Letture e riletture


24.7.03
Recensione inviata da L'intercapedine
Igiene dell'assassino, di Amélie Nothomb (traduzione di Bruno Biancamaria)
La particolarità di questo romanzo, che tra l'altro è uno dei motivi che mi ha incuriosito e spinto a leggerlo, è di essere composto quasi per intero da dialoghi; le parti descrittive sono quasi assenti e non occupano più di qualche facciata. In pratica è come se non esistesse un narratore e l'effetto per lo più è quello di stare ascoltando in cuffia delle interviste registrate.
Infatti anche nella finzione romanzesca, si tratta proprio di interviste; al famoso scrittore ottantenne Prétextat Tach, già premio Nobel e che fino a quel momento si era reso inavvicinabile conducendo un'esistenza ritirata e solitaria, viene diagnosticata una rara malattia che gli lascerà soltanto un paio di mesi di vita. L'ultraottantenne in vista della sua dipartita decide di fissare cinque incontri con altrettanti giornalisti per lasciarsi intervistare. Tutti gli inviati di sesso maschile vengono annientati dalle capacità retoriche dello scrittore e dalla sua voglia di prendersi gioco di loro, demolendoli verbalmente; soltanto Nina, nonostante l'ottuagenario non faccia mistero di nutrire un odio profondo nei confronti di tutto il genere femminile, riuscirà a tenergli testa riportando alla luce il suo passato inquietante ed i suoi pensieri latenti.
Il modo in cui è strutturato il romanzo, e cioè l'infinita serie di "botta e risposta", porta ad una lettura rapida ed estremamente scorrevole. Tutto scivola via veloce e sull'onda di questa spigliatezza sembra poter accadere di tutto. Non avevo mai letto nulla di simile... Di scontato questo libro ha ben poco. Peccato per il finale troppo brusco e precipitoso.
scintilla




22.7.03
Impressioni inviate da Massimo Morelli
Ebbene, alla fine ho letto anch'io Dave Eggers, L'opera struggente di un formidabile genio (tradotto da Giuseppe Strazzeri). Se ne parla molto in giro ed è consigliato da amici che ritenevo ;) affidabili. È persino citato nell'ultimo libro di Hornby.
È un pacco colossale.
Da un punto di vista strettamente personale credo di aver letto pochi libri più brutti di questo. Se escludiamo la prefazione, che non è male, e qualche ragionamento originale (che nella noia montante ha evitato accuratamente di rimanere impresso nei miei neuroni) si tratta del resoconto inutile della vita noiosa di personaggi insignificanti.
Dopo le prime cento pagine, se non fosse stato per le raccomandazioni e per l'assottigliarsi pericoloso della collezione di libri da mare, l'avrei certamente archiviato per sempre. Verso metà ho cominciato a sperare in un asteroide che venisse a portare allegria sterminando questa banda di pomposi fancazzisti (puntato particolarmente verso il fratellino stronzetto). Verso la fine le signore degli ombrelloni intorno si sono allarmate mentre auguravo ad alta voce all'allegra combriccola un soggiorno in miniera. E starci.
Lo so che la megalomania e la leggerezza dovrebbero risultare simpatiche, ma non fatemi dire cosa avrei fatto con il fresbee di cui il buon Dave (fosse colpito da blocco dello scrittore) ci descrive (e non una volta sola) le struggenti evoluzioni.
Di formidabile qui c'è lo spreco di ottima cellulosa. Non so se si è capito ma non mi è piaciuto.
Massimo Morelli




