Letture e riletture


30.9.02
Oggi è San Gerolamo, traduttore e patrono dei traduttori.
Chi per devozione, gratitudine o superstizione volesse rendergli omaggio, potrebbe aprire un libricino scritto da Valéry Larbaud, Sous l’invocation de Saint Jérôme (Gallimard, 1946), in cui l'autore paragona la vita del traduttore a quella dell'asceta, per la concentrazione, la solitudine... e gli stenti.
In italiano il titolo, edito da Sellerio, è: Sotto la protezione di San Gerolamo, però ora non ce l'ho sottomano e non saprei menzionare... il nome di chi l'ha tradotto dal francese!



29.9.02
Segnalazione inviata da matteoc
Gore Vidal, La statua di sale
La statua di sale (titolo originale: The city and the pillar) è un libro che mi ha preso, ha stretto saldamente quella strana parte del corpo a metà tra il cervello e il cuore e anche adesso non vuole mollare la presa. Gore Vidal non ha bisogno di presentazioni, ma dire che questo romanzo è uscito nel 1948 non è soltanto fare una notazione cronologica. Nell'America puritana del '48 è uscito un romanzo omosessuale il cui protagonista, Jim Willard, non è affatto stereotipato. E questo è già molto.
Jim e Bob sono belli, giovani, atletici. Sono disegnati intorno ad archetipi olimpici e giocano a tennis in Virginia come potrebbero lanciare il giavellotto ad Atene. Si incontrano, passionalmente, per poi separarsi. Il romanzo narra proprio di questa separazione, che vede Jim rincorrere Bob, certo del loro legame, del suo amore.
Jim cresce lungo tutta la narrazione, matura, pur mostrando spesso agli altri un aria da "stupido ragazzo del sud", che gli consente di studiare il mondo e di non far scoprire ai suoi amanti il suo vero obiettivo, la ricerca del suo Bob. In questa ricerca lo imita, imbarcandosi come mozzo, poi prende una strada diversa quando a Hollywood si procura un ricco amante e quando poi parte per New York, teatro del finale, in compagnia di uno scrittore.
È attento Vidal quando mette in piedi il mondo gay, a tracciare le differenze tra i virili e gli effeminati, tra i notori e velati, in uno sforzo perfettamente riuscito di fuggire i cliché omosessuali per descrivere l'omosessualità così com'è.
Gore affronta in tempi non sospetti quel tema omossesuale, che poi sarebbe diventato un "genere", con lucidità e attenzione, tanto da ingannare la critica che identificava l'autore nel personaggio di Jim. Ma Vidal chiarisce che tra lui e Jim ci sono in comune soltanto alcuni luoghi.
Jim è presente in una forma costantemente appiattita dall'univocità e dalla cecità dei suoi intenti, a tratti scompare per mostrarsi unicamente costretto ad agire da una forza che ha fatto sua solo perché è il suo unico impulso vitale. Questo il seme che porta Jim a non comprendere, nel finale, come le cose siano potute andare in modo diverso da come aveva previsto.
Per qualche nota in più vi rimando alla prefazione (in pdf) dell'ottima edizione di Fazi (la traduzione è di Alessandra Osti) in cui Gore Vidal parla del rapporto con la critica, dell'importante svolta che questo romanzo ha avuto nella sua carriera, del rapporto con Isherwood e delle note trovate nei diari di Thomas Mann, a cui Vidal ammette volentieri di essersi ispirato.
Il libro non può che meritarsi il massimo dei voti.
matteoc




