Letture e riletture


29.12.08
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Dalla raccolta di racconti Il sogno di mia madre di Alice Munro (traduzione di Susanna Basso)
"Una donna di cuore"
Una tecnica che la Munro usa spesso sta nell'intrecciare tempi diversi del racconto, ricomponendoli ognuno attorno a un personaggio o a situazioni particolari. Il racconto è scandito in episodi (Jutland, Arresto cardiaco, Errore, Bugie) che si legano gli uni agli altri solo con l'evoluzione matura dei fatti narrati.
Jutland è il fiume in cui D. M. Willens, un anziano optometrista, viene ritrovato morto all'interno della propria auto. La minuziosa descrizione della vita familiare dei ragazzini che hanno ritrovato il cadavere e che poi escono definitivamente di scena è leva letteraria con cui la Munro lega il lettore all'ambiente in cui prenderanno spessore i fatti successivi.
Arresto cardiaco è il capitolo nel quale nascono i personaggi fondamentali del racconto: Enid e la signora Quinn, due giovani donne. Una assistente volontaria per un ex voto offerto al padre in agonia. L'altra, toccata da un brutto male, entra in scena già destinata a morire in poco tempo. Qui la Munro propone la svilente relazione tra il rancore verso la vita che abita la Quinn e la capacità o l'incapacità di accoglierlo dell'altra donna, quando addirittura non si tratti di un cinico e meditato conformismo di Enid dinanzi alle ultime necessità della moribonda. Estrema, com'è ogni verista rappresentazione del femminino proposto dall'autrice, quella relazione sembra intercettare due frustrazioni, due impotenze. In una si fa rancore e rabbia oggi liberate in forma di parola, testamento dei sentimenti inconfessati della Quinn. Nell'altra, Enid, la frustrazione per aver ceduto al ricatto paterno è passiva: sottomissione ai doveri caritatevoli, all'immagine di sé tanto diffusa tra la gente, fierezza di sua madre. Un'immagine alla quale Enid resta appiccicata e obbediente.
Errore. Qui si legano i due capitoli precedenti. L'uomo annegato torna nel racconto attraverso una sorta di confessione liberatoria sul letto di morte, un carico che la Quinn affibbia a Enid. O è solo per infettare con le sue ultime parole velenose anche l'immagine del marito che ne esce assassino? In verità non si è mai certi di cosa davvero sia accaduto nel fiume Jutland. Saranno veri gli approcci sessuali del sig. Willens nei confronti della Quinn, reali le violenze subite da lei in modo silenzioso e senza apparenti resistenze? Enid è dubbiosa, come pure il lettore riguardo alla scena che racconta l'omicidio.
Bugie. L'incertezza si fa regina nel finale. Il dubbio di Enid si risolve in assoluzione o in condanna della ormai defunta signora Quinn? Enid sceglie la vita e volge il dubbio in speranza. Prima ancora di credere o non credere, sceglie la vita: la propria, riscoprendo il desiderio per troppo tempo latitante in sogni osceni e improbabili rapporti sessuali, che oggi riconosce nell'osservare Rupert; quella degli altri, delle piccole figlie della defunta, dei parenti. La verità resta una sfumatura, ma c'è la certezza di una scelta. Un finale sul filo dell'eterna contraddizione fra un'etica astratta, forse a beneficio di nessuno (neppure la memoria della vittima ne uscirebbe onorata) e la necessità d'una vita che deve continuare. Soprattutto le giovani vite, quelle di chi non ha responsabilità e che un ottuso perseguimento, non della verità ma del suo contrappunto ideologico, avrebbe pesantemente compromesso.
Carlo Giuseppe Diana



