Letture e riletture


31.12.05
Audrey Niffenegger, La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo (traduzione di Katia Bagnoli)
Per me è stata la lettura dell'anno: romanzo bellissimo, divertente, interessante, intenso, fors'anche istruttivo. Protagonisti lei e lui, anzi il tempo, anzi l'amore, anzi la vita, anzi la morte, anzi il mistero dell'esistenza e il permanere eterno di ciascun qui e ora.
Henry ogni tanto sparisce perché si trova involontariamente a viaggiare nel tempo. Clare resta nel suo presente ad attenderlo, ma l'ha già incontrato in passato e lo ritroverà nel futuro. Lo scorrere della vita non è uniforme, ma gli sbalzi narrativi vengono tenuti a bada con indicazioni temporali e di età che facilitano l'orientamento del lettore, oltre a conferire una continuità formale del tutto peculiare all'opera.
L'essere umano è cronologicamente instabile per davvero: lo è nella memoria emotiva, per esempio. Il personaggio può incarnare questa condizione, viverla e farla vivere in modo avvincente: così ci si trova a seguire un palpitante intreccio a maglia plurima, riconducibile però all'essenziale quanto a pulsioni, desideri, realizzazione e frustrazione. Il tutto fortemente speziato con l'acre dolcezza dell'umana vicenda, intera e profonda, eterea e palpabile, spirituale e carnale. Emozionante fisicità delle parole, volo d'anima.
Giulio Pianese, ovvero Zu



15.12.05
Almost Blue, di Carlo Lucarelli
Assumendo il punto di vista di un cieco, la narrazione in soggettiva parte come un film polisensoriale cui sia negato il riferimento consuetudinario. Poi la cinepresa stacca e la storia si racconta da altre prospettive, condensando un senso di violenza raccapricciante che la meschinità dei piccoli giochi di potere non può riuscire a contrastare. La via alla purezza passa attraverso i colori delle note e la musica in versione cromatica, da succedaneo della vista, diviene passaporto per l'interpretazione del mondo. Ciò è funzionale alle vicende, al tentativo di sciogliere il mistero che avvolge una serie di omicidi, il massacro di vittime innocenti in una Bologna studentesca della quale l'autore svela angoli nascosti e aspetti occulti.
Nell'intreccio trova spazio anche l'amore, animalescamente percepito, come del resto tutte le sensazioni fisiche via via provate dai protagonisti e trasmesse al lettore in modo talmente efficace da far affermare che la scrittura ben operata non teme rivali quanto a espressività e convogliamento. Perfino per la colonna sonora.
Giulio Pianese, ovvero Zu



13.12.05
Recensione inviata da Dontyna
Clare Morrall, Meravigliose macchie di colore qua e là (traduzione di Simona Ferro)
C'è Guy, padre e artista, che passa il tempo nel suo studio a dipingere nostalgiche tele di paesaggi marini per venderli in Cina, Stati Uniti, Messico. Poi ci sono Martin e Jake, due gemelli del tutto discordanti: il primo, privo di qualunque talento ma tenero e premuroso, passa la sua vita a viaggiare per il mondo sopra un camion, mentre Jake, strabiliante violinista, è stabilmente sposato con una donna in carriera. Poi ancora Paul, il fratello razionale e calcolatore, e Adrian, padre delle piccole e adorabili Emily e Rosie. Infine Katy, che "esiste per leggere libri, libri per bambini. Non libri illustrati, ma libri per bambini che sanno leggere." E, dice lei, ha ottime credenziali: Adrian Wellington, lo scrittore, è il suo adorato fratello maggiore.
Sembra il quadretto di una famigliola felice, ma l'assenza di una madre, di cui Katy è costantemente alla ricerca, spezza questa dolce illusione.
In un libro che sembra un viaggio attraverso un album di ricordi, Clare Morrall ci coinvolge con tutta l'anima nell'intimità della famiglia Wellington, lasciandoci intravedere Meravigliose macchie di colore qua e là tra le pagine che narrano di bimbi sperduti, fallimenti, disperazione, ma anche di assoluta complicità, come quella che lega James e Katy, uniti nel matrimonio, divisi da un pianerottolo.
Un libro natalizio nonostante l'atmosfera triste, perché caldo e accogliente come un pranzo di famiglia, dove ognuno, dopo 364 giorni di isolamento, ritrova i legami d'affetto lasciati ai ricordi d'infanzia.
Dontyna



12.12.05
Recensione inviata da Annalisa Fassone
È uscito da poco presso la casa editrice Ennepilibri di Imperia un piccolo volume di narrativa che racconta una grande storia. Francesco Giovannini lo ha scritto chiaramente con l'intento di fare delle proposte, non soltanto della letteratura: si parla di un'umanità impazzita, che stabilisce la divisione dei mari e degli Oceani, come già da millenni è avvenuto per le terre. Gli Stati acquisiscono così un loro territorio marino (Dei domini del mare si intitola il libro) che diventa parte integrante della Nazione: su di esso possono impiantare piattaforme estrattive, riscuotere pedaggi, tenere allevamenti ittici, compiere ogni sorta di sfruttamento; possono naturalmente venderlo ai privati.
Ma i singoli personaggi scoprono attraverso le loro vicende paradossali che la spartizione delle acque è una follia, e proprio come ogni follia sta generando mostri. I laboratori genetici sfornano nuovi modelli di pesci, i commercianti internazionali lucrano sui lotti marini, qualche dittatore nano svende subito tutto per i soldi; nel piccolo cosmo di ognuno accade qualcosa di infinitamente tenero, come al piccolo bimbo muto che non ha mai visto terra, o di straordinariamente ridicolo, come all'illustre professore di archeologia marina bidonato dal proprio rivale. Questa umanità modesta ma sofferente sarà inconsapevolmente "redenta" da un piccolo vecchio pescatore, un primitivo col senso però della natura e del limite umano, il quale di fatto vince proprio perché la sua è una ecologia interiore, non costruita su una teoria, ma sulla poesia della propria esistenza e della propria resistenza. E perché non ha mai voluto combattere nessuno. Tra le tante prove di fantasia dell'autore, segnalo proprio la lingua del pescatore, inventata tra latino spagnolo e qualcos'altro, nella quale, oltre a vari passi, è scritto il bellissimo inno finale nella grotta assediata dalla polizia: In mare gravoso, / tempesta de vento / Te posa in mi prua, / timone ne allegna / e alluma mi vista / al fulgendo de l'astro, / a la lampa del faro, / recanteme al porto de paz / de donde imbarcai.
Una favola fantaecologica regalata ad adulti e giovani assieme al suo contenuto di denuncia e di profezia; non a caso il testo si apre con una prefazione intensa, scritta da un gesuita, per il quale Dei domini del mare si offre, in quanto favola, come "strumento privilegiato per trasmettere valori morali e per suscitare nel lettore interrogativi e riflessioni che aumentino la consapevolezza della realtà e il senso di responsabilità."
Annalisa Fassone



11.12.05
Recensione inviata da Simone Taddei
La città dei tulipani di Ingrid Coman è un libro che a una prima lettura potrebbe apparire sin troppo semplice: la narrazione è fluida e armoniosa, la storia è appassionante e, pur nella finzione romanzesca, vi sono molti spunti di attualità (infatti sullo sfondo troviamo la Kabul devastata dalla guerra in Afghanistan). In realtà l'autrice attraverso questo libro vuole creare un punto di vista privilegiato per chi legge: un piano che vada oltre la letteralità contingente delle parole, in cui si possano cogliere le storie dei personaggi nella loro drammatica singolarità e in cui però si possa andare oltre, fino a vedere come Asillah, Sandro, Shakeela, Daoud, Kevin, Mariam siano legati tra loro, talvolta pur non conoscendosi neppure direttamente. I personaggi sembrano soltanto sfiorarsi in mezzo a questo caotico scenario di guerra, ma è davvero emozionante assistere allo sbocciare di tante storie d'amore, e ciò sembra riflettere la lotta eterna tra Eros e Thanatos. La città dei tulipani che dà il titolo al libro è solo un sogno, la si può vedere solo quando ci si trova al confine tra la vita e la morte, come i personaggi di questa storia quotidianamente fanno. Eppure l'amore tra le persone, sembra volerci dire l'autrice, ha la forza anche per trasformare i sogni in realtà, e ne La città dei tulipani tutti i personaggi scopriranno o riscopriranno l'amore: questo, per chi legge, non può che essere un segno di speranza.
Simone Taddei



10.12.05
Contributo inviato da Laura Barison
Muin Masri, Io sono di là
Un libro che apre gli occhi su emozioni forti e aspre come l'abbandono, la solitudine e la povertà di chi è nato costretto a combattere per riprendere la sua storia, indentità. Infatti è ambientato a Nablus, Palestina, da dove proviene l'autore. Io sono di là, più che un romanzo, sembra una sequenza di foto scattate fortunosamente dal campo di battaglia, da cui la sensazione di vertigine che accompagna tutta la lettura.
All'interno del racconto principale compaiono brevi narrazioni che arricchiscono lo scenario, fornendo una rappresentazione di vita quotidiana colorata nonostante la guerra e la sua violenza.
Ho trovato bella l'idea di inserire in ogni capitolo brevi passi del Corano, perché legano bene i vari passaggi del racconto, talvolta conferendo loro anche un taglio mistico (per esempio, appare spesso l'Angelo della Morte) e permettono di comprendere che forse l'Islam vero non è poi così diverso dal Cristianesimo.
Il romanzo, nonostante il tema principale sia il male, non solo quello nelle nostre azioni ma anche il vivere male la vita di tutti i giorni, alla fine ti lascia dentro in regalo quella sensazione di speranza, pur sospesa, in attesa di essere colta.
Laura



9.12.05
Philip K. Dick - Scorrete lacrime, disse il poliziotto (traduzione di Vittorio Curtoni)
Lo volli leggere soprattutto perché incuriosito da una particolare assonanza: un futuro in cui l'umanità è rigidamente divisa in classi geneticamente distinte, con il controllo sociale delegato a un feroce stato di polizia, distopia nemmeno tanto lontana dal baratro che oggi separa i destini di vaste porzioni del genere umano, a seconda di dove si ha la ventura di nascere.
La vicenda prende le mosse da un drammatico rivolgimento nella vita del protagonista, che si ritrova improvvisamente privo di identità, cancellato dalla memoria informatica e biologica dell'intero pianeta. Lo straniamento si accompagna alla disperata ricerca di una via di scampo, motore e motivo dell'intreccio, potente ingranaggio grazie al quale si snoda la galleria mobile ove scorrono immagini e situazioni da cui ci si lascia volentieri catturare e però in grado di stimolare riflessioni e considerazioni.
Se una critica negativa bisogna muovere, la si potrebbe appuntare allo scioglimento eccessivamente sbrigativo e forse un tantino confuso dell'enigma, ma nel complesso non ci si pente affatto della lettura, malgrado quel sapore amaro di pasticca che resta sul retro della lingua.
Giulio Pianese, ovvero Zu