25.9.02
Segnalazione inviata da Sabina Moscatelli
Stimolata da uno scambio di epistole elettroniche con Giulio, segnalo uno dei libri che mi hanno fatto compagnia durante l'estate. Si tratta di Le Irregolari. Buenos Aires Horror Tour, di Massimo Carlotto, edizioni e/o.
Molti di noi probabilmente ricordano Massimo Carlotto in quanto protagonista di uno dei casi più controversi in cui la giustizia italiana si sia imbattuta (e per chi vuole saperne di più sull'odissea di un cittadino comune, consiglio Il Fuggiasco. Stesso autore, stessa casa editrice). Buenos Aires Horror Tour è il viaggio reale e metaforico di Carlotto nell'Argentina di oggi sulle tracce dei desaparecidos. In Argentina Carlotto incontra tra l'altro la fondatrice delle abuelas de Plaza de Mayo, Estela Carlotto (le cui vicende proprio in questi giorni sono tornate alla ribalta anche sui nostri quotidiani), sua lontana parente. Nelle notti argentine, lasciate le strade ufficiali, un misterioso autista lo preleva e con il suo vecchio autobus lo conduce nei luoghi in cui migliaia di giovani argentini hanno percorso il loro calvario, lungo uno spaventoso "horror tour", che sarebbe quasi metafisico, se non fosse maledettamente vero. L'autista, con il suo linguaggio scarno, racconta le vite spezzate dei giovani affogati nel delirio di potere della dittatura, come in una Spoon River argentina. Nel suo soggiorno in Argentina Carlotto porta con sé i suoni e gli autori che ama (memorabile la scena conclusiva in cui - assieme a Ricky Gianco - canta nella piazza davanti all'ESMA, la famigerata scuola militare trasformata in campo di tortura). Ce ne presenta altri, come la splendida voce di Mercedes Sosa (indimenticabile il suo concerto a Milano, lo scorso maggio).
Al termine del tour, il misterioso autista lo invita a tornare a casa, a rientrare in Italia, per raccontare a tutti gli orrori infiniti di una storia troppo a lungo dimenticata.
Sabina Moscatelli




24.9.02
Contributo inviato da TulipanoGiallo
Raymond Queneau, Exercices de style
All'indomani della fine del conflitto mondiale, nel 1947, Raymond Queneau pubblica il suo capolavoro, Exercices de style. È un libro che sembra interamente costruito come un divertissement, ma che è molto più di questo. Andiamo con ordine.
Queneau, autentico funambolo della lingua e del linguaggio, riscrive un unico testo più volte, ben 99, utilizzando stili diversi, così una stessa vicenda assume, nelle forme diverse del racconto, nuovi significati, nuove originalità. L'avvenimento è banale: in un autobus un uomo di giovane età, dotato di un collo troppo lungo e di un cappello ridicolo ha una discussione con un altro passeggero; dopo qualche ora ricompare in un altro posto e la persona con la quale sta conversando gli suggerisce di spostare un bottone del suo soprabito. Questa microstoria viene destrutturata, sezionata, stravolta, e infine ricomposta secondo 99 cifre stilistiche diverse: ad esempio in stile ampolloso, volgare, telegrafico, filosofico, scientifico, gastronomico, olfattivo, visivo, metaforico; oppure a ritroso o mutando più volte il punto di vista del narratore, in forma di lettera ufficiale, comunicato stampa, sonetto, breve commedia in tre atti.
Queneau mostra di aver fatto propria la lezione di Valéry, spingendosi alle estreme conseguenze di una visione iperlinguistica della letteratura, e intrecciando il discorso scientifico a quello narrativo, e così facendo, grazie all'artificio e alla bizzarria del gioco apparentemente fine a se stesso, compie in fondo un esperimento molto serio: sonda le potenzialità di una lingua e delle sue convenzioni letterarie. Lo stesso Italo Calvino disse a proposito delle invenzioni verbali di Raymond Queneau, che "Stabilire un confine tra esperimento e gioco è sempre stato difficile", ed in effetti l’autore francese, che usa l’esercizio di stile come una Variazione Goldberg bachiana, riduce il tecnicismo metalinguistico a una dimensione quotidiana e al tempo stesso diverte. Nell’edizione italiana dell’Einaudi, inoltre, il gustoso libro si arricchisce di un elemento in più, l’abilità e l’estro di Umberto Eco che approfitta dell'occasione non limitandosi ad una impeccabile traduzione, ma facendone un banco di prova per se stesso, superando il "maestro" in diversi punti. Del semiologo italiano è anche l’introduzione e la quarta di copertina del volumetto, e per i “puristi”, l’interpretazione di Eco è affiancata al testo originale in francese. Gli "esercizi" oltre ad essere piacevoli e divertenti da leggere sono un riferimento fondamentale per chi si confronta con la scrittura e con la lingua, sia per mestiere che per passione.
Rosy




