Letture e riletture |
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impressioni o le proprie emozioni. |
24.6.04
Recensione inviata da Davide L. Malesi Rising up and Rising down, di William T. Vollmann Il libro di cui sto parlando è un libro che non può piacere a tutti: che non è concepito per piacere a tutti: e che mi guardo bene dal consigliare a tutti. È un libro, tecnicamente, difficile. Forse dovrei dire "opera" piuttosto che "libro", perché sono qualcosa come sette volumi in cofanetto, più di settemila pagine. È una lettura fisicamente ardua. È un testo sfinente. Non è un giudizio di gusto: è un fatto. Quest'opera è sfinente. Eppure io l'ho letta, sfidandone l'enormità e la pesantezza (in senso anche puramente fisico: sta in un cofanetto delle dimensioni di una cassetta per gli attrezzi). Ho fatto questo perché m'interessa l'argomento. L'argomento è la violenza, l'autore è William T. Vollmann e il titolo è Rising Up and Rising Down. Vollmann è uno dei cosiddetti "americani postmoderni" e di solito scrive roba che non m'interessa. Troppo grafomane, troppo pesante, troppo difficile. Lessico astruso. Mi piace però come personaggio: uno che va in pellegrinaggio nei luoghi di guerra più sporchi e bastardi del mondo, trascorre i migliori anni della sua vita in mezzo a ribelli e criminali, fa un reportage sui Talebani in cui ammette di essere affascinato dai fondamentalisti afghani e spiega il perché. Vollman ha scritto settemila pagine sulla violenza, affrontando l'argomento come a suo tempo Diderot e D'Alembert affrontarono l'idea di un'enciclopedia dello scibile umano. Cercando di esaminare ogni tipo possibile di violenza, dallo stupro alla guerra agli abusi sui minori. La cosa mi affascinava: e così ho letto Rising Up and Rising Down da cima a fondo. Chiarisco subito la faccenda: è una cosa da impallinati. Io sono quello che ha in libreria roba come Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico (1943-1945) di Alberto Santoni, tre volumi, più di milletrecento pagine. O La battaglia dell'Atlantico di Leonce Peillard, 637 pagine. La notte dei lunghi coltelli di Kemski. Storia della violenza sessuale di Pollack & Martin, 4 volumi, quasi duemila pagine. Robbery and Assault di Peter Brucke, storia dell'arte della rapina dal 1400 a oggi, 845 pagine. Le opere complete di Billy the Kid di Ondaatje. Breve storia dell'omicidio nell'età barocca di Halleck. La banalità del male della Harendt. Le battaglie che cambiarono il mondo di Sergio Masini. Vale a dire: m'interessa ogni tipo di violenza e la studio con passione. Insomma: se uno mi chiede consiglio su un libro da leggere, non gli dico di andarsi a cercare Rising Up and Rising Down di Vollmann. E poi costa 120 dollari. Però, se v'interessa sul serio la violenza, è una cosa da leggere. Rising Up and Rising Down è "il" libro sulla violenza, anzi il Libro della Violenza con la L e la V maiuscole. E va dato atto all'editore americano McSweeney's Books di aver fatto uscire un testo complicato, difficile da piazzare commercialmente, e profondamente complesso. Vale la pena di leggere Rising Up and Rising Down anche solo per il volume intititolato Giustificazioni alla difesa violenta. Un testo che può, in potenza, avere il peso e l'importanza del Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Vollmann salta dalla contemporaneità al passato remoto, affrontando i casi di Stalin e Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e della morte di Giulio Cesare, delle epurazioni fasciste e comuniste, dei "campi di rieducazione", della pulizia etnica. Non restano fuori le violenze domestiche, il sadismo, il masochismo e tutto ciò che ha una connessione anche remota con l'argomento "violenza". Impariamo a conoscere ranghi e rituali della mafia giapponese e vediamo in dettaglio quello che è successo nei campi di sterminio degli Khmer Rossi; scopriamo i retroscena del narcotraffico in Colombia e in Bolivia. Insomma, sì: una roba da impallinati, ma anche una sfida affascinante. Attualmente, Rising Up and Rising Down non è stato ancora tradotto: Mondadori ne pubblicherà un'edizione - ridotta, non si sa di quanto - dopo l'estate. davide l. malesi 19.6.04