27.11.05
Contributo di Massimo Morelli
Oltretorrente, di Pino Cacucci, è la storia della resistenza di Parma al fascismo nell'agosto del 1922. Parma fu l'unica città a resistere alle scorribande fasciste che precedettero la marcia su Roma. La resistenza, guidata da Guido Picelli (socialista, poi comunista) e Antonio Cieri (anarchico), che moriranno poi in Spagna, fu organizzata e determinatissima e riuscì a respingere per quattro giorni i fascisti di Farinacci e Balbo.
È chiaramente un libro militante e agiografico: i cattivi sono cattivissimi e i buoni buonissimi (solo Balbo è problematico). Però in questo caso non è un problema perché è la verità. I buoni sono morti giovani in Spagna o nelle "villeggiature" del regime e i cattivi hanno trascinato l'Italia in un regime da operetta. Dopo le prime pagine, in cui lo stile retorico di Cacucci mi aveva infastidito, la storia mi ha preso e l'ho letto con piacere (grazie anche al fatto che è un libretto piuttosto breve).
Massimo Morelli (Momoblog)



19.11.05
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Bret Easton Ellis, Lunar park (traduzione di Giuseppe Culicchia)
"Sei una perfetta caricatura di te stesso". Così dice Bret Easton Ellis alla propria immagine riflessa nello specchio. Che a parlare sia l'autore di Lunar park, suo quinto romanzo, o l'alter ego che ne è il protagonista, mentre mi appresto alla lettura dell'ultimo capitolo sono tentato di credergli.
Sono appena reduce da trecento pagine in cui si è davvero visto di tutto: Bret che rievoca il suo passato con un ricorso all'intero repertorio sesso, droga, auto & rock'n'roll degno dell'autobiografia dei Mötley Crüe; Jay McInerney, apparentemente ancora vivo e apparentemente ancora scrittore, che si tuffa nudo in piscina e pippa coca nel garage di Bret; Bret che ha scoperto di avere un figlio; di più: Bret che approfitta della scusa del figlio e della pazienza di un'attrice sua ex con cui l'ha accidentalmente concepito e - da non credere - mette la testa a partito.
Lo scrittore maledetto - vecchio, amarissimo stereotipo, eppure mai abusato come in questo romanzo - smette di drogarsi o almeno ci prova. Sposa Jayne Dennis e oltre al proprio figlio naturale adotta la bambina avuta da Jayne con un produttore cinematografico. Dietro, lo si capisce da alcuni indizi buttati lì nella prima parte, c'è un rapporto irrisolto con la figura paterna, che un giovane Bret ha solo eluso grazie al successo.
Enigmatico, sfuggente quanto il romanzo che avrebbe dovuto ispirare, il figlio di Bret Easton Ellis è un formidabile dispositivo non sfruttato appieno. È un personaggio che alimenta i conflitti interiori di Bret e al tempo stesso dà l'impressione di essere l'unico in grado di risolverli. La sua assenza per larga parte della storia non fa che ingigantirlo e renderlo più incombente. Quando entra nel vivo di una scena, lascia il segno con brevi battute che - segniamoci questo verbo - disarmano Bret.
Sorta di Bartleby dodicenne e imbottito di psicofarmaci, il figlio di Bret Easton Ellis si chiama Robert: come suo padre, morto nel 1992. Nella ricerca di un rapporto con Robby, c'è una resa dei conti postuma con Robert Ellis, di cui Bret ha ereditato solo un roadster Mercedes color crema e dei vestiti di Armani troppo grandi, ma anche un destino di solitudine.
Lunar park è una ricerca di redenzione attraverso la scrittura. È l'opera di un autore arrivato al punto di non ritorno, che appicca il fuoco al mondo parallelo che ha creato nei suoi romanzi.

Questo, almeno, è ciò che sembra all'inizio. Fosse veramente così, sarebbe il meno dei mali. Ma poi arriva la sterzata horror.
Ellis l'aveva annunciato: questo romanzo è anche un omaggio alla figura di Stephen King. Qualche lettore può non aver gradito l'omaggio. Io non l'ho gradito. Ma andiamo avanti. Grande casa infestata in un sobborgo di lusso. Famiglia americana ultradepressa e in crisi minacciata da forze maligne. Autocitazioni: dal cane che si chiama Victor come il fotomodello di Glamorama al misterioso teen-ager di nome Clayton come il protagonista di Meno di zero (ma anche somigliante a un giovane Bret e travestito da Patrick Bateman per la festa di Halloween), passando per la scritta "Scomparire qui" (Acqua dal sole) che si materializza su un poster nella stanza di Robby.
In gran parte i "colpi di scena" sono telefonati con due pagine di anticipo. Del grande scrittore che fu si hanno notizie solo in un paio di capitoli: magistrale il terzo, la mattina, in cui Bret Easton Ellis rispolvera la sua ironia pungente e la sua capacità di lettura di un contesto sociale. Il resto, spiace dirlo, è uno sconclusionato pastrocchio che avrebbe la sua collocazione ideale in un palinsesto notturno di tarda estate, tra un Pet Sematary e uno Scream.

Così la pensavo prima di leggere le ultime poche pagine. Finito il romanzo, in nome dei vecchi tempi e di spettri ben più spaventosi di quelli che Ellis ha messo in scena in questo stanco fumettone, sono tentato di perdonargli tutto. Di aver scritto due romanzi in quindici anni, di cui il primo è un Mao II non del tutto riuscito (Glamorama) e il secondo (questo qui) è una cazzata, portata avanti a forza di scossoni e sbandate come nella guida di un ubriaco. Di aver visto il mio scrittore preferito intrappolato nei suoi anni Ottanta, come se negli anni Duemila non ci fosse bisogno di talenti come il suo. Di aver tirato a campare per trecento pagine.
Io, tutto questo, quasi quasi glielo perdono. Perché se c'è un segnale incoraggiante per il futuro di questo scrittore, se c'è ancora della vita e dell'onestà in quello che scrive, dobbiamo cercarlo in queste ultime dodici pagine di la fine.
Retorico, lamentoso, perfino incongruo rispetto al nucleo centrale del romanzo, questo epilogo è un'occasione per piangere le occasioni perse. Qui Robby ricompare, con le fattezze di Clayton o, se preferiamo, con quelle di un Bret diciottenne. O quasi. Il suo è lo sguardo di un ragazzo che è fuggito dal padre, ma che a differenza di Bret ha trovato il modo di disarmarlo. Robby riesce dove ha fallito Bret. La sua fuga è andata a buon fine perché ha avuto il coraggio di perdonare. Robby non avrà demoni da portarsi al seguito. Poteva essere un altro Bret.
Poteva essere anche un altro romanzo. O forse, addirittura, lo è e non ce ne siamo accorti. Bret Easton Ellis rimane un enigma. Ci lascia con la sensazione di aver solo intravisto qualcosa attraverso un velo. Se in American Psycho la conclusione invalida tutto lo svolgimento dell'azione nel romanzo, istillando il dubbio che fosse tutto nella testa di Patrick Bateman, in Lunar park il meccanismo è ribaltato: dopo trecento pagine che non si potevano prendere sul serio, la lettura finisce con la sensazione che qualcosa resti da dire. Qualcosa di realmente spaventoso. Roba da Bret Easton Ellis, non da Stephen King.
Matteo Ferrario



26.10.05
Contributo inviato da Severine
Bret Easton Ellis intervista me a proposito del suo ultimo libro, Lunar Park
BEE: Allora? Eh? Com'è?
ME: Uhm... carino.
BEE: Tutto qui? Solo... carino?
ME: Molto ben scritto. Come sempre del resto.
BEE: Ho capito, non è giornata.
Si alza con le mani nelle tasche della giacca Armani e tira fuori delle pasticche. Le osserva, soffia via un po' di peli e le ingoia. Si risiede.
ME: Ora va meglio?
BEE: Immagino di sì.
ME: Lasciami spiegare, non è che voglia sminuire il tuo ultimo lavoro, che peraltro attendevo con impazienza.
BEE: Ma?
Si strizza un contagocce pieno di liquido trasparente sotto la lingua.
ME: Ma ci sono delle cose che non mi hanno convinta. Prima di leggerlo pensavo che fosse il classico libro tappabuchi, per rispettare una scadenza contrattuale. A un terzo del libro mi sono dovuta ricredere e ho pensato: che genio, ha trovato il modo di scrivere una delle sue storie, ma senza ripetersi, perché stavolta è lui il protagonista.
BEE: E poi?
ME: E poi arriva Stephen King e manda tutto in vacca.
Sta trafficando con un blister contenente pillole rosa. Se ne spara una mitragliata in bocca e le mastica tenendo gli occhi bassi.
BEE: Se non ti piace Stephen King non è colpa mia.
ME: E se mi piacesse comprerei i suoi libri. Andiamo, cosa c'entrano le case infestate, i pupazzi posseduti, i fantasmi e le maledizioni con te? Tu sei il vate dell'horror vacui, che bisogno hai di farmi vedere gli scheletri in salotto?
Altro blister, altra raffica di pillole.
BEE: Ok, ho capito, ma non c'è solo quello.
ME: No, infatti. Il resto mi piace. Anzi, stavolta sei stato anche più ironico del solito. E mi è piaciuto come hai giocato con la parola...
BEE: Zitta! Ci sarà pur qualcuno che lo vuole ancora leggere nonostante te.
ME: Hai ragione, scusa.
Si osserva attentamente i mocassini Prada, poi sfrega con l'indice come a voler togliere una macchia che non c'è. Intanto con l'altra mano si infila in bocca un paio di pasticche che non faccio in tempo a riconoscere.
ME: Sai cosa avrei evitato?
BEE (rassegnato): Sentiamo.
ME: Avrei lasciato perdere quella frase dove ribadisci che è tutto vero. Ottieni proprio l'effetto contrario. Uno arriva lì convinto di leggere una biografia e quella frase gli fa pensare vuol dire che sto per leggere delle tavanate che non stanno né in cielo né in terra. E smette di crederci all'istante. E fa bene, visto che poi le tavanate ci sono davvero.
BEE: Però ti ha fatto paura.
ME: Molta. Ma io non sono un campione attendibile, mi fa paura anche L'esorciccio.
BEE: Insomma, cosa ti aspettavi? Glamorama Reloaded? Pakistan Psycho?
Una sola, grande, pillola gli sparisce direttamente in gola.
ME (ridendo col naso): Guarda che Pakistan Psycho non sarebbe mica stata un'idea scema.
BEE: Cretina.
ME: Comunque, se ti può consolare, hai avuto un ottimo traduttore. Non come Glamorama, dove la gente si salutava con ehi, cosa stai facendo? e la Vespa di Victor non era un diesel.
BEE: Miii, te lo sei letta pure in inglese?
ME: Solo il primo capitolo. Lo sai che ero posseduta.
BEE: Ho giusto qui un contributo. (diapositiva)
ME: Vabbé, quello era un gioco.
BEE: Sì, ma la prossima volta scrivilo tu, visto che sei così brava.
ME: No, dai, scrivilo tu che sei il più grande-giovane-post-minimalista-vivente, ma lascia perdere i vecchi appunti e i racconti che scrivevi al liceo. Che ormai hai passato i quaranta.

Nel corso dell'intervista l'Autore ha assunto in quantità variabile Borocillina, Fiori di Bach (Star of Bethlehem, Walnut, Scleranthus), Zigulì gusto lampone e yogurt, Acutil Fosforo, Pasticche del Re Sole alla malva e una pillola abortiva.