Segnalazione inviata da Alberta Crescenzi
La scorsa domenica Roma mi ha regalato la scoperta di una minuscola libreria dedicata interamente al cinema. Non ho resistito e una volta entrata ho chiesto i libri sul mio regista preferito, François Truffaut. Fra i quattro-cinque che sfogliavo tenendoli sulla ginocchia ho scelto uno dal titolo Truffaut, il piacere della finzione, di Giorgio Tinazzi, edizioni Marsilio. Ogni capitolo affronta un particolare aspetto dei suoi film, ad esempio "luce", "sguardo", "racconto" e soprattutto "libro", "scrittura", "letteratura"... sentite cosa si legge a questo proposito:
Itard (il protagonista de Il ragazzo selvaggio) si affida come tanti altri personaggi alla scrittura; la quale, spesso, si materializza con un libro. Questo diventa quindi libro della memoria, con tutte le sue implicazioni. I libri sono il deposito irrinunciabile dell'esperienza: "non toccatelo... è il mio libro" grida Adele alla vicina che ha cercato di aprire la sua valigia. Poi, per proteggere il suo diario, si addormenta in posizione fetale, tenedo stretto a sé il suo bagaglio.

E ancora: il libro è soprattutto cumulo di memoria, e quindi di immaginazione; il fatto di essere momento tangibile di una eredità che non si può rifiutare trova in Fahrenheit 451 la sua celebrazione: "devo leggere, devo mettermi in pari con il rapporto con il passato" afferma Montag convertito.
Ma i passaggi degni di nota sono numerosi, invito con entusiasmo tutti i cinefili e soprattutto chi come me si è commossa davanti alla poesia di Truffaut, a correre a comprarlo.
Alberta Crescenzi, Roma




Parlando di libri e film, anzi, di libri e cinema, una menzione speciale va a un testo un po’ particolare, visto che si tratta dell’intervista di un regista a un altro regista:
Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut (tradotto in italiano da Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto).
È un’opera la cui importanza per la storia della critica cinematografica si può già misurare dalla considerazione nella quale solo dopo questa pubblicazione cominciò a essere tenuto Alfred Hitchcock, che in precedenza non veniva preso molto sul serio. Ma è soprattutto un grande libro sul cinema, frutto di lunghi e circostanziati colloqui tra due artisti consapevoli degli strumenti della propria arte.
C’è un passaggio in cui questo atteggiamento viene esemplificato splendidamente: si sta parlando del film La finestra sul cortile (con James Stewart e Grace Kelly)...
F.T. …la tecnica narrativa del film è eccellente. Si parte sul cortile addormentato, si passa sul viso di James Stewart che suda, sulla sua gamba ingessata, poi su un tavolo dove si vede la macchina fotografica rotta e una pila di riviste; sul muro, si vedono delle foto di automobili da corsa che si capovolgono. Solo in base a questo primo movimento della macchina da presa veniamo a sapere dove siamo, chi è il personaggio, qual è il suo mestiere e quello che gli è capitato.
A.H. È l’utilizzazione dei mezzi offerti al cinema per raccontare una storia. Mi interessa di più che se qualcuno avesse chiesto a Stewart: “Come si è rotto la gamba?”. Stewart avrebbe risposto: “Facevo una fotografia di una corsa automobilistica, una ruota si è staccata e mi è arrivata addosso”. Non è vero? Questa sarebbe la scena banale. Per me, il peccato capitale di uno sceneggiatore consiste, quando si discute una difficoltà, nell’evitare il problema dicendo: “Giustificheremo questa cosa con una riga di dialogo”. Il dialogo deve essere un rumore in mezzo agli altri, un rumore che esce dalla bocca e dai personaggi le cui azioni e sguardi raccontano una storia costruita attraverso immagini.
Per gli appassionati il testo si presta a una lettura godibilissima, ma risulta altrettanto valido come preziosa opera di consultazione.
Giulio Pianese, ovvero Zu