17.7.03
Recensione inviata da moscafe
Ho scoperto un giorno Ian McEwan, per caso mentre non lo stavo cercando, e devo rigraziare per questo un'amica che voleva disfarsi di Lettera a Berlino, libro entrato subito nella mia top chart (una forma di bookcrossing ante litteram, solo che poi il libro si è fermato sui miei scaffali e da lì non si è più mosso...).
Quello di cui voglio parlare però è L'inventore di sogni - The Daydreamer (trad.it. Susanna Basso) - un libriccino apparentemente innocuo, e se conoscete McEwan capite cosa voglio dire. Al punto che ad ogni mezza pagina ci si aspetta di veder irrompere la ben nota angoscia, l'orrore travestito di normalità, la perversione formato famiglia. Invece no. E probabilmente a un neo-lettore di McEwan può sembrare solo una serie di sogni ad occhi aperti del bambino Peter Fortune, tanti racconti legati dal filo conduttore della metamorfosi, del cambiamento, e della doppia identità di cose, persone, animali. Eppure da ogni pagina traspare una morbosità quasi impercettibile, come l'odore di zolfo che preannuncia il diavolo, come se McEwan si divertisse a tenerci in sospeso, tentato ad ogni capoverso di far precipitare la situazione da favola a incubo. Ho trovato magnifica la capacità di passare inavvertitamente dalla realtà al sogno, di farti attraversare lo specchio e trasportarti in un mondo parallelo: quando te ne rendi conto sei ormai nelle sue mani. Non saprei scegliere fra i racconti del libro, di certo il gatto Peter vorrei averlo inventato io.
moscafe



14.7.03
Recensione inviata da Ranafatata
La camera azzurra di Georges Simenon
(Titolo originale: La chambre bleue. Traduzione di Marina Di Leo)
“Era vero. In quel momento era tutto vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo era tutto vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto…”.
Due amanti, una camera azzurra, un pomeriggio di agosto. Sin dalle prime righe il lettore ha l’impressione che la scena raccontata sia un flashback e, quasi immediatamente, gli appare chiaro che gli eventi devono aver preso una piega singolare; dopo un paio di pagine, è evidente che c’è un’inchiesta in corso. Il lettore, però, non sa che cosa sia accaduto, né per quale motivo il protagonista sia coinvolto in una serie di interrogatori.
Così, i ricordi e i racconti di Tony si intrecciano con le domande di uno psichiatra, di un avvocato, di un giudice istruttore che suscitano, a loro volta, nuove riflessioni. A poco a poco, la storia-puzzle si arricchisce di nuovi tasselli, di nuovi particolari, conducendo il lettore alla scoperta di quanto accaduto e, poi, alla conclusione del processo.
È la storia di un amore/non-amore totalizzante e cieco, ma quello che, a parer mio, colpisce e affascina è questo attrarre il lettore nella narrazione senza svelare quale sia stato il corso degli eventi, proponendo la soluzione per gradi, quasi incidentalmente, come se non fosse poi così importante.
ranafatata




10.7.03
Recensione inviata da Squonk
31 canzoni - Nick Hornby
Bisogna aver coraggio, a scrivere un libro come questo. Perché ci son poche cose come la musica, e più ancora le canzoni, alle quali ci attacchiamo come sanguisughe. Devi avere il coraggio di far capire che non stai scrivendo di "quella" canzone, ma stai scrivendo della Musica, e di ciò che significa per te. Da lettore, devi avere il coraggio di capire che lo scrittore non ti sta sfidando, non ti sta dicendo che le canzoni che lui ascolta sono le migliori canzoni mai scritte. No, non è facile, perchè parlare (o scrivere) di musica è come parlare (o scrivere) di politica, o di calcio: è facile buttarla in rissa.
Ecco, tutto questo non accade in 31 canzoni. Finisci il libro e, dopo i primi trenta secondi passati a chiederti che razza di musica ascolta Nick Hornby, vorresti semplicemente trovarti in un pub in sua compagnia, ad ascoltare il gruppo sul palco; niente di più, niente di meno, perchè 31 canzoni è, semplicemente, una lunga e splendida dichiarazione d'amore per il pop.
Squonk




8.7.03
Impressioni inviate da frammento
Ho appena terminato il delizioso Vita di Pi, di Yann Martel: a tratti rivoltante, specialmente per chi è vegetariano come la sottoscritta - ho dovuto scorrere qualche paragrafo frettolosamente per non soccombere a un conato ininterrotto - eppure delizioso. Fresco pur narrando di sete inestinguibile, arsura e deriva nell'immensità, in tre delle sue misure: l'immensità di solitudine e sale dei flutti oceanici, l'immensità dell'elevazione spirituale, il congiungimento nella religione di creatore e creato e l'immensità dell'abiezione a cui il desiderio di sopravvivenza induce.
Tre misure per la stessa incommensurabilità.
Le persone emigrano perchè logorate dall'angoscia. Consapevoli che i loro sforzi non serviranno a nulla, che quello che riusciranno a costruire in un anno verrà distrutto da qualcun altro in un solo giorno. Convinte che il futuro sia ipotecato, che con un po' di fortuna forse loro potranno farcela, ma non i loro figli. Intimamente certe che a casa nulla cambierà, che possono essere felici solo altrove...
frammento