Severine



25.10.05
Recensione inviata da Sbloggata
Ken Harvey, Ragazzo di zucchero (traduzione di Carlotta Scarlata)
Nove racconti, splendidi. Ironia e sentimenti, dolore e coraggio, la provincia americana e l'oceano che non danno spazio a orizzonti di fuga, la piccola città di Lynn, Massachusetts, dove "la cosa più vicina a uno spazio aperto è il parcheggio del centro commerciale". Questo il Ken Harvey di Ragazzo di zucchero.
Delicatissime sono le narrazioni in cui scelte audaci, scoperte amorose e adolescenziali, anziani eccentrici e genitori scompostamente eterosessuali delineano i contorni di un'omosessualità che nasce fra le mura di casa, nella quotidianità di un rapporto familiare, nella freschezza di un'amicizia.
In ogni scelta, in ogni scoperta, su ogni cammino la sofferenza e il dolore sono lasciati intuire, sono appena percepibili, eppure sembrano esplodere quando il libro viene chiuso, quando l'ultima pagina palesa una realtà che non ha più bisogno di prove per esistere.

Il primo racconto, "Rovesciando le mucche", è delicatamente adagiato sulla violenza di ciò che narra, le parole sono come pennellate leggere imbevute in tonalità morbide, capaci di squarciare come fiamma viva il silenzio di un tramonto.
Mio padre disse: "Eravamo nel Vermont. La zia Sylvie mi svegliava nel cuore della notte e insieme andavamo nei campi a rovesciare le mucche. Devi trovare delle mucche addormentate, poi le tocchi piano piano con le dita, così". Mio padre sollevò le mani e aprì bene le dita. "E quelle si rovesciano nel sonno, senza nemmeno accorgersene. È divertentissimo."
"Le mucche non si fanno male?"
"Non sentono niente è la cosa più normale del mondo." Si sedette accanto a me sul divano. Mi disse di sollevare le mani e di aprire bene le dita. "Rovesciami," disse.
"Sono stanco papà."
"Solo una volta. Di solito io e zia Sylvie lo facevamo l'uno con l'altra dopo averlo fatto alle mucche."
"Papà," dissi, divincolandomi sul divano.
"Signor Bolle, ti amo" l'ho letto e riletto. L'ho fatto leggere e l'ho regalato. La storia è così preziosa che vale la pena custodirla nel più antico degli scrigni, magari di quelli con una ballerina in tutù che ruota fra le note di un carillon vellutato.
Il Signor Bolle è "quell?uomo che sorrideva sempre e profumava di sapone".
"Amavo quell?abito morbido come la seta. A volte pensavo che se l?avessi indossato in una giornata di vento, sarei volato via", questo invece è Hopi.
In quel sospiro, "Signor Bolle, ti amo", l'emozione profuma di sapone. Candida e leggera come la schiuma fattasi bolla.
Sbloggata



23.10.05
Recensione inviata da Emanuelito
Émile Zola, La disfatta (traduzione di Luisa Collodi)
È un libro duro, crudo e difficile, incentrato su una duplice sconfitta: da un lato la sconfitta militare della Francia di Napoleone III nel sanguinoso conflitto del 1870 contro la Prussia del cancelliere Bismarck, dall'altro la sconfitta dell'uomo, degradato al rango di bestia grazie alla guerra.

Le vicende narrate da Émile Zola sono come scatole cinesi. Ci sono tante piccole storie, i cui personaggi sono soldati semplici, caporali, sergenti, contadini, fratelli, sorelle, genitori e figli.
Poi la scatola più grande, che comprende, contiene e collega tutte queste piccole storie: la Storia, quella dei generali e degli imperatori, di Bismarck, di Napoleone III e della Comune di Parigi. Tutte queste storie sono unite sui diversi livelli, compenetrate, analizzate dall'interno, ma senza mai indulgere a visioni globali da manuale scolastico. Anzi, la Storia è osservata con gli occhi dei suoi piccoli protagonisti, di chi si gioca la vita nei campi di battaglia, di chi ha un promesso sposo al fronte, di chi cerca anche solo di sopravvivere, con tutti i limiti di parzialità e incompletezza che questa visione può portare.
E infine, la guerra. Somma protagonista. La guerra che mangia tutto: la vita, l'amore, la dignità; che al loro posto partorisce mostruosità di sangue, bassezze irrazionali, immagini dell'alterazione, tutto perfettamente legittimato e inquadrato in uno stato di "normalità", proprio perché è esattamente questa la normalità di una guerra: la disfatta, appunto, dell'essere umano, che sia il vinto o il vincitore.

Appena prima della tremenda battaglia decisiva di Sedan, i tre protagonisti principali si ritrovano insieme ad aspettare l'inevitabile tragedia: Maurice, soldato francese volontario pieno di cultura, ideali e passione; Jean, contadino tornato all'esercito dopo aver perso tutto, dotato di una sensibilità che contrasta con la rudezza della sua provenienza sociale; Henriette, sorella gemella di Maurice, l'anima femminile del romanzo.
"È vero, la odio, la trovo ingiusta e orribile... Forse perché sono una donna. Tutte quelle stragi mi rivoltano. Perché non riuscire a spiegarsi, a mettersi d'accordo?"
Jean approvava le parole di Henriette, scuotendo la testa. Anche a lui, illetterato ma pieno di buon senso, nulla sembrava più facile che mettersi tutti d'accordo, dopo essersi spiegati bene, e con calma.
Maurice, invece, uomo colto e passionale, giudicava la guerra necessaria, in quanto vita stessa, legge del mondo. Non è stato forse l'uomo pavido a introdurre l'idea di giustizia e di pace, mentre l'impassibile natura è un continuo campo di battaglia e di strage?
Emanuelito (di Colonnedercole)



16.10.05
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Michel Houellebecq, La possibilità di un'isola (traduzione di Fabrizio Ascari)
Michel Houellebecq non è capace di innocenza. Nel primo testo critico dedicato alla sua opera, Houellebecq en fait, Dominique Noguez lo definisce "il Baudelaire dei supermercati". È ormai dal 1991, anno in cui pubblicò l'importante saggio su Howard Philip Lovecraft, che Houellebecq vaga incessantemente da un reparto all'altro del supermercato Occidente. Non ne trascura nessuno. Si lascia tentare, talvolta sedurre dalle merci che trova sugli scaffali, ma si riserva di provarne poi un profondo disgusto.
Quello che a una lettura ingenua può essere facilmente liquidato come compiacimento, è in realtà un tratto saliente della migliore narrativa di questi anni: l'ambiguità.
Come tutti gli scrittori onesti, Houellebecq ha in serbo per il lettore più interrogativi che risposte. I suoi romanzi non offrono soluzioni, o se ne offrono si tratta di soluzioni insoddisfacenti perché temporanee.
La possibilità di un'isola, suo quarto romanzo, ci pone forse le domande più angoscianti. Arriva a sei anni dal discusso Piattaforma, considerato da più parti come un congegno narrativo imperfetto, una pasta mal lievitata. In realtà si trattava di un romanzo dalla struttura più convenzionale rispetto a Le particelle elementari, meno ambizioso ma altrettanto sapiente nel destreggiarsi fra registro narrativo e pamphlet.
Alla sua pubblicazione è seguita una lunga pausa, interrotta solo dal modesto racconto di viaggio Lanzarote: al di là del carattere occasionale, un deciso passo indietro rispetto alle prove precedenti, che non faceva ben sperare circa i futuri sviluppi della narrativa di Houellebecq.
La possibilità di un'isola è testo di ben altra sostanza, in cui proprio il fantasma di Lovecraft è più che mai presente.
Non ci troviamo di fronte a un Le particelle elementari - parte seconda. Non devono trarre in inganno il tema della clonazione umana, già affrontato nella sua opera più nota, né le dichiarazioni dell'autore stesso, che al pari dei critici considera Piattaforma un parziale fallimento. "Non sarò mai" si è schermito in un'intervista "uno story-teller".
Col senno di poi, l'unico vero indizio della direzione che Houellebecq avrebbe intrapreso con La possibilità di un'isola si trova in un colloquio avuto dallo scrittore nel novembre 2000 con il periodico tedesco "Die zeit". Il testo che ne è scaturito - lo si può leggere nella traduzione di Giuseppe Genna - si presenta come una breve narrazione, il cui tema è il sogno di vita eterna dell'autore.
"Apro gli occhi e constato che il mio sogno è alquanto superficiale. Mi accendo una nuova sigaretta, tormento il filtro, in realtà non esiste armonia con l'universo. Nei momenti di felicità, per esempio contemplando un bel paesaggio, so istantaneamente che io non ne faccio parte, il mondo mi appare come qualcosa di estraneo, non conosco nessun luogo dove io possa sentirmi a casa. Dio, anche lui, non può risolvere questo problema, peraltro io non credo a nessun dio, non è necessario, né qui né in paradiso. Credo nell'amore, è la sola cosa di valore di cui siamo in possesso, è migliore di un programma di fitness, è meglio dello sport. Forse un giorno il mio sogno di eternità si realizzerà, allora sarò una creatura con zampe, ali o tentacoli, forse altrove, non qui."
Diario di bordo dell'infelicità umana, La possibilità di un'isola contiene una realizzazione monca di questo sogno di vita eterna. L'uomo l'ha raggiunta, ma a prezzo della rinuncia all'umanità stessa.
Daniel 24 e Daniel 25, cloni venuti duemila anni dopo il loro capostipite, ne analizzano il racconto di vita da un punto di vista straniato: quello di neoumani, dotati dello stesso patrimonio genetico e della memoria di tutti i loro predecessori, ma incapaci delle passioni violente e del senso di inadeguatezza che hanno condotto Daniel 1 alla disperazione. Studiarne le vicende personali, dal successo nella carriera di comico fino al delirio per la perdita dell'amore che ne ha preceduto la morte, è l'unico scopo della loro esistenza, che si svolge in una enclave protetta dalle incursioni degli umani - ridotti a tribù sparse di cannibali senza passato - e prevede solo contatti virtuali con altri neoumani. Daniel 1 ha vinto la morte. È destinato a morire e rinascere senza soluzione di continuità. Tuttavia, ciò che lo spingeva a desiderare l'immortalità - la possibilità di un'isola, che è poi l'amore ricambiato - è una condizione non più realizzabile già a partire dalla prima reincarnazione. Qualcosa si è perso.
Come Le particelle elementari, anche questo è un libro dedicato all'uomo, con tutto il disincanto, la beffarda ironia e la tenerezza che la dedica presuppone.
E come in Piattaforma, anche qui si afferma che la felicità è possibile, addirittura probabile, ma per sua stessa natura non durevole.
Per quanto perverso e insensato, il meccanismo si riproduce. Nella presentazione del romanzo a Milano, Houellebecq stesso l'ha definito un generatore di vicende umane, destinate a ripetersi ciclicamente. Anche nel terzo, straordinario capitolo in cui Daniel 25 rinuncia alla quiete e all'immortalità per andare alla ricerca di suoi simili in un mondo desertico e devastato, la morte del cane Fox per mano dei selvaggi umani riproduce esattamente quella del Fox capostipite. L'epico viaggio di Daniel 25 per attraversare la faglia estesa dalla Spagna all'Africa centrale ricorda il peregrinare di Daniel 1 per le autostrade spagnole con la sua Mercedes. È lo stesso mondo violento e disperato, quasi interamente maschile, dove l'unico incontro sessuale possibile è quello con una prostituta dell'est europeo per Daniel 1, o con una selvaggia terrorizzata offerta in dono dagli umani a Daniel 25.
Non c'è un momento risolutivo. La narrazione si ferma, semplicemente, lasciando il personaggio in una stasi che sembrerebbe - ma sappiamo non essere - definitiva: lasciando la sua postazione recintata, ha infatti rinunciato alla sua immortalità. Non dissimile da quello descritto nella conversazione con "Die zeit", Daniel 25 ha trovato un altro paradiso imperfetto: tante nicchie d'ombra scavate nel fondale di sabbia, tra un lago d'acqua morta e l'altro che sono tutto ciò che rimane dell'oceano. Daniel 25 nuota e riposa, non desidera. Nel lettore, al ghigno amaro nel vedere i piccoli branchi di umani cadere sotto i colpi della sua pistola, si accompagna la speranza di una nuova, puntiforme isola. Magari una Marie 23, o una Esther 31, anch'esse uscite dal recinto in cerca di qualcosa.
Houellebecq pare specchiarsi in questa stirpe dei Daniel che, a cominciare dal primo, guardano al tema prediletto dalla sua letteratura: l'umanità media, di cui evidentemente l'autore si considera un campione attendibile.
Nel romanzo d'esordio Estensione del dominio della lotta, è l'alter ego di un giovane Houellebecq, preso in trappola tra una disperata routine lavorativa e la rinuncia ad averne una privata, a indicarci che le relazioni sono ormai governate dalle stesse leggi del libero mercato.
E se i due protagonisti di Le particelle elementari rappresentano una sorta di esplosione dell'io letterario di Houellebecq - lo studioso positivista e la canaglia col tarlo del sesso - e il Michel Renault di Piattaforma è a ben vedere il suo primo vero clone, nel racconto di vita di Daniel 1 c'è, tra le altre cose, lo scrittore che si fa beffe dei suoi detrattori e chiarisce come mai prima i motivi di fondo della sua narrativa.
Ci sono principalmente due categorie di artisti: i rivoluzionari e gli intrattenitori. A metà strada c'è gente come lui, che rimane furbescamente attaccato al treno dell'umanità senza nascondere il suo disgusto.
Ce lo confessa per voce del comico Daniel 1, abbozzando un curioso autoritratto:
Ero più stupido della media?, chiesi a Vincent la sera stessa mentre prendevo l'aperitivo a casa sua. No, rispose senza turbarsi, sul piano intellettuale mi collocavo in realtà leggermente al di sopra della media, e sul piano morale ero pressappoco simile a tutti: un po' sentimentale, un po' cinico, come lo è maggior parte degli uomini; ero soltanto molto onesto, lì stava la mia vera specificità: rispetto alla norma, ero di un'onestà quasi incredibile.
Niente di speciale in fondo, sembra dirci Houellebecq, che in Piattaforma aveva dato al suo narratore/protagonista il nome di una nota casa automobilistica. Come a sottolineare che il personaggio in questione è un modello standard, di larga diffusione, quindi quella che va in scena non è una vicenda personale ma una condizione universale.
Siamo nei dintorni di Yates, che in Revolutionary road sconfina nell'allegoria proprio attraverso i cognomi dati ai suoi personaggi.
L'analogia con il padre del dirty realism americano non si ferma qui. Nella prefazione di Richard Ford all'edizione italiana, leggiamo che per i contemporanei di Yates il punto debole dell'opera stava nell'ambivalenza della posizione del narratore, incapace di decidersi tra lo sguardo di un entomologo e quello di un metafisico. Con Ford, potremmo invece notare che proprio in quell'ambivalenza stava la grandezza di Revolutionary road, una tragedia familiare che è allo stesso tempo quella di una generazione, di una classe sociale e forse - è il titolo stesso a suggerirlo - di un'identità nazionale.
Sempre con Ford, potremmo ritrovare questa prerogativa, che non è certo un vizio costitutivo ma piuttosto un valore, in Houellebecq.
"Abbiate paura della mia parola". Grande entomologo, grande metafisico e molto altro ancora, Michel Houellebecq ha scritto il suo miglior romanzo, in cui allestisce un apparato retorico degno dell'epica dei testi sacri, soggioga il lettore con i suoi toni profetici, lo diverte amaramente, lo commuove, prefigurandogli lo sfacelo che lo attende.
Matteo Ferrario