21.9.02
Segnalazione inviata da Alberta Crescenzi
A proposito di libri nei libri, vorrei segnalare e consigliare Antologia personale, di Primo Levi: è un florilegio di brani di libri da lui letti nel corso della vita. In particolare, consiglio di assaporare il brano tratto da Joseph Conrad e da A. de Saint-Exupéry perché una volta tanto non si tratta di un brano de Il Piccolo Principe (libro a mio avviso sopravvalutato).
Alberta Crescenzi




20.9.02
Letture e riletture di questa settimana.
Lettura: Diario di un killer sentimentale di Luis Sepúlveda (1996), sorbito d’un fiato nella traduzione di Ilide Carmignani (Guanda, 1998). Divertente e spiritoso, ma un po’ troppo fumettistico nella trama, bidimensionale nei personaggi e caricaturale nel trattamento. Scivola via molto piacevolmente, ma con poca pregnanza. Da segnalare però i dialoghi allo specchio di questo solipsista della vita mercenaria.
Rilettura: Punti di fuga di Pino Cacucci (Feltrinelli, 2000). Anche qui abbiamo a che fare con un sicario (un “killer per bisogno”, come dice l’autore nell’imperdibile Postfazione), ma testo e contesto sono di tutt’altra categoria. L’ambientazione è reale (se ne percepisce fisicamente la concretezza), i personaggi hanno un passato di uno spessore che si fa sentire anche nei velati e vaghi accenni, le vicende e le problematiche coinvolte hanno un sapore più vero. La scrittura si appiccica alla pelle e talvolta riesce anche a scavare dentro. È come un film girato in soggettiva, ma con una cinepresa in grado di captare e trasmettere anche odori e umori, sensazioni tattili e interiori, raccontando di vite dalle fioche speranze e dai molti tremori.
Giulio Pianese, ovvero Zu



19.9.02
Contributo inviato da matteoc
Quello con Dawn Powell è stato un incontro fortuito, Angeli a colazione (in originale: Angels on Toast) era in un palchetto di libri selezionati e consigliati dal libraio. Ben consigliati, aggiungo io, a lettura terminata.
Dawn Powell è nata nell'Ohio nel 1896 ed ha vissuto buona parte della sua vita al Village di New York. In vita ha goduto di scarsa fama letteraria, infatti la traduzione (di Alessandra Osti) e la pubblicazione dei suoi testi in Italia (a cura di Fazi Editore) si deve alla recente riscoperta di questa autrice da parte di Gore Vidal e Edmund Wilson.
Questa l'introduzione, per capire di chi parliamo e perché molti non avranno sentito nominare Dawn Powell. Ma a leggerla, e qui viene il bello, sembra proprio di aver vissuto male, di essersi persi qualcosa e, quando si è finito, non si può che chiederne ancora.
Angeli a colazione ci porta nel mondo degli affari americani a cavallo tra i '30 e i '40, introducendoci personaggi dalle alterne fortune, presi da una vita di incontri di lavoro, di drink, divisi tra la moglie e l'amante. Sono personaggi compiaciuti, fieri di essere vuoti, fieri di (credere di) saper celare alle mogli le proprie piccole malefatte, partecipi di un progresso e di una ricchezza che non comprendono.
Dawn Powell non risparmia nulla ai suoi due uomini d'affari, Lou Donovan e Jay Olivier, che per tutto il libro sono destinatari di una ironia leggera quanto pungente, che non li lascia in pace un momento sia nelle loro alcoliche trattative d'affari, sia nella loro vita privata ufficiale e non. L'autrice in un passaggio li definisce come persone "normali", cioè incapaci di non mettersi nei guai, specie se di mezzo c'è una donna, persone "che dicono una cosa e ne fanno un'altra, che avvertono chi gli sta vicino del pericolo mentre loro, invece, ci si tuffano dentro."
È un libro da gustarsi e da leggersi tutto d'un fiato, salvo interrompersi di tanto in tanto per ridere di gusto.
matteoc




13.9.02
Giorni fa avevo suggerito il filone tematico "libri nei libri (testi reali o immaginari menzionati in altri scritti letterari, testi autoreferenziali)".
A ispirare possibili interventi, o anche solo per rompere il ghiaccio, riporto la segnalazione fatta da Carlo Cosolo su Biblit: libri nei libri in Montalbano, a cura del Circolo culturale ricreativo Andrea Camilleri, ovvero Camilleri fans club.




