingua farsi come se fosse la tua lingua. Entri nel libro sin dalla prima riga e non ne vorresti più uscire. Lo fai a malincuore alla fine. Saresti andata avanti a leggere, ancora e ancora...
Ho ritrovato nella storia di Maryam il mio pensiero più frequente degli ultimi tempi: la vita è "a pezzi", ogni avventura che viviamo e ogni battaglia che combattiamo e che ogni volta crediamo essere unica, irripetibile ed eterna, non sono altro che una delle mille che compongono la nostra vita. E c'è sempre un modo per riappropriarsene, un modo per riscattarsi, un modo per far sì che valga la pena di essere vissuta: l'importante è rispettare noi stessi e i nostri principi esattamente come chi abbiamo di fianco a noi, indipendentemente da quanto possiamo comprendere o condividere.
Se non inseguiamo il sogno, se non inseguiamo la nostra felicità, tutto sarà una farsa. Inganneremo noi stessi, accontentandoci di vivere una vita non-vita come fosse una farsa, come forse tanti intorno a noi decideranno di fare, magari per paura, magari per pigrizia, tutti convinti di essere a posto, nessuno veramente felice.
Simona



6.2.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Erri De Luca, Tu, mio
Di Erri De Luca mi piace quel suo modo di raccontare delicato, attento alle parole, ad affiancarle, a disporle nel testo quasi fossero di vetro e rischiassero di infrangersi urtando fra loro. Mi piace la scrittura capace di "presa diretta" pur senza mai risultare banale; quel modo originale di raccontare il particolare, spogliato dalla noia della descrizione meticolosa. Anche il rapporto della scrittura con l'origine napoletana dell'autore e dei personaggi mi sembra curato in modo particolare e s'incentra più sulla descrizione dei gesti, dei luoghi, delle abitudini, che sulla più comune elaborazione del linguaggio dialettale, presente ma ridotta all'essenziale.
Il libro apre subito una grande finestra sul mare, meglio sarebbe dire sulle "cose di mare", viste e vissute da un adolescente nel pieno della sua crescita, della sua curiosità verso la vita, intrecciate ai suoi problemi, alle emozioni che si fanno particolari quando defluiscono da una storia ai limiti del fantastico, colorando il racconto con un arcobaleno di sensazioni gustose e molto delicate.
Anche il corpo del ragazzo è centro d'attenzione sia nella mutazione inverno/estate, attraverso il processo di adeguamento all'isola, espresso quasi in minuscoli sacrifici, "dazi della pelle pagati all'isola"; sia rispetto al cambiamento adolescenziale e non manca l'espressione dell'imbarazzo di fronte a quello stato intermedio dello sviluppo che rinvia a una sensazione indefinita del proprio corpo, appena uscito da una dimensione e in attesa che si apra l'uscio dell'altra.
Il primo personaggio a entrare in scena è anche il più umile, dal quale il ragazzo impara la pesca, riuscendo ad amarla attraverso l'osservazione dei gesti del pescatore Nicola, presentati nel movimento ritmico della poesia, capace di coniugarsi alla successione precisa dell'artigiano, che rimarca l'essenzialità conseguente al mestiere svolto per necessità di sopravvivenza. Nicola gli mostra la pesca mentre gli racconta la guerra, la sua guerra, quella di uomo modesto, dai sentimenti semplici, incapace di odio, costretto a essere considerato "nemico" che occupa la terra d'altri, da gente modesta come lui.