5.10.05
Recensione inviata da Silvia (Phoebe)
Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Khaled Hosseini è un medico americano. Anzi, no. Non è americano. È afgano. Cosa che, di questi tempi, negli Stati Uniti credo possa essere considerato quasi un reato. Eppure, proprio in quegli Stati Uniti di Bush, intolleranti e gretti, è diventato un caso letterario questo piccolo libro, il suo primo racconto.
Khaled racconta una storia indimenticabile, commovente e straordinaria, ma priva di eroi.
È quello che è, un canto epico di padri e figli, di amicizia e tradimento, di abissali capitolazioni e redenzioni coraggiose e sofferte. Di fughe e ritorni, fino al riscatto finale, toccante e inaspettato. Sullo sfondo la scomparsa nel nulla di un mondo, l'Afghanistan, che assiste impotente alla disintegrazione della sua millenaria cultura e al crollo di ogni certezza. Assiste con la rassegnazione disperata all'incedere della Storia, incarnata dai Sovietici prima e dai Talebani in un secondo tempo, fino ai disastrosi giorni nostri.
La storia è narrata da Amir, figlio della ricca borghesia afgana, con un padre rispettato e amato da tutti per la sua probità morale e con una madre che è morta dandolo alla luce. Hassan è il servo hazara della sua famiglia, suo compagno di giochi e temibile cacciatore di aquiloni. Con la stessa minuziosa cura con cui Amir e Hassan bambini si preparavano all'evento più importante per i ragazzi di Kabul, la gara degli aquiloni, l'autore ritrae il mondo della sua infanzia e fa rivivere il calore di quella realtà sicura e ospitale per lui, dall'odore inebriante e inconfondibile della terra bruciata d'estate e dell'aria frizzante dell'inverno mista al sapore rassicurante del tè e delle spezie.
Tuttavia questo romanzo non è solo un racconto della memoria, ferita dal presente orribile e sanguinario, ma l'affermazione della coscienza di un uomo. Un uomo normale, Amir, né pavido né eroico, né buono, né cattivo. Un uomo, solo un uomo. Che alla fine, però, non può più sfuggire al passato e deve fare i conti con i propri ricordi, le proprie sensazioni. Deve riempire vuoti che chiedono di essere colmati.
Il viaggio che Amir intraprende verso la patria è prima di tutto un viaggio in se stesso, per confrontarsi e riscattarsi da quell'antica e dolorosa colpa, un blocco di ghiaccio represso dentro di lui, ma che non ha mai smesso di soffiare aria gelida sulla sua pelle. Un peso che Amir ha sopportato in solitudine nell'esilio americano, intrappolato nel suo stesso dolore.
Al proprio destino Amir non può sfuggire, e la tragedia dell'Afghanistan si materializza in un sottofondo di voci stridenti e feroci apparizioni, mentre sulla scena si dispiega il mondo interiore di Amir e degli altri personaggi che incontra, fino alla risoluzione finale e all'espiazione della sua colpa.
Un libro da leggere, anche per capire meglio un mondo sempre più vicino al nostro.
Silvia (La stanza di Phoebe)



19.9.05
Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria
Chi è il protagonista di questo romanzo? Difficile decidersi tra i personaggi di cui si narra nei singoli capitoli, talmente ben delineati da funzionare come storie a sé; o Abacrasta, il paesino in cui di morte naturale non muore nessuno perché uomini e donne a un certo punto la fanno finita, quasi sempre impiccandosi; o ancora, Redenta Tiria, deus ex machina incarnato in femmina cieca... probabilmente, il narratore. Testimone, memoria, filo conduttore tra le vicende, ne è egli stesso parte in causa, destinato a soggiacere al medesimo fato che racconta e che si ripete per gli altri.
Un libro in cui risuonano magie sudamericane, non solo per la scelta degli autori in epigrafe, ma per atmosfere alla Macondo nelle origini mitiche e animali e nell'esplosione irresistibile di amori totalizzanti, o anche per le chiaroveggenze oniriche a richiamare, per esempio, Manuel Scorza (La vampata).
Il linguaggio è pregno di terra di Sardegna in ogni similitudine, nei detti e nei modi ancor più che nei termini in lingua. Volendo, certi artifizi trovano assonanze con quelli di un altro autore isolano, ma di Trinacria e non d'Ichnussa: l'uso di parole dialettali e la contraffazione dei toponimi, per una geografia svincolata eppure riconoscibilissima. A differenza di Camilleri, però, Niffoi rimanda a un sapore quasi preistorico anziché all'attualità, sebbene non manchino riferimenti materiali contemporanei.
Le storie sono appassionate e avvincenti, i ritmi sempre adeguati, l'ambientazione arricchita da una polisensorialità che trasuda tra le sillabe. La feroce fisicità peraltro non soffoca la delicatezza del tocco, che si tratti di natura, amore o di pudica commozione.
Tema sotteso, l'esiguità del libero arbitrio: in ambiti nei quali la storia familiare traccia solchi da cui l'individuo non può scartare, viene pressoché esplicitata la forza della predestinazione, l'ineluttabilità della tragedia personale.
E invece si apre spazio un rovesciamento della catarsi: con la sua semplicità e determinazione, Redenta Tiria è la nemesi all'incontrario, è la vita che dall'ombra assoluta torna a trionfare sulla morte, non solo quella ultima, ma la peggiore, quella quotidiana.
Giulio Pianese, ovvero Zu



12.9.05
Recensione inviata da Silvia (Phoebe)
Audrey Niffenegger, La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo (traduzione di Katia Bagnoli)