23.12.08
Recensione inviata da Elisa Moschino
Domenico Cosentino, Meglio per tutti dare la colpa a me
Tanti piccoli tagli, queste sono le poesie di Cosentino. Anche se definirle poesie è riduttivo: meglio micro-racconti, come suggerisce lo stesso autore.
La poesia in Italia non vende, forse perché a scuola ci hanno sempre obbligati a leggerla. Poesie ormai lontane dal nostro modo di vivere, lontane dal pensiero dell'uomo moderno. Cosentino invece esce fuori dal seminato: urla rabbiose o dolci ninnananne, in questo libro troverete tutto.
Queste pagine sono l'autore, le sue esperienze in una Napoli famelica, che lascia poche speranze. Una Parigi dura, fredda. Ricordi che tornano e fanno male. Sensazioni crudeli mai sopite.
L'autore descrive il suo modo di vivere, persone che ha avuto la fortuna o spesso la sfortuna di conoscere e che hanno influenzato il suo presente. In lui vivo c'è però l'affetto familiare, l'amore, l'amicizia. Tutti sentimenti su cui fare forza nei momenti difficili.
L'ho letto in un'ora. Mi ha trasmesso ansia, ma anche tanta voglia di fare. Risollevarmi dopo ogni batosta che la vita ci regala quotidianamente.
Un libro che è anche sofferenza, odore di carta consumata, di lacrime mai versate.
Elisa Moschino



20.12.08
Recensione inviata da Black
Alberto Cola e Fabrizio Bianchini, Rotte clandestine
Una raccolta di racconti, molto eterogenea per stile, tematiche, generi, curata da due tra i più promettenti ed elogiati scrittori emergenti italiani.
Lo spettro narrativo è piuttosto ampio, tanto da costituire un buon esempio di vari generi letterari e dei rispettivi stili: horror, racconto d'azione, diario, racconto intimista, surreale, pulp, mainstream, denuncia sociale. Tra i temi trattati: l'eutanasia, la situazione delle carceri, la vendita di organi, la guerra, il tradimento, la morte, il suicidio.
Un filo che lega fra loro storie altrimenti così lontane lo si può ravvisare nel dolore. È infatti il dolore, fisico, mentale, emotivo, morale, del ricordo, vissuto o immaginato, della separazione o della rinuncia, l'elemento che mi è sembrato più di ogni altro predominare o comunque non essere mai assente. Sia che si trattasse di una storia vissuta, di un fatto storico o di una narrazione fantastica o persino ironica.
La bellezza del libro consiste nella qualità della scrittura, nella capacità di entrambi gli autori, seppur in maniere diverse, di evocare sentimenti e immagini, pur senza nominarli né descriverli. Stupisce, nel passare da un racconto all'altro, l'abilità con cui si possano sostenere (e a tali livelli) registri differenti e cambiare il proprio stile adeguandolo alle diverse forme narrative, nonché la ricerca e lo studio puntuale di notizie e informazioni che ha permesso la creazione di storie anche lontane nel tempo e nello spazio dalla realtà geografica e storica degli autori.
Un buon libro che unisce il pregio della qualità e facilità di lettura delle storie con la cura per la forma linguistica.
Black



26.11.08
Recensione inviata da Valeria Carboni
Alberto Samonà, Il padrone di casa
Il romanzo in pratica viene fuori dall'assemblaggio di dodici lettere che il protagonista scrive in altrettanti mesi dell'anno a un'amica di nome Anna. L'uomo cerca risposte e pone le proprie domande alla donna, ma la destinataria delle lettere resta in silenzio, mentre un ritmo circolare, evidenziato dalla mancanza di una risposta, contrassegna lo scorrere del tempo. La donna resta muta per tutto il libro, fino a quando, forse, si può incominciare a sentire la voce del "padrone di casa", il solo in grado di mettere ordine fra le mille altre voci che convivono nell'autore delle lettere.
Nel libro, l'estensore delle lettere è dipinto come un ricercatore addentro agli studi esoterici, che però a un certo punto – complice una causa esteriore – si rende conto di come abbia beatamente trascorso tutta la propria vita nel sonno, nell'appagamento dei propri ego, ingigantiti anche dagli studi iniziatici, nonostante lo scopo di questi fosse in origine ben diverso e cioè di "liberazione".
Il padrone di casa apparentemente non è un libro di esoterismo, ma sotto la forma della narrativa epistolare appare come un viaggio simbolico dentro di sé. Il punto di partenza è la condizione dell'uomo: il protagonista, infatti, pur conducendo una vita di successi intellettuali e sociali, sente un vuoto al proprio interno, condizione da cui incomincia la narrazione.
L'ammissione con se stesso di questa privazione e insieme la comprensione di una possibilità contrassegnano le pagine del romanzo.
Valeria Carboni