Meir Shalev, La montagna blu, (traduzione di Elena Loewenthal per Frassinelli)
Un romanzo legato alla terra. Terra da bonificare e dissodare, terra in cui mettere radici e seppellire i morti. L'ambientazione è quella della Terra d'Israele, non ancora Stato, che accoglie con la sua generosa asperità l'ondata di pionieri sciamati dalla Russia all'inizio del secolo scorso. Attraverso storie individuali ancora permeate dal sentore della libertà di chi non ha confini né regole prestabilite, ma accomunate dai limiti o dalla grandezza della condizione umana, si sviluppa la doppia valenza dell'opera, che è insieme racconto di vicende particolari e simbolo di temi universali. La narrazione procede dal punto di vista di Baruch, eterno enorme bambino, orfano cresciuto dal mitico nonno ch'è figura imprescindibile per l'intera comunità e ancor più per il nipote, il cui corso del vivere continuerà a determinare anche dopo la sua dipartita. Tre generazioni contribuiscono e assistono alla crescita del villaggio senza però riuscire a mutarne la sostanza profonda, quella che trae l'essenza della sua connotazione dalla terra stessa. Terra che nutre, terra che chiama. Terra destinata all'agricoltura, terra usata per la sepoltura. Più del raccolto, redditizia sarà la raccolta di morti: quelli tornati a farsi inumare al Riposo del Pioniere. Legati alla terra, tutti, uomini e donne di questo romanzo agricolo. Legati alla terra che produce, alla terra causa ed effetto del vivere, alla terra che sfianca e uccide, alla terra simbolo e materia, che accoglie abbraccia e infine seppellisce. Dalla terra ci si stacca esclusivamente grazie all'amore, solo grazie ad esso il pensiero si libra e l'animo si fa leggero. L'amore viene mostrato in diverse accezioni e quasi nessuno sembra farvi eccezione, sia pure con diverse sfumature gustative che vanno dall'innocenza dell'amore innato tra infanti alla delusione dell'abbandono, dalla dolcezza spirituale dell'entusiasmo monogamico adorante a quella palatale di colei che abbandona il marito per un apicultore, dal sale delle lacrime per il distacco violento a quello per il rimpianto mai sopito, dal rassicurante sapore antico della dedizione tra nonno e nipote, con il salto di una generazione mutilata, a quello squieto ma divertito dell'insaziabile adulterio. Lo sfondo storico è vago: si sa di guerre lontane e di conflitti vicini, entrambi in grado di venire a strappare le carni vive nel cuore del villaggio. I pionieri, eroi della natura, si confrontano con una realtà fatta di terra e fango, di lotta contro le paludi, di fame, che la mitopoiesi del ricordo fa trascolorare in età dell'oro. Come nei midrash, il mito e la leggenda si fanno quotidianità e vengono osservati con mente raziocinante e non impressionabile dall'osservatore privilegiato che ne diviene voce narrante. Così, le persone restano tali, anche se sapevano far rifiorire magicamente un'intera coltivazione o portare in spalla un toro di diversi quintali. Di quelle figure, la comunità pare conservare il rimpianto più che il ricordo. L'atteggiamento rispecchia un rapporto conflittuale con il passato che in qualche modo coinvolge tutti i personaggi, i quali non riescono a staccarsi da ciò che è stato per accogliere e vivere pienamente ciò che è. Paradigmatica in tal senso la figura di Meshulam, ossessionato fino al feticismo e oltre, quando tentando di ricreare la palude, l'antica nemica, attua l'insano meccanismo di chi in fondo vuole ritrovare la sofferenza per sentirsi vivo. La montagna blu, presenza incombente ma mai invasiva, è una sorta di firmamento immobile, protezione ma anche isolamento. Al suo cospetto si susseguono costruzione e disfacimento, incanalamento e pazzia, dottrina e ribaltamento, regola e sregolatezza. Non vi si sfugge: e chi non è toccato dal salvifico amore può sottrarsi al fallimento solo mediante un abnorme distacco, possibile solo nella deformazione di chi anziché vivere in proprio racconta il vivere altrui e poi seppellisce tutti, come il romanziere quando chiude il cassetto. Giulio Pianese, ovvero Zu 9.6.04
Contributo inviato da Milena Pavano