L'amore non ha l'orologio
In un mondo che col potere dei fatti cerca in ogni modo di convincere i propri sciagurati abitanti del fatto che, per ragioni sociologiche, fisiche e ormonali l'Amore non può esistere se non nei romanzi zuccherosi e datati della Harmony, arriva come un fulmine a ciel sereno un libro. Io odio i libri d'amore strictu sensu. Sono più irreali di Asimov e molto più noiosi certamente.
Non sembra nemmeno un libro d'amore, ma una di quelle incasinatissime storie che escono dalla penna di Jonathan Carroll. Invece, c'è il trucco. Perché La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo è una storia d'amore. Atipica. Stramba. Ma è una storia d'amore. Dolcissima, ma non mielosa. Amore incondizionato. Destino. Anzi, non destino. Predestinazione. La magia incontra la scienza o viceversa. Oppure sono la stessa cosa, chi può dirlo?
Henry de Tamble non è un uomo normale. Lui viaggia nel tempo. Non per scelta o per magia, ma per una strana malattia genetica cui non può opporsi. Cronoalterazione. Come starnutire, più o meno. E così interseca in modo assolutamente aleatorio e (forse) sconclusionato la propria vita (incrociando anche altri sé stesso) e quella dei suoi cari. Ancora. E ancora. E ancora.
E poi c'è Clare. La prima volta che si incontrano lei è bambina di appena sei anni intenta a giocare su un prato, lui viene dal futuro ed è già un adulto di trentasei anni. Si incontreranno davvero solo poi. E la vita di Clare sarà fatta di amore, attesa e pile di vestiti pronte. Ed è subito chiaro che sarà per tutta la vita. Che sarà la storia di due persone che si amano, e vorrebbero farlo per sempre, a qualunque età e in qualunque momento.
La storia è raccontata direttamente dai due protagonisti, con tanto di data e varie età indicate in ogni paragrafo per non far perdere la cognizione del tempo allo sparuto lettore che, specie nelle prime 50 pagine, si può sentire disorientato. Trama assurda? Sembra. Ma l'autrice, Audrey Niffenegger, professoressa dell'Illinois alla sua opera prima, è bravissima a tenerlo per mano e a portarlo in una realtà in cui gli orologi girano a casaccio ma anche no. Ciò che sembra impossibile appare quotidiano, normale.
Non è una versione romantica di Ritorno al futuro e nemmeno di The butterfly effect. La fantascienza non c'entra nulla. A essere in primo piano sono i sentimenti e la loro immutabilità.
Questo libro rincorre un'utopia di coppia, mette in scena una sensibilità femminile, un desiderio, una fantasia. Il sogno di amare l'uomo che ami anche quando tu non lo conoscevi e lui non ti conosceva, scrutarlo, spiarlo, fare sesso con lui da amante perché lui, in quel dato segmento di tempo, sta con un'altra. Amarlo quando è più giovane di te, quando è come te, quando è più vecchio di te (nel tempo lineare Henry ha otto anni più di Clare). Fare l'amore contemporaneamente con lui giovane e lui vecchio, perché i due Henry possono anche incontrarsi. E raccontarsi la propria storia.
Qui tutto è scritto, tutto è già deciso. Il futuro è già scritto e non può cambiare, dipinto da una mano invisibile. Tutto è deciso, tutto deve accadere e accadrà, non può essere evitato o modificato.
Un libro diverso, da leggere. Per sperare che l'amore esista, che non sia solo bisogno umano di affiliazione.
I diritti di questo libro erano stati comprati da Brad Pitt e Jennifer Aniston, affascinati dalla bellezza e leggerezza della storia, quando ancora erano una coppia felice. Doveva essere il loro primo film insieme, una metafora del loro amore. La realtà, insomma, è diversa dai libri. Persino da questo.
Silvia (La stanza di Phoebe)



5.8.05
Julio Cortázar, Storie di cronopios e di famas (traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini)
È un piccolo universo in cui si entra piano piano. Ci si lascia condurre, curiosi, poi emergono reticenze, il timore di ammorbarsi in esercizi di stile, tacitati l'uno e le altre dalla considerazione che queste parole non ribaltano solo la frase, ma la visione del reale, spiato attraverso fessure improbabili, ascose a occhi solitamente svagati sulla banalità quotidiana.
Micromondi si schiudono dunque all'osservatore, e tra spunti divertenti e passaggi dardeggianti, dal Manuale di istruzioni alle Occupazioni insolite, l'esserci perde le pastoie del già noto, si sveste dello scontato e acquista senso tramite un agire dettato da urgenze che minano alla radice ogni gerarchia mentale predefinita.
Ed è arte, sì, quella che ti mostra l'altro lato delle cose.
Le pagine del Materiale plastico proseguono l'opera di cattura e preparano alle vere e proprie Storie di cronopios e di famas. Di che si tratti, lo spiega un po' l'introduzione di Italo Calvino, un po' la nota finale dell'autore, il quale ammette: "all'inizio ci sono cose molto contraddittorie nel loro comportamento. Ma mi è sembrato bene dare l'insieme del lavoro al lettore, perché faccia anch'egli un poco lo stesso cammino".
In effetti, l'opera evolve alla lettura e lo si avverte procedendo, quando le caratteristiche dapprima appena delineate si definiscono con maggiore nettezza, mentre ci si allena a una vigilanza dei sensi e dei controsensi.
Dicevo del timore iniziale di trovarsi di fronte a meri esercizi stilistici e invece... quando alla fine te li vedi danzare, quelli lì, al ritmo di provala provala tregua spera e varianti, che dire, se non rendere omaggio a uno scrittore che sa far materializzare il surreale? Buenas salenas, cronopio cronopio.
Giulio Pianese, ovvero Zu



22.6.05
Recensione inviata da Elisa Bolchi
Virginia Woolf, The Voyage Out
Come regola e consiglio generale trovo decisamente preferibile leggere un autore in ordine cronologico. È bello osservarne la crescita, l'evoluzione stilistica, le riflessioni sul mondo che diventano via via più mature, più scarne, perché a forza di rosicchiare è davvero giunto al nocciolo della questione che lo interessa. Ma quest'opera prima di Virginia Woolf va letta alla fine. Solo alla luce di una conoscenza profonda dell'autrice si potrà cogliere come in questo primo romanzo giovanile la Woolf avesse già tracciato il percorso preciso della sua evoluzione artistica e umana. Così come era solita pianificare meticolosamente il proprio lavoro (i suoi diari ce ne danno ampia testimonianza), aveva saputo pianificare tutto ciò che avrebbe scritto e vissuto.
The Voyage Out narra di un gruppo di inglesi che intraprende un lungo viaggio in mare per trascorrere una vacanza nel Sud America. Durante la traversata vengono caricati, per un breve tragitto, i coniugi Dalloway, e così facciamo la prima conoscenza con Clarissa e Richard Dalloway, che rincontreremo una decina d'anni più tardi nel ben più celebre romanzo. Che Clarissa fosse già figura dominante nei pensieri dell'autrice risulta chiaro dall'influenza che ella ha su ogni singolo personaggio, ma in particolar modo su Rachel, che scopriremo protagonista (come sempre nei suoi romanzi, solo dopo parecchie pagine iniziamo a conoscere i personaggi, ma non è così anche nella vita?). Clarissa, con il suo amore per Richard (che pure sente già lontano, al quale chiede quella figlia che ancora non hanno e che ritroveremo quasi adulta nel romanzo successivo), la sua freschezza e la sua diversità, apre gli occhi alla giovane Rachel su un mondo possibile che ella ignorava perché tenuta dal padre nell'ignoranza di una fanciullezza protrattasi troppo a lungo. Salutati i Dalloway e giunti a destinazione, il padre di Rachel ripartirà per l'Europa, affidando la figlia ai parenti della defunta moglie, gli Ambrose.
Qui il romanzo si anima di altre figure e personaggi, fra una casa coloniale dove vivono gli Ambrose e un albergo poco lontano che ospita le persone che cambieranno la vita di Rachel. La compagnia deciderà di intraprendere un viaggio per risalire il fiume e visitare un villaggio di indigeni, e questo viaggio sarà occasione per il giovane Terence Hewet, uno degli ospiti dell?albergo, di dichiararsi a Rachel, che accettando la proposta di matrimonio avrà modo di scoprire ad una ad una tutte le emozioni dell'amore. Ma pochi giorni dopo il loro rientro, Rachel si ammala di febbri e muore. Il romanzo si conclude con i distratti commenti degli ospiti dell'albergo, profondamente dispiaciuti ma anche, in fondo, come sempre accade, profondamente estranei alla vicenda. E di Terence, della signora Ambrose, del loro dolore, nulla ci viene descritto, rendendolo così incommensurabile.
È già visibile la capacità dell'autrice di creare un mondo per poi narrarlo a volo d'angelo, spirando come un vento nelle loro menti. Il movimento della narrazione ha ancora qualcosa di naturalistico: parte da una visione d'insieme per focalizzarsi poi sulla coppia di amanti, Rachel e Terence: non per descriverne l'amore, quanto piuttosto per analizzare in dettaglio i loro intensi e complessi sentimenti. E i dialoghi dei due giovani sono il capolavoro dell'opera, lasciando intravedere la finezza e l'arte dell'analisi psicologica che l'autrice avrebbe poi perfezionato. Terence è scrittore, sta scrivendo un romanzo sul silenzio; Rachel, illetterata a causa del padre (ancora una volta Virginia non manca di sottolineare l'enorme torto fattole dal padre nel precluderle l'università), è un'ottima pianista. I due si scambiano quindi reciproche emozioni sul modo di percepire la realtà dal punto di vista dell'indagine letteraria o dell'immediatezza della passione musicale. La Woolf userà anche il giovane progressista per abbozzare alcune idee che prenderanno forma più concreta nei suoi saggi successivi (Terence riflette su come gli uomini abbiano il diritto a "Una Stanza tutta per sé" dove lavorare e studiare, mentre le donne devono pensare a dar da mangiare alle galline).
Anche la tecnica del tunnelling è già riscontrabile, nei discorsi slegati degli ospiti dell'albergo che arrivano alle orecchie di Terence o dell'amico intellettuale St John, influenzando e indirizzando i loro pensieri.
Ma è la follia di Rachel nel delirio delle febbri con quell'incubo della morte per acqua l'elemento che fa più rabbrividire il lettore che conosce la vita, e la morte, dell'autrice. Come nella sfera di vetro di una veggente, la Woolf fa vivere a Rachel in poche settimane quella che sarà la sua vita, fatta di deliri, di follia, di voci percepite e realtà distorte e per sfuggire a tutto ciò le fa sognare una liberatrice morte per acqua.
È un romanzo che resiste alla lettura, il lettore deve già cooperare, come gli avrebbe chiesto di fare più tardi l'autrice, ma alla fine si è lasciati con un senso di completezza sulla natura umana che appaga totalmente i sensi.
Elisa Bolchi