3.7.03
Recensione inviata da Rina Romanazzi
Titolo Tra di noi il silenzio, autrice Elisabetta Mori, genere romanzo, ed. Beta 2002, euro 12,50
Si tratta di un libro semplicemente bello, dove ogni donna che abbia già compiuto il giro di boa dei quarant'anni può trovare risposte ai tanti no della sua infanzia, un ritorno indietro per capire i vari modi di manifestarsi dell'amore materno.
L'incipit è quasi disperato, ossessivo con quell'aggettivo mio: "mia madre. il mio cagnolino, la mia famiglia, la mia scuola, il mio cuore, il mio bene, mia madre, mia madre, la mia vita, mia madre..." Sulla scena Maria Sole non entra timidamente: il ritmo che accompagna inizialmente la narrazione, al di là delle pause di riflessione del dottor Eugenio, è martellante, brevi le sospensioni del pensiero, del tempo, in attesa di un altro racconto di altri eventi. La vita di Maria Sole si svolge davanti ai nostri occhi, non c'è riposo, una vita concentrata nel suo essere, un pugno di anni messi là, sul proscenio, dove si susseguono personaggi diversi, importanti, ma sempre personaggi minori rispetto a lei, a Violante, la madre. Non Fulvia, non gli zii Damiano e Emma, non l'amato fratello Tonio, non il dottor Eugenio o il dottor Tobia, né il dannato Angelo protetto perché nulla è mai avvenuto e neanche Guido l'amore della sua giovinezza, nessuno entra nella vita di Maria Sole e intreccia con lei un legame perenne. Sono solo il segno di un Dio Immanente che interviene a salvare, per sorreggere e confortare, ma di nessuno di loro riusciamo a connotare i lineamenti, le voci, i colori, i profumi. Comparse che sfumano quando appare Violante, stupenda figura di donna, regina, sovrana della vita di chi da lei dipende. Maria Sole ce la descrive e in quelle parole senti il profondo amore per questa madre, che, al contempo, vorrebbe distruggere perchè non sa o non può aiutarla. È una figlia prevaricata dal proprio dolore, dalla necessità di dare un nome alla propria malattia, una figlia che chiede e una madre che non risponde. E allora è facile ricorrere alla scienza per l'ineluttabilità della risposta. Ognuno le dà una spiegazione diversa ma plausibile e l'animo si acquieta: la madre invece rimane insensibile , aspra, arida, apparentemente all'origine del malessere, incapace di fare, di agire, di ribellarsi, nel preferire la rinuncia, la negazione di tutto. E poi c'è Enrico, il padre: è lui la tenerezza, la complicità, il gioco, lo riconosci, un padre discreto che dispensa quelle carezze che Violante non riece a dare, forse perché presaga di una perdita inaspettata che la costringerà ad essere nello stesso tempo madre e padre, in una sovrapposizione, terribile, di ruoli che non danno tregua e riposo. Enrico scompare presto dalla scena, mentre Violante è sempre lì, magnifica madonna delle famiglie meridionali, madri meravigliose della nostra infanzia, senza carezze ma di un amore reale, fatto di totale dono di sé fino all'estremo sacrificio. Ciò che sono oggi le donne lo devono a quelle madri che riuscivano a stendere un velo protettivo (per dirla alla Goffman, uno dei sociologi più attenti alle relazioni sociali, ai rapporti interpersonali) sulle proprie figlie mentre erano in crescita. Oggi, quella in cui viviamo, è una realtà più complessa, molteplici i mondi in cui si entra e da cui si esce incessantemente: eventi, fatti, storie accadono, spesso distinti da qualsiasi sogno o previsione e il velo si strappa o la sua trama diventa sempre più lasca.
Luciana Bozzo




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