Questo spaccato costantemente aperto sulla guerra appena passata (siamo negli anni cinquanta) è anche il bel tentativo di raccontare la storia attraverso i diversi personaggi del libro (pescatore, zio, padre) offrendo una lettura legata ai singoli vissuti personali e recupera il gusto e il valore della oralità. È la storia che si tramanda con la voce di chi l'ha fatta, capace di sottrarsi ai meccanismi di istituzionalizzazione dei fatti rintracciabili nei libri, e alla generale regola per cui essa è raccontata dai vincitori. Il ragazzo cerca altro, è pieno di domande e non riesce a comprendere perché la sua gente si è dovuta difendere dai tedeschi, perché ha combattuto e vinto una guerra di liberazione per poi diventare serva degli americani. Il racconto traccia un solco definitivo fra le persone costrette a combattere guerre che non vogliono e di cui non comprendono il senso neppure quando le hanno vinte, e gli interessi politici ed economici in qualche modo rappresentati dalle istituzioni.
Il segreto di Caia/Hàiele è per tutti gli altri personaggi la finestra occulta sulla guerra, dove vi si affacciano solo due di essi che della guerra non hanno memoria, a parte i pochi ricordi di Hàiele, per lo più legati al rapporto col padre. Lo scenario di quella finestra è un groviglio di sentimenti. Grazie al corpo del ragazzo che ospita il fantasma del padre ucciso dai tedeschi, lei ancora bambina, Caia vive gli incontri con lui. Le emozioni giocate da Caia e dal ragazzo attraverso questa rappresentazione fantasmatica del racconto, si esprimono in un crescendo di potenza, ma sempre con una delicatezza attenta. Un obiettivo puntato sul particolare del gesto, sul movimento di una mano, sullo spostamento lieve delle dita, fra gli sguardi bassi e dentro quelli diretti, sopra carezze che sanno accogliere ferite, nei piedi scalzi e veloci della voglia di vivere, fino a riprendere lacrime conservate, mai versate su di un addio che segna vite nuove, sguardi larghi. Un addio che rappresenta uscite dai corridoi stretti, dai ricordi pieni d'angoscia di lei, ma anche dalla adolescenza inquieta del ragazzo che impara le cose degli adulti e una guerra che non ha vissuto, nella difficile prova d'essere padre. Un tratto pirandelliano, moreniano che De Luca propone col "gioco dell'altro", quale strumento di conoscenza e di crescita attraverso l'esperienza diretta e la presa in consegna dei costi dell'altro.
Un addio senza angoscia d'abbandono, di giovani vite liberate dai fantasmi, riconsegnate alle normali difficoltà della costruzione della propria esistenza.
Sul piano personale mi ha ricordato un po' la mia infanzia vissuta nel dopoguerra, in questa città non molto diversa da Napoli. I racconti degli adulti di quegli anni difficili tenevano famiglia e amici stretti attorno ai bracieri per ore. L'inverno passava dentro quei racconti quasi inosservato, per fermarsi invece vistoso a forma di mortadella sulle cosce nude dei ragazzini, conseguenza segnata sopra la carne tolta di colpo dal freddo dei giochi di strada e consegnata accanto al rosso della carbonella accesa nei bracieri.
Un calore umano che ho notato svanire con gli anni, via via che l'esigenza della ricostruzione, personale e sociale, piegava le persone sui propri interessi. Ma questo avveniva solo più tardi, mentre quel tempo lo ricordo povero ma pieno di protezione umana, donne che c'erano a ogni richiesta di un bambino, anche per rifiutare, ma c'erano. Le case, mai vuote, rappresentavano un centro caldo disponibile in ogni momento; sempre qualcuno ad accogliere un dispiacere, a curare un ginocchio sbucciato. Sempre una voce alla finestra per annunciare una merenda.
Carlo Giuseppe Diana