Recensione inviata da Saverio Fattori
Filippo Scozzari, Prima pagare poi ricordare, Coniglio Editore
Non è una recensione a freddo, è un bisogno fisico, un'urgenza che brucia: leggere Prima pagare poi ricordare è un dovere, il piacere che ne consegue arriva a ondate alterne.
È un'intelligenza scorbutica e feroce quella dello Scozzari, un'intelligenza con l'accento da qualche parte che adesso non ricordo, pura come si trova in natura, un'intelligenza cui tutto è permesso, e non si arrabbino i fan fumettari se la verità brucia e smonta e rimonta percorsi zigzaganti, le opere e la vita stessa di geniali menti intasate da debolezze e golosità varie.
Ed è questo lo sport acrobatico cui si dedica lo Scozzari nelle sue pagine, ti dice che lui aveva ben chiaro il concetto di cacao e quello di merda, ti scompone il genio, te lo rende umano, ti ribadisce che ci sono persone di talento e un sacco di ciglioni che tutto inquinano, perché anche la vita dei piccoli geni affonda nelle stesse quotidiane miserie nella stessa sporcizia dell'umanità media. È questa constatazione che rende inquieti i fan ImPazienti? L'intelligenza pura non può essere che anarchica e si pone in altra dimensione rispetto a correttezze politiche e lungi dall'erigere monumenti.
In origine a Scozzari era stata proposta dall'editore della prima edizione del libro Castelvecchi una semplice (semplice...) biografia non autorizzata su Andrea Pazienza, ma l'operazione è stata giustamente presa a pretesto per allargare la visione e contestualizzare la figura di Pazienza e di altri piccoli geni inquieti.
Non c'è una sola frase non necessaria nel libro, deflagrazioni a catena, elettricità, è vita pura vomitata e ricomposta. La morte di Tamburini è una pagina alta di letteratura, devastante in assenza di enfasi, definitiva e gelida, una lezione da lui, fumettaro, a tanti scrittori giallisti inutili, da sola inserita tra pagine bianche basterebbe a giustificare il libro, il prezzo di copertina.
Perfino l'elenco finale di aneddoti da spizzicare a fine pasto ti fa rimpiangere anni esplosivi quanto dispersivi a gente come me, gente del '67, davvero arrivati alla frutta, con vaghi ricordi di riviste come Il Male o Frigidaire, Cannibale, inciampati su albi fichetti con tavole strariciclate (a proposito, ma quanto mi sta sul cazzo l'editore de Il Grifo?) dell'icona Pazienza e degli altri compagni di merende. Gente del '67 che si trova a rimpiangere non sanno nemmeno loro di preciso cosa, ma certo testimonianze lucide e intransigenti come questa aiutano a capire checcazzo ci siamo persi, perché qualcosa ci siamo persi. Di sicuro.
Si parte da un appartamento di via Clavature, è la Bologna del '77, dal nucleo originario della Traumfabrik (Scozzari, Pazienza), poi a Milano Scozzari incontrerà la "colonna romana", nascono collaborazioni che coinvolgeranno tra gli altri Liberatore, Tamburini (padri di Rank Xerox) e il giornalista romano Sparagna, direttore de Il Male, coagulante imprescindibile, bidello ispirato che negli anni a seguire terrà faticosamente a bada alunni indisciplinati e talentuosi apparentemente privi di calcoli e strategie che tengano conto della spietatezza di questo porco mondo. Prima di arrivare a Cannibale, Scozzari ha già pubblicato fumetti, per lo più di fantascienza, sotto pseudonimo su Alter e Linus.
Dalle frequentazioni bolognesi, i primi spazi occupati della zona universitaria e dall'osmosi con personaggi dalle identiche pulsioni interiori arrivano gli stimoli culturali che danno vita alla rivista Cannibale che prematuramente estinta germinerà in Frigidaire. Articoli di denuncia e controinformazione si alternano a fumetti dalla carica innovativa esplosiva, che spesso meglio delle parole sublimano in poche tavole situazioni e stati d'animo di quegli anni e in qualche modo prefigurano scenari futuri avvilenti: i cattivi odori degli anni '80 arrivano alle redazioni di queste riviste, Sparagna nei suoi articoli già parla del malaffare politico imprenditoriale che solo molti anni dopo prenderà forma nelle indagini del Pool della Procura di Milano o dei tabù imposti dai grandi Baroni della ricerca medico-scientifica. Fino alle intuizioni dello stesso Sparagna su Il Male, prime pagine de La Repubblica e de La Gazzetta dello Sport abilmente contraffatte che arrivano ben oltre le 100.000 copie vendute. Ugo Tognazzi capo delle BR, la foto dell'attore ammanettato tra due sbirri la tenevo da qualche parte, tra i miei flash adolescenziali. A pranzo in famiglia mio padre con la testa china sulla minestra a commentare: "Lo dicevo che era uno insospettabile...".
Ci si dibatte abilmente tra ironia e impegno, creatività personale e senso della tribù, liberando energie che davvero oggi si fatica a ritrovare. Scozzari alle presentazioni semplifica e rende tutto naturale.
Eravamo bravi, eravamo diversi, ci siamo messi insieme. Telepatia degli eventi.
Esperienze creative così estreme sono fatalmente votate all'estinzione, nascono già col virus a orologeria dell'autodistruzione, riprodotte all'infinito perderebbero forza, riproducendo gli stessi meccanismi che all'inizio del miracolo ci si proponeva di colpire al cuore.
Il libro di Scozzari sorprende in ogni pagina: una scrittura agile, brulicante di fatti persone e giudizi che a volte sono duri e sbrigativi, è comunque testimonianza attendibile di persona informata dei fatti, degna del massimo rispetto, poco accomodante, allergica a idealizzazioni e beatificazioni.
Pare ancora soffrire per le fatiche che la gestione delle riviste prevedeva: mica solo ispirazione, anche duro lavoro pratico cui qualcuno si sottraeva da fuoriclasse manina d'oro, preso a inseguire i propri fantasmi personali.
Un lucido delirio in cui il filo della narrazione non si perde mai, una lettura a tratti amara; poi ti sorprendi a ridere da solo come un demente per marachelle e aneddoti che sono cronaca di ordinaria follia metropolitana, tra piccole e grandi delusioni, grandi scazzi personali, scazzi di matrice politica, il tutto condito dall'eroina che ha tenuto in ostaggio una intera generazione.
Saverio Fattori



20.6.05
Recensione inviata da Alessandro Canzian
Massimiliano Parente, La macinatrice, Pequod, Ancona 2005
Chi ha pubblicato con l'editore Alberto Castelvecchi non resiste alla tentazione di ispirarsi a lui per qualche personaggio.
Nel suo Attenti al gorilla (1999), Sandrone Dazieri infilò il mondano editore "Castellini".
Nel racconto Benvenuti a 'sti frocioni (2000), i Wu Ming nominavano tale Roccasecca, "capitolino scopritore di talenti mancati".
In Occidente per principianti di Nicola Lagioia (2004), troviamo "l'editore trash-filosofico", con tanto di titoli pubblicati: Ufologia marxista, Storia sociale della Nutella...
Ora Massimiliano Parente pone al centro del suo La macinatrice "Giandomenico Torrenuova", editore di "libri effimeri e riviste trendy".
Il giochino ha stancato? Forse, ma continuate a leggere.
La macinatrice è un denso romanzo sessuo-complottologico, gioca coi generi, ne evoca le regole senza mai applicarle. Il sito porno che diviene vagina vivente e poi diviene mondo richiama il fantastico-gotico alla Matthew P. Shiel. Forte è anche l'influenza del genere conspiracy alla Robert A. Wilson.
Parente, 35 anni, ha scritto su "Il foglio", "Il giornale" e "Blue". È collaboratore fisso de "Il domenicale", settimanale fondato da Marcello Dell'Utri. È insomma chiaro da che parte stia. E allora? La stoffa di un narratore non c'entra col suo credo politico, ancorché discutibile. Esempio estremo: Borges ammirava Pinochet, ma chi dubita che fu un grande?
Parente non è Borges, ma è un bravo narratore, lavora sodo, lima le frasi con quella perizia "artigianale" oggi al centro di molte riflessioni. Dopo tre prove un po' opache ma non immeritevoli, Parente va oltre, incalza l'osceno in ogni sua espressione. Un libro ambizioso e di respiro, ennesima riprova che gli autori italiani osano.
Grazie a opere che negli anni hanno battuto la pista - Metallo urlante di Evangelisti, i thriller di Giuseppe Genna, 54 dei Wu Ming, fino al più recente Perceber di Colombati - oggi Pequod può offrirci un romanzo-universo, dove il voyeurismo esce dal salotto borghese per farsi dura materia mitopoietica.
Costruendo su questa base, in futuro Parente potrà fare grandi cose.
Alessandro Canzian



20.5.05
Recensione inviata da Maria Rizzo

La nuova Sicilia di Paulu Piulu
Ritengo la letteratura siciliana la più ricca, varia e complessa dell'Italia unita. Non mi riferisco a quella formato esportazione o epigonale di Simonetta Agnello, ma a quella che, partendo dai fondatori Capuana, Verga e De Roberto, annovera nomi come Pirandello, Brancati, Vittorini, Quasimodo, D'Arrigo, Lampedusa, Sciascia, Bufalino, Russello, Bonaviri, Consolo, Camilleri... e qualcun altro che probabilmente mi sfugge.
Dico questo per dare l'idea dell'importanza di un libro come Paulu Piulu di Giorgio Morale, scrittore nativo di Avola (Siracusa) trapiantato a Milano. Il romanzo, appena pubblicato dall'editore Manni, dopo tanta letteratura siciliana riesce ancora a dire qualcosa di nuovo sulla Sicilia. Quella di Paulu Piulu è una Sicilia primitiva e innocente, passionale e delicata, che la scrittura di Morale variamente modulata sa ricreare, seguendo col suo periodare il nascere e svolgersi delle emozioni nelle loro più sottili sfumature. Alcuni capitoli hanno un avvio perentorio: "La vera estate cominciava quando scoppiava il canto delle cicale e vinceva ogni cosa. Ovunque c'erano alberi, le fronde risuonavano, enormi sonagli agitati dalla campagna al cielo...", "Quell'inverno fu assai ricco di muschi e licheni, corse e inzaccheramenti...". Il resto non è da meno.
L'opera è definibile come un romanzo di formazione e l'età prescelta per dar conto della formazione di Paolo (Paulu in siciliano) è l'infanzia. Il romanzo racconta infatti la formazione di Paolo ("Paulu Piulu" è l'inizio della filastrocca che i genitori cantavano al bambino), nella prima parte in una specie di giardino incantato (ogni infanzia ha un giardino incantato, malgrado gli inevitabili squallori puntualmente registrati nella realtà) costituito dalla fabbrica, con lo spiazzo e i campi attorno, dove il padre lavora e fa il guardiano. In modo molto indovinato la prima parte del libro termina con l'abbandono della fabbrica da parte della famiglia, per Paolo una sorta di cacciata dall'Eden, per il trasloco in una sognata casa "normale" che non dà la felicità tanto attesa. Dopo l'emigrazione dei genitori, Paolo va a vivere prima in un pessimo collegio, dove rimane per breve tempo, e poi viene accolto dai nonni, perché, istintivamente legato al suo ambiente e alla sua cultura, rifiuta di seguire la famiglia in un altro Paese.
Infanzia è un'altra parola chiave del libro: non ho letto, dopo le indimenticabili pagine delle Confessioni di Ippolito Nievo sulla vita di Carlino al castello di Fratta, pagine come queste in cui l'infanzia sia stata così fedelmente e magicamente ricreata, pur essendo quest'età negli ultimi tempi abbastanza presente nella letteratura. Parlerei, per Paulu Piulu, anche d'infanzia in senso leopardiano, per come dell'infanzia viene mostrata la capacità di farsi interrogare dal mondo e di darvi risposte fantastiche.
Poi c'è in Paulu Piulu la società siciliana colta in un momento storico (gli anni '50/'60 del '900) che ancora si proietta sul nostro presente. Ci sono le problematiche del lavoro, dei soldi, dell'emigrazione, ricostruite in pagine quasi "materiche", che trasmettono odori, sapori, voci, visioni, impressioni tattili del fango, della pioggia, degli stenti: "Entrare era stato come entrare in un purgatorio di penuria e disagio... Spesso bisognava piazzare recipienti per raccogliere l'acqua che filtrava dalle tegole e aspettare che finisse quel gocciolio metallico, da cui si diffondeva tanta umidità, che tutta l'aria, i muri, le stoffe, il pane, tutto sembrava bagnato".
Tutto questo non è presentato in modo sociologico, la scrittura di Giorgio Morale non ha nulla di cronachistico. Attraverso flash successivi e con un uso moderno e sapiente del montaggio, l'autore ci immette subito nella vicenda, in cui storie e Storia sembrano davvero congiungersi.
Maria Rizzo