22.10.08
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Giampaolo Rugarli, Il buio di notte
Protagonista è il poliziotto Mario Rossi alle soglie della pensione nella città di Milano. Il romanzo è costruito su di una particolare architettura del racconto, quasi a voler evocare la funzione formale e amministrativa della scrittura e della parola: l'allegato. Il poliziotto è chiamato a indagare sulla morte poco chiara del vescovo Monsignor Azimont, prelato a capo di una fondazione benefica ma che in realtà si occupa d'ogni tipo di affare, dal commercio di armi a quello di droga, al riciclaggio di cibi scaduti, ecc. Il singolare nome della organizzazione che vale un presagio è anche tono della amara ironia che serpeggia in ogni accadere del romanzo: "In Hac Lacrimarum Valle". Cuore del sistema d'affari e del racconto è una potente finanziaria dove il denaro arriva per essere reinvestito in ulteriori business. Tutti i personaggi ruotano attorno alla fondazione che, a guardar bene, è pretesto narrativo per mettere a nudo l'abiezione umana, fuori d'un impossibile patteggiamento retorico. Ogni passaggio è un "allegato" alle memorie che Mario Rossi va scrivendo nell'ultimo periodo di servizio presso il suo commissariato. I ricordi di gioventù s'intrecciano alle vicende del caso Azimont. Ma neppure lì si scorge un contrappeso alla miseria umana che il corso dell'indagine svela col progredire. Anche nel rievocare gli anni più fervidi della sua vita, Rossi annota sullo stesso registro disillusione, amarezza e abuso materiale e morale della buona fede e dei sentimenti altrui.
Si potrebbe dire che sia il tradimento il vero protagonista: da come i diversi personaggi ne abusano fra loro, osservando quello del clero nei confronti degli stessi principi religiosi e umani su cui fonda. I tradimenti politici e amministrativi, poi, spiccano per la intrecciata complicità degli uni con gli altri a danno delle povertà più misere. Infine, anche l'amata Luisa che Mario Rossi non ha mai smesso di cercare, a volte nella pura fantasia, ha tradito. Lo ha fatto in modo così radicale che il suo nome ora indica un'altra persona. Un'altra Luisa congeda il lettore e infila una speranza nel buio di notte.
Pregio letterario potrebbe sicuramente annotarsi per i diversi stili usati nella trascrizione delle rispettive memorie dei personaggi principali, indirizzate alla vittima Azimont, da lui sollecitate quando ancora in vita. I testi entrano in possesso di Mario Rossi il quale, a sua volta, li riporta come "allegati" alle proprie memorie. In verità gli stili non sempre riescono a stabilire una convincente conformità alla struttura caratteriale del personaggio estensore e del suo vissuto. Ma il tentativo, a volte anche riuscito, è già in sé pregio d'una scrittura che, se eccede la forma del romanzo, non si lascia confinare in quella del diario e propone un'articolazione molto varia di elaborazione letteraria, consentendo al linguaggio "parlato" di assumere forte dignità nel testo scritto.
Il buio di notte può essere metafora quanto "In Hac Lacrimarum Valle", ma è anche una condizione periferica in cui diversi personaggi si rifugiano o tentano di farlo, come la vittima Azimont. È l'assenza di luce eccessiva, del bagliore centrale del potere che consente di riscoprire le stelle, una direzione, la speranza. È la risposta al cinismo disincantato, alla rassegnazione.
Carlo Giuseppe Diana



26.9.08
Nick Hornby, A Long Way Down
Questo mi è piaciuto molto. Quattro voci di altrettanti aspiranti suicidi costituiscono i pannelli narrativi di una storia che riserva parecchi momenti divertenti senza sforare nel grottesco, un assemblaggio stilistico interessante ma non artificioso, la capacità di presentare la realtà senza infiorarla e di esporne le fragili bellezze in modo implicito.
In italiano è uscito per Guanda nella traduzione di Massimo Bocchiola, con la stupenda reinvenzione del titolo Non buttiamoci giù.
Giulio Pianese, ovvero Zu