3.2.07
Contributo inviato da Prospera
Lauren Weisberger, Il diavolo veste Prada
Non avevo preso in considerazione l'idea di vedere il film, né tanto meno di leggere il libro dal quale era stato tratto, ma una persona particolarmente vicina alla mia vita professionale un giorno mi ha detto: "Devi vederlo, lì c'è il tuo capo!"
Dopo aver visto il film e aver concordato con chi mi aveva dato la dritta, mi sono incuriosita e mi sono fatta prestare il libro, pensando che mi avrebbe fornito maggiori particolari e descrizioni più approfondite.
In realtà così non è, perché il libro (quanto meno la versione tradotta in italiano, mentre mi dicono che l'originale meriti qualcosa di più), non è scritto particolarmente bene, anzi, oserei dire che tutto è abbastanza qualunquistico: il lessico, i dialoghi, le descrizioni degli stati d'animo.
Ma un solo motivo sufficiente per apprezzarli entrambi esiste ed è: Miranda. Il mio capo, il capo di migliaia di noi: arrogante, presuntuoso, maschilista, egoista, arrivista, prepotente, sprezzante e insensibile. Quel capo arrivato al potere e in continua arrampicata proprio perché è il concentrato di tutto ciò che a ciascun essere umano con un po' di umanità, umiltà e rispetto se non amore verso il prossimo, ripugna. Esattamente colui che invece nel mondo del lavoro viene apprezzato e sguinzagliato proprio per queste grandi doti di spietatezza e durezza. Il nostro mondo, dove troppo spesso non conti, non sei nessuno, non vieni gratificato, ma sfruttato fino a piacimento per poi essere magari rimosso senza nessuna considerazione. Siamo numeri, e personaggi come Miranda ce lo ricordano quotidianamente.
Chi legge questo libro lo deve fare unicamente con questo spirito: avere la conferma di non essere solo a vivere certe situazioni e che forse come ad Andrea, anche a noi, un giorno, il destino darà la possibilità di dire "Vaffanculo Miranda, vaf-fan-cu-lo", magari dopo esserci trovati un altro posto di lavoro!
Prospera



31.1.07
Recensione inviata da Simona Magnoni
Giulia Carcasi, Io sono di legno
Bello questo libro di Giuliana Carcasi.
Nel suo primo libro Ma le stelle quante sono avevo apprezzato la freschezza della storia d'amore raccontata. Ero tornata, con piacere, ragazzina; rispolverando il primo batticuore e la favola che solo il primo batticuore ti fa vivere così.
In questo romanzo, totalmente diverso, si racconta un'altra storia. Le voci che parlano sono sempre due. Questa volta di madre e figlia. Una madre e una figlia che non si conoscono, che non si parlano, ma che in qualche modo cercano un punto in cui le loro strade, le loro storie, possano avere un punto di incontro, cosicché da parallele si congiungano per ripartire. Loro come tutti, come me, come te, spesso sono lontane proprio dalle persone con le quali vivono. Lontani dalla madre, dal padre. Forse perché ci si conosce poco e ci si conosce poco perché si parla poco del proprio passato, del proprio presente.
Ci vuole coraggio per raccontarsi, per non nascondersi, per mettere a nudo chi siamo e ciò che viviamo con le nostre scelte o con quello che la vita ci mette davanti e dal quale non riusciamo a sottrarci. Un tema sicuramente già trattato, ma affrontato bene, soprattutto se si considera che questa scrittrice ha poco più di vent'anni.
Simona



29.1.07
Recensione inviata da Lisa Montanari
Chiara Guidarini, L'ultima profezia (ed. Traccediverse)
Un fantasy d'ampio respiro, dove magia e sentimento si intrecciano in un mosaico di avventure piene di fascino.
La vicenda di Elaine accompagna il lettore alla scoperta del continente di Ancyria, partendo da Falis, piccolo paese del sud, fino ad Arium, grande capitale del nord. In un mondo intriso di magia, mistero, oscuri tempi antichi, grandi ed epiche battaglie, Elaine scoprirà che in lei c'è molto di più di quanto pensasse: c'è magia, regalità, il sangue dei grandi arcimaghi del passato.
Una storia senza tempo, un'indimenticabile eroina, un affresco di un mondo epico dalle sfumature medievali, un fantasy tutto italiano di un'autrice, Chiara Guidarini, che ha guadagnato un terzo posto al concorso indetto dal Sentiero dei Draghi nel 2006 con il racconto Oracolo, anch'esso facente parte delle Cronache di Ancyria e che collabora con servizi di lettura incrociata di romanzi e racconti di esordienti.
Lisa Montanari



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