10.9.02
Segnalazione inviata da Carlo Annese
Lungo il mio percorso sul tempo, presente e passato, tecnologia e memoria, sono letteralmente inciampato in Bambini nel tempo, pubblicato da Einaudi anche nei Tascabili, uno dei romanzi meno cupi e crudi di Ian McEwan, tra i suoi più visionari. Inciampo tardivo, essendo stato pubblicato nell'88, ma quanto mai opportuno in questa fase.
Per l'ottimismo sulla possibilità di recuperare il tempo perduto. Non tanto rileggendolo, anche a costo di sconcertanti sorprese (come avviene nel libro-film La forza del passato di Veronesi-Gay), ma riscrivendolo da zero, ricostruendolo ex novo sulle macerie di ciò che è stato. La citazione dai Quattro quartetti di Eliott è la sintesi perfetta: "Il tempo presente e il tempo passato / Son forse presenti entrambi nel tempo futuro. / E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato".
Ma anche per quel concetto di intensità del tempo, insito nella descrizione dell'incidente stradale a cui il protagonista scampa lucidamente. Più di altro, sono quei cinque secondi in cui la mente agisce e fa agire i muscoli e i riflessi e gli automatismi, per evitare lo schianto e la possibile morte la vera epifania del romanzo. Tutto può accadere in un tempo brevissimo. Tutto, di una portata enorme: così grande, da rendere incredibile che siano solo cinque secondi.
Carlo Annese



7.9.02
Contributo inviato da matteoc
Shanghai. Da questa città ci si aspetta fascino orientale e misticismo. In Shanghai Baby di Zhou Weihui la città cinese diventa invece identica ad una qualsiasi metropoli europea, non priva di un profumo antico, ma dominata dalla modernità. E in questa modernità si muove la protagonista, una scrittrice alle prese col mondo e con due uomini.
C'è qualcosa che disturba e affascina in Shanghai Baby di Zhou Weihui. Disturba il mondo metropolitan-fighetto che viene descritto così superficialmente. Disturba la traduzione italiana, che pur potendo essere peggiore, rende il testo più spigoloso del necessario (la ripetizione di "numeroso" e "innumerevole" può causare gravi danni neuronali, ma la traduttrice presumibilmente è cinese ed è quindi scusata; l'editore italiano, Rizzoli, invece di scusanti non ne ha). Disturba la trama, quella di una ragazza in bilico tra due uomini che rappresentano senza vie di mezzo da un lato l'amore puro e dall'altro il puro sesso. Disturba il fatto che la protagonista del libro stia scrivendo essa stessa un libro.
Ma tutto questo in Zhou Weihui affascina, oltre a disturbare.
Gli amici di Cocò (così si fa chiamare la protagonista) si manifestano nei momenti sociali di una Shanghai resa identica a Parigi o a Berlino, tra vernissage e discoteche trendy. Al di fuori di questo mondo patinato ci sono i suoi due amori. Da un lato Tantian, alto, angelico e impotente, è destinatario di un amore puro, non intaccato dal sesso, dall'altro Mark, affascinante businessman occidentale, rappresenta la passione fisica, sfrenata e libera.
Seppure tra le troppe immagini, sempre introdotte da stucchevoli "come un" o "come dei", l'autrice riesce a portarti in un mondo forse banale, ma non semplice. Nell'epilogo ci confida il carattere semi-autobiografico dell'opera, dando credito alla sensazione che i personaggi di cui è circondata Cocò siano solo riflessi di componenti della sua personalità.
Se si supera la noia delle prime cento pagine la storia inizia a vivere e il finale si fa leggere. L'importante è non fare caso alle mille citazioni che l'autrice mette all'inizio di ogni capitolo e in cui si deduce che il suo sforzo di imitare Henry Miller e i poeti beat è del tutto inutile, farebbe meglio ad abbassare il tiro e mirare ad autori più vicini alla sua sensibilità come l'orrendo Bret Easton Ellis.
Il grande successo della giovane autrice cinese non è da attribuirsi alla qualità del suo testo quanto alla censura cinese che le ha portato notorietà in patria e nel mondo. Altrimenti probabilmente non ne avremmo mai sentito parlare.
matteoc