16.9.08
Recensione di moscafe
Alice Munro, Segreti svelati (traduzione di Marina Premoli)
Brevi storie cubiste
C'è qualcosa in questi racconti che lascia la sensazione che dovresti aver colto un significato diverso, ma quale? Spesso una frase lasciata lì quasi per caso spiazza completamente il lettore e costringe a ri-contestualizzare personaggi e luoghi, insomma, ogni racconto può essere riletto più volte con un'ottica diversa ogni volta, e alla fine ti domandi: cosa è successo veramente? Come se la bi-dimensione della scrittura sulla pagina tentasse di riassumere tutte le prospettive possibili con cui frammenti di vita posso essere vissuti. Sicuramente a questo concorre uno stile di scrittura sincopato, che passa da sequenze epistolari a sfasature temporali, assoli strumentali che si alternano a interpretare un unico motivo di fondo. Che è forse il potenziale trasgressivo dei personaggi femminili, a volte represso, a volte scatenato apertamente, a volte incanalato in bugie di una vita intera. Una quantità di energia potenzialmente devastante, che sempre comunque si lascia dipendere dal personaggio maschile di turno, spesso l'inconsapevole detonatore, il paletto attorno a cui prendi una curva, la buca che ti manda fuori strada. Forse.
moscafe



14.8.08
Fred Vargas, Nei boschi eterni (traduzione di Margherita Botto per Einaudi, 2007)
Noir coinvolgente e godibile, di presa immediata ma tutt'altro che banale, sia per l'intreccio sia per le costruzioni psicologiche rivelate attraverso i comportamenti. È il mio primo avvicinamento alla Vargas, ma non ho avuto difficoltà ad ambientarmi nel variegato mondo dei suoi personaggi.
Giulio Pianese, ovvero Zu



31.7.08
Diego De Silva, Non avevo capito niente
Sono stato lettore voglioso di questo breve romanzo divertente e filosofico, ironico e sudato d'umanità, moderno nella sua specificità, linguisticamente accattivante per la napoletanità non oleografica. Questo Diego De Silva ti fa infatuare dei suoi personaggi, nel senso che tra vicende e tiritere non vedi l'ora di reincontrarli, di sapere che succederà o che faranno succedere, ma ti tiene in pugno anche durante le digressioni, aneddotiche e morali.
Giulio Pianese, ovvero Zu