17.4.05
Recensione inviata da Elisa Bolchi
Edward M. Forster, Maurice (traduzione di Marisa Bulgheroni)
La letteratura europea è piena di storie di passioni, più o meno celebri, a partire dagli amanti per eccellenza, Romeo e Giulietta, passando per Antonio e Cleopatra, per Darcy ed Elizabeth, Catherine e Heatcliff, Rosine e Figaro, per citare i primi che mi si affacciano alla memoria. Ma perché nessuno accenna mai a Maurice e Clive? Non è forse, quello narrato da E.M.Forster, un amore sincero, puro, descritto nel suo momento più estatico, quello della nascita, e prima ancora della consapevolezza, della presa di coscienza di sé? E non è solo la nascita dell'amore a essere magistralmente narrata nelle pagine di questo romanzo, ma anche la scoperta di cosa si è, si potrebbe dire del materiale di cui si è fatti. Il tutto, l'innamoramento, gli sguardi, l'iniziale stordimento, avviene con una naturalezza tale che ci sembra di averne già viste a milioni di storie simili e che prima o poi lui prenderà il sopravvento e la bacerà, e allora lei si abbandonerà tra le sue braccia. Ma qui non c'è lei. Non c'è lui. Entrambi gli amanti sono preda dello stesso tipo di passione, di amore e di tenerezza, l'uno consapevole, l'altro non ancora. Chi dovrebbe prendere una ferma decisione? Chi avrà il coraggio di amare ciò che non gli è permesso amare, chi si svelerà per primo un fuorilegge, poiché questo erano nel 1930 gli omosessuali in Inghilterra? Assistiamo alle carezze amichevoli, agli scherzi ingenui ma così carichi di erotismo da far rabbrividire e non attendiamo altro, arriviamo quasi a sussurrarlo... "bacialo!" Sfido qualsiasi lettore moralista e carico di pregiudizi a non infiammarsi nel leggere della notte in cui Maurice prende coscienza della propria sessualità, lo sfido a non saltare sulla poltrona nell'indescrivibile impazienza di vederli infine uniti in un abbraccio appassionato e carico d'amore, nel quale potranno riversare i loro cuori. E lo sfido a considerare tutto ciò fuori dal comune, o estraneo alla morale, o "invertito". Non lo credo possibile. Perché se tutti abbiamo versato qualche lacrima per i disgraziatissimi Romeo e Giulietta, se tutti abbiamo sognato che Cathy sposasse Heatcliff e vivesse felice con lui, se ci siamo consolati più volte nei molteplici matrimoni dei diversi romanzi di Jane Austen, allo stesso modo simpatizzeremo per i due amanti in questo romanzo perfetto, troveremo erotiche e stuzzicanti le poche e più che eleganti scene di sesso, troveremo inaccettabile il comportamento che il protagonista deve tenere verso la società. Molto delle tecniche narrative moderniste sono presenti, ma non preponderanti. Forster vi accenna, vi rimanda come in una discussione fra vecchi amici, coi quali non serve spiegare nulla, perché basta uno sguardo o una parola per alludere a un'intera situazione. Lo stile sapiente, misurato, ineccepibile, crea una prosa esemplare, dotta ma mai pretenziosa, delicata e pungente al tempo stesso. Forster ci ha lasciato questo romanzo in eredità, da pubblicare dopo la sua morte, forse perché non fu mai davvero pronto per esporre tutto ciò che sentiva, tutto ciò che era stato e che era divenuto.
Elisa Bolchi



14.4.05
Recensione inviata da Dontyna
Doctor Sex, T. Coraghessan Boyle (tradotto da Silvia Pareschi per Einaudi, 2004)
Accade troppo spesso di giudicare un libro o un film dalla storia in sé o dai protagonisti. Invece un romanzo o una sceneggiatura sono ben riusciti quando producono una qualche reazione esterna, sia essa di rffiuto o ammirazione, verso la piccola porzione di realtà che gli autori vogliono proporre al pubblico.
Durante tutta la lettura di Doctor Sex, di T.Coraghessan Boyle, io ho detestato il professor Alfred Kinsey e i suoi collaboratori. Nel libro, edito da Einaudi, la storia di questo dottore del Sesso è raccontata in prima persona da John Milk, giovane e mediocre studente di lettere, che in poco tempo si trova a fianco di Kinsey a raccogliere interviste per tutto lo stato dell'Indiana e poi altrove, evitando in ogni modo qualsiasi attività, persona, luogo, abitudine, opinione che secondo il suo amato professore avrebbe potuto "ostacolare il progetto". In sintesi, la tesi che difende Prok (professor Kinsey) è la seguente: l'uomo e la donna, in quanto animali umani, dovrebbero assecondare i loro istinti sessuali appena si manifestano, in qualsiasi modo, e il non farlo è solo sintomo di insicurezza sessuale, dovuta alle imposizioni della società, a un'educazione severa, alle abitudini familiari, che possono essere scavalcate solo se ci si lascia andare senza inibizioni. Questa corrente di pensiero potrebbe risultare molto attraente, se non fosse per un piccolo particolare cui Prok si è dimenticato di accennare: i sentimenti. Il sesso, l'atto sessuale, comportano inevitabilmente sentimenti verso l'altra persona: amore, rabbia, gelosia, timidezza, gioia, paura, compromesso. Come può ridursi tutto a un atto meccanico e razionale? Questo è banalizzare il sesso. Oppure, come in effetti il professor Kinsey intendeva dimostrare, è minimizzarlo a un comportamento scientifico, osservabile negli esseri umani come negli animali, con l'unica differenza che i primi hanno un bagaglio culturale e sociale che impedisce loro di esprimersi appieno. Già, ma i sentimenti? Le emozioni? Non si può affermare che l'uomo agisca solo d'istinto! Come tutti i grandi scienziati con grandi obiettivi, il dottor Sesso ha tralasciato tutto ciò che avrebbe potuto inquinare la sua ricerca, procedendo con un paraocchi che gli ha impedito di vedere al di là delle sue statistiche e misurazioni oggettive.
Disprezzando i protagonisti, criticando le loro idee, ho finito per detestare anche il libro. Solo ora mi accorgo che l'autore ha inserito fin dall'inizio un personaggio che poteva costituire un po' l'ancora di salvezza per chi, come me, non sopporta le descrizioni semplicistiche della realtà. Il personaggio in questione è Iris, una donna finalmente, moglie di John Milk, che per tutta la storia mantiente un atteggiamento distaccato, polemico e ironico sulle convinzioni e il lavoro dello staff di Prok. Si rifiuta di fare da cavia e di farsi filmare durante l'attività sessuale, litiga con John perché non riesce a tirarsi fuori dall'influenza pressante del suo datore di lavoro su tutti gli aspetti della loro vita. E quella di Iris e Milk invece è proprio una storia d'amore, che al pari della ricerca e degli esperimenti, procede giorno dopo giorno, con intoppi, nuovi incontri ed esplosioni di passione.
Con Iris l'amore diventa l'elemento centrale del romanzo, ci ricorda che non può essere escluso dalle relazioni interpersonali ed è l'unica cosa che alla fine rende davvero felici.
Dontyna (Coffeeee pleeasee!!!!)



13.4.05
Recensione inviata da Renato
Chet Baker. La lunga notte di un mito, di James Gavin (tradotto da Marco Rossari per Baldini Castoldi Dalai, 2004)
Una biografia decisamente corposa del celebre trombettista: viene descritta tutta la sua vita, dalla nascita in Oklahoma fino alla morte ad Amsterdam. Va detto che Baker non ne esce bene: la mia impressione è che l'autore desiderava scrivere un'opera su un grande jazzista e dopo ricerche, interviste, testimonianze varie si è ritrovato fra le mani il materiale per scrivere quella che sembra la biografia di un drogato misogino piuttosto che quella di un musicista. Certo, Chet Baker era un drogato, ma era soprattutto un grande musicista, eppure non si ha questa impressione leggendo la sua biografia.
Si tratta comunque di un gran bel libro, scritto molto bene: sembra un romanzo.
Lui non voleva fare altro che suonare il suo strumento e cantare e sperare di lasciare qualcosa di buono dal punto di vista musicale. Questo sforzo è la cosa più bella. Stare qui a discuere perché ha fatto questo o quest'altro, o cos'altro avrebbe potuto fare, che senso ha? Io lo so cosa direbbe lui: "Di che state parlando? Tutti fanno degli sbagli. Cos'hanno i miei di tanto peggio di quelli degli altri? Lasciatemi in pace!" La maggior parte delle persone non ci provano nemmeno, non arrivano da nessuna parte, non vivono. Chet era un bugiardo, un imbrglione, un figlio di puttana, ma almeno lo ha fatto. Milioni di persone a Wall Street vanno in bagno e si bucano con su il loro bel vestito e con molta meno rilevanza nelle loro vite. È l'assenza di anima contro l'anima. Ed è per questo che le persone gli gravitavano intorno. Lui sapeva davvero dove si dirigeva spiritualmente. Chet era uno spirito libero, il che significa che era in contatto con il suo spirito. (Ruth Young)
Renato (night passage)



11.4.05
Recensione inviata da Elisa Bolchi
Non occorre essere campioni di scacchi per apprezzare la fattura di una scacchiera in ebano e rovere, dalle pedine intagliate a mano e lucidate ad arte e rimanerne affascinati, allo stesso modo non occorre essere scacchisti per apprezzare l'opera prima di Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg. Non occorre, ma aiuta.
Dire che questo libro non parla d'altro che di scacchi sarebbe come affermare che gli scacchi sono un gioco come un altro, un passatempo qualsiasi. La storia di Tibory, di Frish e di Hans è una storia dettata da regole rigide e complesse, da piccoli spostamenti e mutazioni che sono però in grado di far crollare un impero. Il gioco degli scacchi domina la narrazione e un appassionato giocatore ne potrà assaporare le mosse, ne potrà accarezzare i pezzi con la mente, ma forse non abbastanza, la stessa variante di Lüneburg non viene mai descritta, le mosse non sono mai narrate, le caselle le sappiamo percorse da diversi pedoni senza mai conoscere il gioco preciso - mi chiedo se questo potrebbe irritare o scocciare un buon giocatore o se invece questa incertezza gli permetterebbe di compiere voli di fantasia ben più articolati, immaginando nella propria mente partite complesse ed estenuanti.
I brani puramente scacchistici non sono, però, il merito reale di quest'opera, sebbene ne rappresentino una larga percentuale. Il libro arriva al suo pieno sviluppo, non solo narrativo ma anche stilistico, nella seconda parte, quando la drammaticità della storia si fa largo con forza nella sicura realtà della scacchiera. Quello che in un primo momento avrebbe potuto sembrare un giallo si rivela essere un omaggio alla memoria, un'elegante metafora della vita che nel secolo appena trascorso giunse a perdere ogni consistenza e ogni dignità in quel dramma sovrumano che fu l'olocausto. Il gioco stesso degli scacchi diventa allora uno strumento di morte o di salvezza, e nulla appare strano, tutto può assumere una logica in un luogo come un campo di concentramento, che di logica è completamente privo.
Il romanzo è un chiasmo perfetto, le pedine della narrazione nella seconda parte trovano un riscontro perfetto nella prima, e quando ogni pezzo del puzzle viene collocato nella giusta casella tutto assume i colori giusti, tutto torna e quello che proviamo non è solo angoscia, rabbia, incredulità, ma anche una certa soddisfazione.
Un libro che inizia in sordina e che in più punti sono stata tentata di abbandonare, ma che si scopre poi perfettamente architettato e che rivela nelle pagine finali uno stile accurato, attento, elegante. Un'incredibile opera prima.
Elisa Bolchi