5.9.02
Segnalazione inviata da TulipanoGiallo
About L'opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers.
Adoro Salinger. E quando un libro ti è entrato dentro come è successo a me con Il giovane Holden, ti capita di entusiasmarti per molti libri, di arrivare persino ad amarli. Ma difficilmente un’opera ti sconvolgerà i pensieri e la mente e la tua consapevolezza del mondo e di te stesso quanto quel romanzo che ti ha accompagnato per tutta la tua vita. È difficile certo, ma non impossibile. Ed è capitato proprio a me leggendo L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers. Si tratta di un’opera prima di un giovane scrittore del quale si sentirà parlare spesso in futuro e che anzi è già considerato il futuro della letteratura americana. È un romanzo autobiografico, 369 pagine di pura esperienza catartica. L’autore ci parla della sua vita, dei drammi che l’hanno segnata, e delle responsabilità che gli gravano sulla testa per via di questi drammi, ma mai, mai, mai, mai cerca la lacrima facile, o il melodramma o la pietà. Gli muoiono entrambi i genitori nel giro di un mese, e gli tocca di prendersi cura del piccolo Toph suo fratello minore. E allora fa l'unica cosa ragionevole che si possa fare, carica la macchina, sistema Toph nel sedile accanto al suo e comincia un viaggio al limite dell'inverosimile alla ricerca di qualcosa. O forse solo alla ricerca. Quando il tuo mondo crolla che altro puoi fare? Solo ricominciare da capo. Altrove. Tutto è condito con ironia, e cosa più importante con autoironia, umorismo, sarcasmo, capacità di prendersi sul serio nel faceto e di sdrammatizzare il tragico. C’è candore, innocenza e malizia, stupore e cinismo, tenerezza e crudeltà e soprattutto una disarmante sincerità. C’è dentro un’intera generazione di Holden. Forse solo un po’ meno arrabbiati e un po’ più rassegnati all’idea dell’impossibilità di cambiare il mondo. Solo un po’ però.
Rosy




4.9.02
Contributo inviato da Silvia Ganora
Mi piacciono entrambe le idee che hai lanciato, in particolare quella dei libri e film. Io avrei una mia piccola opinione per esempio su Il tè nel deserto di Paul Bowles e sul film che ne ha tratto Bertolucci. Ho amato il libro per le sue atmosfere, per il disincanto dei personaggi, per quell'aura di esotismo che si porta dietro.
Il film secondo me rende bene l'incomunicabilità fra i due coniugi, supportato anche dai bellissimi scenari 'desolati' e dalla fotografia di Storaro. Qualcuno lo ha trovato soporifero, ma a me piace ancora, forse proprio per i suoi lunghi silenzi. Una nota sulla protagonista Kit che nel film è molto diversa da come l'ha 'scritta' Bowles. La Winger (attrice ottima, secondo me) ne ha fatto un personaggio fragile, privo di quella patina di antipatia che caratterizza l'originale, e molto più intenso.
Sil




A un mese circa dall'apertura di questo spazio, ringrazio in modo particolare chi è intervenuto direttamente, ma anche chi partecipa seguendo l'iniziativa o vi contribuisce diffondendola (dandone notizia via e-mail o inserendo nel proprio sito un collegamento a questa pagina).

Accanto alle segnalazioni, riflessioni e precisazioni, che mi auguro continuino e si moltiplichino, mi piacerebbe stimolare altri filoni di interventi che eventualmente potrebbero avere il carattere della telegraficità (così da coinvolgere anche chi si ritiene troppo pigro o troppo indaffarato per scrivere a lungo).
Penso per esempio a:
- libri nei libri (testi reali o immaginari menzionati in altri scritti letterari, testi autoreferenziali);
- libri e film (i testi letterari e la cinematografia: le rese, le ispirazioni, le citazioni).

Inoltre, se vi va, continuate il giochino provando a rispondere al quesito:
"Quale titolo vi viene in mente se vi domandano a bruciapelo di esprimere una preferenza su tutte?"



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