29.7.08
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Zygmunt Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido (traduzione di Savino D'Amico)
È l'analisi dell'utopia, partendo da Utopia di Tommaso Moro. La sottolineatura della linea di demarcazione fra mondo premoderno e modernità è affidata all'idea di cambiamento, al sentimento di speranza, assente in un mondo piatto dai confini fisici e psicologici definiti. L'utopia è l'incunearsi di un progetto di cambiamento capace di sovvertire il sentimento di rassegnazione. Di questo aspetto Bauman non dice apertamente, ma va da sé che la fine del medioevo arriva da Nord, strettamente legata al larghissimo consenso di Lutero e Calvino. Riforma e Controriforma segnano lo spartiacque di due epoche. Rinascimento e Barocco sono la rappresentazione matura di comportamenti sociali ed espressioni artistiche costruiti per alcuni decenni sulla speranza. Speranza che un cambiamento sia possibile, utopia di una vita migliore per tutti. Bauman tratteggia le figure di "guardiacaccia" e "giardiniere" come metafore di comportamenti sociali. Il primo riguarda l'attività di conservazione dell'esistente, propria del premoderno, nell'idea che tutto sia già in equilibrio e il male e il bene equamente distribuiti secondo previsione di natura benedetta da Dio. Il giardiniere vi si contrappone. Nella modernità, egli esalta l'autonomia umana e la scelta d'un progetto che modifichi gli assetti naturali. Ma se la storia sentenzia che nessuna utopia si è mai realizzata, scrive anche i successi di quella tensione ideale pur mai realizzata. L'attività del giardiniere, per quanto arbitraria e dissacrante (o forse proprio per quello) innesta cariche psichiche individuali e collettive capaci di svegliare propensioni psicologiche assopite e frustrate per secoli. Il medioevo va oltre la rassegnazione, divinizza gli immutabili equilibri di natura disegnando la figura di parassita psicologico adottato da un femminino mortifero (madre natura immutabile) che destina l'uomo a stanziarsi, lo ferma, lo condanna al rachitismo culturale e lo schiaccia nella sua immutabile condizione di nascita. Le utopie però sembrano potersi coltivare finchè l'istanza è rivolta a un'autorità che può rispondere. Per tutta la modernità e nell'epoca contemporanea, lo stato nazionale ha rappresentato l'interlocutore finale e l'arbitro di ogni rivendicazione sociale, di qualsiasi progetto di cambiamento. La post-modernità segna la cessione graduale di quote di sovranità nazionale a organismi sovranazionali e sposta i centri decisionali fuori dal contesto sociale dove il conflitto si consuma. A una rivendicazione locale si risponde con una norma europea; contro una rivendicazione di salvaguardia del diritto all'acqua potabile in un paesino, si dispone l'intera strategia organizzativa della Banca Mondiale. I comportamenti sociali nell'epoca della globalizzazione devono scontare questa asimmetria spaziale tra domanda sociale e risposta istituzionale. L'autorità pubblica nazionale è vissuta essenzialmente per la sua funzione burocratica. Ha perso l'autorevolezza insita nella sua funzione pubblica, degradata a ruolo notarile. Le domande sociali, pure a forte contenuto utopico, vengono ricacciate nel privato, dove irrimediabilmente impoveriscono. Cittadini tendono a rimpicciolire in consumatori, utenti e clienti. L'attività di progettazione della utopia rinsecchisce in quella del "cacciatore". Da guardiacaccia della natura immutabile a giardiniere d'una esistenza tutta da costruire e progettare, l'uomo postmoderno si fa cacciatore di possibilità apparentemente infinite. Deve competere con un infinito numero di altri cacciatori. Se boschi e foreste in realtà infiniti non sono, non se ne cura, il problema non è suo. Misura il futuro come fanno i bambini, a ore, a giorni. Finchè avrà una mosca zoppicante da catturare, il cacciatore del terzo millennio non riuscirà a connettere il problema delle risorse al tempo. Non avrà un progetto che ecceda il proprio immediato appetito, non un'idea di costruzione faticosa di un altro modo di vivere, neppure un incontro con l'altro fuori dagli ipermercati di merci e al di là dei bazar del divertimento.
E se diffusamente si parla di utopia come di "irrazionale", "impraticabile", "irrealistico", "irragionevole", non è solo un segnale di preoccupante scadimento linguistico o di malizioso slittamento semantico. Hannah Arendt nel suo Vita activa smaschera tutta l'attività linguistica concentrata sui mutamenti dei significati delle parole e del senso di esse, puntualmente preceduta a sovvertimenti nel mondo del lavoro, nelle disposizioni legislative, nel campo dei diritti umani e sociali. Se l'utopia viene relegata nel novero di attività irrazionali, è probabile che presto dovranno incriminare poeti e comici, attori e pittori. Poiché neppure una forma artistica non allineata ai criteri di economicità insiti nell'attività del "cacciatore" può essere tollerata in una società senza utopia.
Carlo Giuseppe Diana



15.6.08
Contributo inviato da Milena Pavano
Ho appena completato la lettura di La nuova vita, di Orhan Pamuk, nella traduzione di Semsa Gezgin e Marta Bertolini. Dopo aver letto anche Il mio nome è rosso, mi sembra di avere individuato quella vena di malinconia per un mondo, quello turco, sopraffatto dall'occidente. Nello stesso tempo mi sembra che sia forte nello scrittore la speranza di una rinascita dei valori della sua civiltà. Tutto questo in una prosa ricca, a tratti piacevole. Non manca però l'aspetto un poco delirante per la ricerca di una vita nuova, di un angelo che alla fine si materializza nella premonzione della morte imminente, quando il protagonista era sul punto di accettare la sua vita, l'unica pur nei suoi limiti angusti.
Milena Pavano



31.5.08
Sara Gruen, Water for Elephants
Forte, commovente, autentico. La narrazione si alterna tra due diversi scenari cronologici e ambientali: il circo degli anni '30, una casa di riposo dei nostri giorni. La voce però è unica e sa parlare di vita e di morte, tempi duri e amicizia vera, odio e ira, amore e passione, in un modo che non manca di catturare il lettore fino all'ultimissima riga, come minimo.
Giulio Pianese, ovvero Zu