31.3.05
Recensione inviata da Dontyna
Appena ho finito di leggere Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber ero troppo sconvolta per scriverne. Così mi sono data un po' di tempo, ma l'effetto collaterale non è scomparso. Meno male, dato che parliamo di un libro che, uscito in Inghilterra nel 2002, ha venduto più di 4 milioni di copie ed è stato tradotto in 22 paesi (in italiano, da Elena Dal Pra e Monica Pareschi per Einaudi). Dunque almeno 4 milioni di lettori non si sono lasciati scoraggiare dalla mole del volume e hanno accettato l'invito del narratore, che si rivolge al lettore interloquendo direttamente con lui, a lasciarsi trasportare per 985 pagine nell'atmosfera vittoriana della Londra del 1875: "Attento. Tieni la testa a posto: ti servirà. La città in cui ti conduco è vasta e intricata, e tu non ci sei mai stato prima" [...] "All'inizio, quando mi hai scelto, non ti sei reso conto fino in fondo delle mie proporzioni, né ti aspettavi che ti avrei catturato così, e così in fretta".
Dopo questo incipit così allettante è facile perdersi incantati nelle storie dei protagonisti, seguendo il fruscio delle gonne di Sugar, seducente prostituta diciannovenne, per i vicoli sporchi di Church Lane o inciampando in qualche tappeto della sontuosa, ma inquietante dimora del ricco profumiere William Rackam a Notting Hill. La vita di questi affascinanti personaggi si intreccerà inevitabilmente quando Mr Rackam, invaghito dall'intelligenza e dalla maestria delle prestazioni sessuali di Sugar, le propone di giuragli fedeltà eterna diventando la sua mantenuta... Riga dopo riga l'intimità dei personaggi è violata dalla curiosità del lettore, prontamente soddisfatta dalla prosa accattivante dell'autore, che, dopo vent'anni di lavoro e ricerca, ha saputo ricreare al meglio il quadro della società vittoriana inglese dei bassifondi e delle alte sfere aristocratiche.
A libro concluso, vi asscuro che ne sentirete la mancanza e bramerete che la storia continui per altre 100, 200 pagine. Purtroppo, dovrete accontentarvi di rileggerlo e rileggerlo, aspettando forse il film o un seguito (improbabile) che il finale aperto lascia sperare.
dontyna (Coffeeee pleeasee!!!!)



30.3.05
Contributo inviato da b.georg

Antica amicizia elettrica. Omaggio, utilizzo, citazione, parodia, titolazione e link a Oblio, di D. F. Wallace.

Spesso diciamo cose tanto per dire, ma sulla superficie di quello che diciamo si mostrano i nostri modi di pensare, di collegare o separare le cose tra loro e con noi, in definitiva la nostra collocazione. È interessante e ozioso provare a ricostruirle quei modi, cioè smontarli. Oltretutto bisogna sapere che anche questo tentativo di ricostruzione è una cosa detta "tanto per dire", quindi non possiede una verità superiore, ma solo una verità interna, relativa alle regole di questa pratica (pensate che verità relativa sia un ossimoro? In effetti). Potrebbe, anzi dovrebbe, essere essa stessa sottoposta al medesimo trattamento (pensate che un insieme non può contenere se stesso, come fosse oltre il limite della propria definizione? Sembrerebbe proprio così).
Smontare discutendo (diversamente da montare narrando) è un gioco che si fa con celata leggerezza - o evidente pesantezza - e la sua utilità in genere è farci credere di disperdere la nostra inconsapevolezza rispetto agli schemi che usiamo, illuderci necessariamente di man mano scoprirli, recitarne la distanza da noi, e quindi ritrovarsi alla fine apparentemente senza schemi, nudi e che non sappiamo più cosa pensare. Uno strip poker del cervello. E una nudità che tuttavia coincide curiosamente con tutti gli abiti che indossiamo, o meglio: con la nostra possibilità di indossarli, e la riflette, la raccoglie, la lega. Di nuovo contraddizioni. Infatti non dico che funzioni sempre, anzi a ben vedere è un gioco che non funziona mai, per principio, e l'imperfezione è la sua regola di spostamento. Ma era necessario giocarlo. Almeno credo. Consiste nel rinunciare a costruirsi un passato di convenienza? O non è comunque sempre il futuro a determinare il passato?

Spesso invece invochiamo la sincerità. Io non sono tanto sicuro che la sincerità sia un valore. Ognuno sa piuttosto poco di se stesso; come dice il poeta, che qui le citazioni son sempre le stesse, "io sono quello che tra tutti non incontrerò mai" (eppure ne parla, no?). Quindi sincerità sembra che significhi: attingere a un grado più elaborato, anzi più tortuoso, di menzogna, o di costruzione se si preferisce. Costruire è una bella cosa, farlo tortuosamente forse no (che lenza...).
Se fosse davvero possibile essere "sinceri", non si dovrebbe infatti giungere molto presto al silenzio? Ammesso che al fondo non ci sia un nocciolo - un se stesso da sempre deciso - un grumo inesploso da dipanare con interminabile logorrea; piuttosto uno spazio vuoto, la non-cosa che ci permette di farci attraversare, di attraversare e di rimanere in qualche modo coesi, cioè di essere diversi da un sasso, ammesso che sappiamo davvero cosa sia un sasso.
Si arriverebbe a un curioso "silenzio parlante", che poi è stranamente proprio quello del sasso, o dell'animale o di noi stessi nel divenire sassi o animali o altro.

(e sai che stai scrivendo tutto questo perché ti si possa rinfacciare con disprezzo questa assurdità, ti si possa dire la vanagloria di una ricerca che non vuole ammettere la sconfitta, il fatto che hai cercato un significato in ogni cosa intorno a te materiale o ideale senza trovarlo, e poi in te stesso e in una narcisistica e presunta diversità dall'uomo medio comune, in certi aspetti cruciali e superiori, per così dire centrali, significativi, in un fantasticato talento che ti faceva destinato a far differenza nel mondo con la tua centralità presunta e prospettica, centralità costituita dal fatto di essere in realtà semplicemente il centro esatto di tutte le esperienze che hai vissuto nell'intero corso dei tuoi anni di vita cosciente, fino alla decisiva scoperta della tua inesistenza stessa come individuo giocato e destinato, più ancora della tua medietà incurabile, e allora hai deciso - questa è il centro dell'accusa cui ti sei apparecchiato - di cercarlo grossolanamente diremmo nelle non-cose, nel nulla, nell'assenza inutile e nello sfondamento, come se un significato a tutti i costi si potesse cavare dallo zero se non si può dall'uno; e sai soprattutto che stai scrivendo questa confessione verbosa tra parentesi per sviare ancor più le tracce usando smaccatamente le parole di un romanzo alla moda, tic di filosofi mai stati troppo di moda e altro ancora qui incastonato tra una riga e l'altra e rapinato persino dai giornali e ora come non bastasse - e infatti non bastava e l'hai detto - stai facendo conseguente e didascalica autodenuncia al plagio stesso, quasi ad alludere - e a smentire l'allusione col rivendicarla alla luce del sole - che tutta questa premura che dallo scritto trasuda verso una direzione possibile anche fosse una non direzione o la circospetta anatomia della propria direzione la stai torturando con tecniche da rigattiere post-moderno dentro lo scritto e rinviando all'infinito, la stai immergendo nell'incurabile inconcludenza e la mostri stupidamente fiero come il pescatore solleva in trionfo il pneumatico in disuso appeso all'amo, quando tutti se ne sono già andati via intoni il tuo estenuante karaoke)

Ma non è a questa sincerità che si pensa quando si invoca la sincerità.
Ciò cui si mira è un tentativo di scuoiarsi per vedere "cosa c'è sotto", e scuoiarsi è un'attività complicata, che oltretutto sporca il soggiorno. Ma "dentro" probabilmente non abbiamo segreti, solo gli organi interni, il dentro è tutto fatto di fuori. Ciò che ci accade e che siamo, è tutto in superficie, perfettamente visibile: una visibile e determinata modulazione di carne. Siamo già nella verità, e come non potremmo? Non serve cercare di entrare negli altri, dato che noi siamo già negli altri, e nel contempo separati da essi, da sempre o anche prima, oppure non sapremmo per esempio parlare o fare un sacco di altre cose che normalmente facciamo "con" gli altri, dentro e fuori dagli altri, tra cui primariamente desiderare, soffrire ed essere indifferenti.

È assai probabile che se tutti provassero a essere sinceri in questo secondo e vano modo, singhiozzando uno nelle braccia dell'altro a tarda sera e tirando fuori le paure private più terrificanti e i pensieri di fallimento e impotenza e le terribili piccinerie bell'e buone, denuncerebbero, "dietro" ai propri atti, sentimenti comuni: passione, invidia, vanagloria, paura, senso di vuoto, desiderio di compiutezza, piacere, narcisismo, pietà e così via. Non credo scoprirebbero niente di nuovo. Ora, questo sarebbe "vero"? Cioè: il vero di noi è ciò che ci fa coincidere con noi stessi? Detto diversamente: saremmo con ciò "più vicini" a noi stessi o agli altri? Ammesso che sia desiderabile: non è forse il permanere di una distanza ciò che permette di articolare una relazione? Potremmo scoprire le rispettive colpe o mancanze e i rispettivi punti di solidità, i pregi a cui cercare di somigliare o gli insormontabili difetti che ci condannano; ma cosa distinguerebbe questa volontà di sapere circa noi o gli altri, dalla volontà di possederli o possederci? E c'è impegno più complicato, tortuoso, impossibile e inutile che tentare di possedere qualcuno o se stessi?

Inventare un discorso su di sé per giungere a un "qualcosa", a un dato, a un "vero-di-sé" collocato dentro di noi che ci faccia permanere nell'essere che siamo, significa a ben vedere sottoporsi a un giudizio etico già deciso, già stabilito, già regnante e a cui si deve uniformare il discorso, su ciò che è bene e ciò che non lo è; e questo giudizio è una profezia che si avvera, cioè ci fa diventare ciò che il giudizio decide sia "essere una persona", quindi magari avere passioni negative, o positive o qualsiasi altra cosa. Niente di male, in sé.
Credo però che quell'attività prepotentemente tautologica che è la costruzione di comuni modi di vivere-assieme, non consista nello scoprire la rispettiva verità, che è già tutta alla luce del sole (o non sarebbe) ma nel costruire forme di transitare gli uni negli altri. Riti, se si vuole chiamarli così. Forme pienamente vuote. Agio, anche se spesso disagio.
Scrivere può anche essere uno di questi riti che, come gli altri, ci fa diventare ciò che già siamo, spostandoci tuttavia impercettibilmente di lato e aprendo una nuova distanza. Non per costruirci sopra la nostra sincera verità. Per distruggerla, magari.

Non ci sono ovunque serrature, né chiavi, solo porte girevoli e noi tra gli altri siamo queste porte. È sensato pensare che meno la porta è ostruita, più assolve alla sua funzione di transito. Scrivere è dunque forse un modo di scartare, e lo scritto è uno scarto. Quando lo diciamo bello è perché parla di sé (parlando d'altro) e piegato amorevolmente su di sé, si narra. Così possiamo alla fine persino amare noi stessi, e il nostro corpo che piega e segna il mondo, operazione la più ovvia e complicata di tutte.

b.georg (falso idillio)



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