Ho riletto dopo più di dieci anni Cent'anni di solitudine di Marquez, ritrovando tutta la magia del mondo racchiuso a Macondo. Non mi era rimasto quasi niente a livello di memoria dalla prima lettura, tranne il fascino di quel mondo triste e magico. Man mano che procedevo nella lettura, i fatti dimenticati riemergevano e insieme intatta la magia descrittiva di questo autore. Mi sento di dire che alcuni libri vanno necessariamente riletti in periodi diversi della nostra vita. Siete d'accordo? Milena 6.6.04
Recensione inviata da Alice Avallone Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche (a cura di Giovanna Spendel per Mondadori) L'infido connubio di acque e di marmi che oggi ha nome Leningrado e che nacque come San Pietroburgo, più familiarmente Piter, ebbe origine dal capriccio di un autocrate che volle prevalere sulla natura oltre che sugli uomini, e decise di costruire la capitale del proprio impero in una fangaia, esposta a maree, glaciazioni, alluvioni, tempeste di neve e periodici affossamenti. Il sogno di Pietro il Grande, che pose la prima pietra nel 1703, non fu abbandonato dai suoi successori, malgrado i lamenti e recriminazioni sull'infamia della località scelta; a Caterina II, che deplorava gli effetti del clima feroce sulla sua salute, un cortigiano altrettanto costipato rispose che non era colpa di Dio se gli uomini insistevano a costruire la capitale di un grande impero in un luogo destinato dalla natura a dimora di orsi e lupi. Nella prima metà dell'Ottocento, Pietroburgo era ormai sostanzialmente la città che possiamo ammirare oggi. Si estendeva su una superficie di un centinaio di chilometri quadrati, dispiegandosi a ventaglio lungo le braccia ramificate della Neva e comprendendo sei grandi isole naturali, una artificiale e una quantità di isolotti. Scenario immenso e grandioso, fondale ideale per le escogitazioni dei romanzieri: lo scintillo della Corte, il tumulto della metropoli, le imponenti quinte neoclassiche e barocche, il tocco esotico delle cupole a cipolla ortodosse, la babele di costumi russi ed ucraini, lettoni ed ebrei, finni e samoiedi, i mercanti tedeschi e i musicisti francesi, le uniformi sgargianti della guardia imperiale e le pellicce sontuose delle signore, le notti bianche d'estate, quando il sole non scende mai oltre la linea dell'orizzonte, e i cupi mesi invernali quando il giorno è poco più di un protratto crepuscolo; i ponti e i canali, la Neva gelata, le immense nevicate. Una città anfibia e teatrale, una Roma da Disneyland trapiantata fra le brume del Nord. Dostoevskij colse di questa strabiliane scenografia solo gli aspetti più cupi. La sua Pietroburgo è triste, grigia, umida, buia, percorsa da personaggi tormentati e straziati, umiliati e offesi, vili e meschini, vittime e delinquenti. Un'umanità sofferente e penosa, minata da tare palesi o nascoste, insidiata da mali morali e materiali preferibilmente vissuti senza colpa, un catalogo di miserie dilatato per migliaia di pagine al termine delle quali il lettore è in preda a una profonda sensazione di angoscia... Ed è in questa surreale città che vive Nastenka, una brunetta assai graziosa, con la nonna. A far da sfondo, una Neva color carta da zucchero e la fatale balaustra che accoglie i tristissimi slanci amorosi del Sognatore e i soprassalti della fanciulla diciassettenne. Il Sognatore resta da solo in città, senza amici, senza conoscenti, poiché in tanti anni che vive lì non è riuscito a crear alcun legame. Gli unici contatti da lui instaurati sono con i palazzi, con le strade di Pietroburgo. Il suo vivere distaccato dalla realtà, in un mondo etereo, termina quando, su un ponte della città, gli appare Nastenka, che diventa per lui l'essenza preziosa di quattro notti di illusioni, di compassione prima e poi di folle e innegabile amore. E a concludere tutto, ecco "Mattino", quasi a significare che la bellezza e il fascino delle notti era ingannevole e il risveglio è spesso una delusione. Lei era promessa a un altro giovane, che compare alla fine, frantumando la Vita del Sognatore. Alice Avallone
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