30.4.08
Contributo di Anna N.
Yorick, La corte dei miracoli
Disponibile PDF liberamente scaricabile / Acquistabile in cartaceo su web (6 euro)
La corte dei miracoli è un libro molto leggero, si compone di poco più di cinquanta pagine, ognuna contenente un brevissimo racconto, quasi una fotografia, che ritrae personaggi diversi, scorci diversi di una città popolata da fantasmi, poveri, demoni e santi.
Non ci sono riferimenti geografici, non ci sono nomi né date: tutto viene lasciato sospeso in un'epoca senza tempo, in un limbo tra veglia e sogno, dove non si capisce mai quale sia davvero il confine tra ciò che l'autore descrive e ciò che invece immagina, tra ciò che vive e vede, e ciò che invece immagina soltanto. È questa una scelta consapevole, come risulta chiaro sin da una prima rapida scorsa alle storie: tutte sono studiate per lasciare quel mistero, quell'alone di magia che le avvicina alle favole, elevandole a poesia anche quando si ispirano a realtà di decadenza e bassezza morale.
Il soggetto narrante è l'autore stesso, che racconta in ogni pagina qualcosa che ha visto: di lui si scopre tuttavia ben poco, nonostante questo. La narrazione è oggettiva, infiorata di ritocchi e accorgimenti tecnici e metrici, ma quasi mai estesa fino ai sentimenti dell'io narrante. L'autore, del resto, non si presenta che con uno pseudonimo, un "nickname" shakespeariano, e non ci regala neppure due righe di biografia sul retro della copertina.
Questo è un testo che va trattato più come una raccolta di poesie che come narrativa. Vanno apprezzati i termini, la costruzione spesso ricercata, spesso inusuale delle frasi e dei paragrafi, che tende, come tutto, a emozionare, toccare, comunicare le emozioni nel modo più forte possibile.
Di particolare rilevanza, nell'insieme dei racconti brevi, sono a mio avviso "L'ultimo bacio" e "La corte dei miracoli" (che dona il titolo alla raccolta): costituiscono il primo e l'ultimo elemento del libro e sono dotati di una forza evocativa e di un repertorio d'immagini di rara forza ed espressività.
Anna N.



28.3.08
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, Le amicizie pericolose (traduzione di Fernando Palazzi) - e-book gratuito
Pubblicato da Choderlos de Laclos nel 1782, Le relazioni pericolose è un grande romanzo epistolare che, attraverso l'azione dirompente di Valmont e della marchesa di Merteuil, mira al cuore di una società profondamente corrotta.
In una Francia di fine Settecento in cui gli sguardi queruli dei salotti aristocratici hanno preso il posto della coscienza individuale, e la religione è intesa come estrema misura repressiva della sensualità femminile, Choderlos de Laclos libera l'energia sovrana dei suoi due libertini, terroristi delle passioni che sfruttano posizione sociale, armi retoriche e seduttive per portare vergogna dovunque avvertano il lezzo stantio della "virtù".
Se la presidentessa di Tourvel, ultima preda di Valmont, si aggrappa alla preghiera solo per sfuggire alla tentazione dell'adulterio, Madame Merteuil si attiene rigorosamente a una propria perversa scala di valori. Tuttavia, la sua è una figura eroica soltanto a metà, perché non c'è vera emancipazione in una donna che riduce il libertinaggio a una vendetta.
Madame Merteuil e Valmont hanno il destino tragico di certi personaggi dostoevskiani, a un tempo troppo grandi e fragili per adattarsi alla volgarità terrena. La seduzione praticata in modo seriale, che si fa beffe delle stesse regole osservate nelle occasioni mondane, ha il buon sapore del libero arbitrio. L'errore di entrambi è però quello di credersi immuni alle passioni che scatenano nelle loro vittime. La vanità li costringe a fare a meno dell'amore e a scatenarsi l'uno contro l'altro come capricciosi dei, rompendo un'intesa indispensabile alla loro stessa sopravvivenza.
Matteo Ferrario



29.2.08
Recensione di Massimo Morelli
Le Ton Beau de Marot, di Douglas Hofstadter è un libro bellissimo. Difficile però anche descrivere di cosa parla.
La scusa è la traduzione di una piccola e graziosa poesia di Clemént Marot, un poeta francese del sedicesimo secolo. La poesia è tradotta decine di volte, in decine di varianti, in varie lingue e dà l'opportunità di parlare della traduzione, della poesia del linguaggio e del linguaggio della poesia. In pratica D. H. parla di quel che gli pare, compresa la scomparsa della moglie che amava tantissimo.
Tradurre è un'operazione tutt'altro che meccanica, come ben si sono accorti quelli che hanno tentato di realizzare strumenti per la sua automazione. Trasporre, trovare analogie, trovare cosa mantenere dello spirito originale quando ci si porta in un diverso schema di riferimento (un diverso linguaggio, una diversa cultura, un diverso tempo) rappresenta una delle attività che meglio definiscono l'intelligenza. Ma questa loffia descrizione non rende giustizia alle seicento pagine di questo libro affascinante, che è persino bello esteticamente, senza una parola fuori posto. Non so quale valore abbiano le ricerche di Hofstadter nel campo dell'AI, ma so che è uno scrittore eccezionale.
Questo libro non sarà mai tradotto, lo scrive lui stesso a pag. 450 e per tre motivi. Primo, il libro è pieno di giochi linguistici, spesso basati sulla traduzione da e verso l'inglese. Secondo, la spina dorsale del libro è composta da una settantina di traduzioni della poesia di Marot dal francese all'inglese, con varianti dal francese alla lingua x e di nuovo all'inglese. Terzo, è un libro fortemente autobiografico, basato sulle riflessioni linguistiche dell'autore. Quindi non lo leggerai mai in italiano, ma se sai l'inglese abbastanza bene, leggerlo è un piacere che non ti puoi negare. Il miglior libro del 2007 e anche del 2008.
Massimo Morelli



31.1.08
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Karen Duve, Romanzo della pioggia (traduzione di Gabriella Rovagnati, 2003)
Il romanzo d'esordio della tedesca Karen Duve, disillusa cronista delle miserie maschili ma non per questo più tenera con le donne, si blocca a metà strada fra onesto intrattenimento e riflessione esistenziale.
La carta meteorologica viene giocata fin dall'incipit, con una pioggia battente che accoglie i novelli sposi nella zona paludosa dell'ex Germania Est in cui hanno deciso di trasferirsi.
La coppia messa alla prova da un rapporto malato con i nuovi vicini è un tema già affrontato con risultati notevoli da Ian McEwan in Cortesie per gli ospiti, i cui protagonisti volavano però a ben altra quota rispetto ai tipi da fiction televisiva cui si affida l'autrice di Romanzo della pioggia, più adatti a un racconto dall'azione tambureggiante o un thriller senza particolare scavo psicologico.
Leon è credibile sia come ultratrentenne maschio occidentale di media codardia che come scrittore morto di fame. Di lui interessano soprattutto il senso di inferiorità fisica e il desiderio di piacere a uomini d'azione come l'amico Harry e il losco ex pugile Benno Fitzner di cui accetta di scrivere la biografia, ricavandone il denaro necessario per l'acquisto della casa.
Martina, bellezza scheletrica che nei disordini alimentari cerca un'espiazione un po' meccanica al rapporto irrisolto col padre, stupisce invece per la sua inconsistenza e si dimostra preziosa solo per mettere in luce un altro aspetto di Leon: l'atteggiamento nei confronti della moglie in presenza degli uomini che lo tengono soggiogato.
Più che ai problemi della ragazza con la sua famiglia di origine, l'autrice pare insomma interessata alle nefandezze del maschio e in particolare a quelle dello scrittore, di cui ci regala una definizione spietata: "Non stare a dirmi che cos'è uno scrittore. Lo so cos'è uno scrittore," disse Fitzner. "Uno scrittore è uno che non riesce a cacare perché sta seduto tutto il giorno davanti alla macchina per scrivere e non si muove mai da lì. E invece di alzarsi a fare un paio di giri di corsa intorno all'isolato, rimane seduto a scrivere del fatto che non riesce a cacare."
Le due sorelle Kai e Isadora individuano gli opposti dialettici entro cui oscilla il tormentato rapporto col cibo e la figura umana dei personaggi principali. Il tema è tutt'altro che marginale anche in un'altra storia di cattivo vicinato come Le catilinarie di Amélie Nothomb, che però ha ridotto all'osso gli elementi della sua letteratura e li sviluppa senza indugi in novelle scritte col pilota automatico.
Karen Duve invece rallenta, si appoggia a lunghi flashback e suggestioni olfattive, insegue simbolismi e implicazioni freudiane nelle estenuanti traversate della palude, e al lettore non lascia molto più di qualche scena ben costruita.
Matteo Ferrario



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