Letture e riletture


24.8.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Caos calmo di Sandro Veronesi
Del romanzo si coglie subito una malizia narrativa. Il continuo riferimento alla piccola strumentazione tecnologica che guarnisce il testo, come ciliegine la torta. La comune vita quotidiana, di comuni cittadini, in comuni contesti metropolitani, può risultare accattivante e garantire un'attenzione più folta, alla stregua d'ogni libro di cassetta. Nel lettore più esigente, che cerca sempre nel testo assonanze con un classico della letteratura, o la specialità editoriale in controcorrente, il sovrappiù stona e rinforza una velina difensiva. È quindi la prudenza a guidare lo scorrere delle prime pagine, per non cedere alla seduzione del personaggio "mediano" nel quale tanti potrebbero identificarsi. Proprio questo insospettisce il lettore esigente. Un effetto perverso e inatteso per la tecnica narrativa che di quegli elementi fa una cornice nella roccia dove incastona il romanzo. La tensione per il timore d'essere catturati nel solito fiume di parole pretenziose, si scioglie man mano che il personaggio Pietro si appropria del tempo narrativo e, per questa via, d'una personalità tutta sua, affatto comune, in cui ci si può identificare soltanto dopo un doloroso lavoro introspettivo.
È appunto il dolore il protagonista assoluto, nelle sue diverse apparizioni nello scenario che intreccia richiami romantici e ottocenteschi alla ovvietà della nostra quotidianità. Lì, in un angolo nascosto ma centrale di una normalissima Milano dei tempi nostri, il protagonista-dolore si rappresenta nei diversi personaggi che sfilano in un giardinetto, su una panchina all'ombra di un oleandro, accanto all'Audi A6 di Pietro, parcheggiata ogni giorno di fronte alla scuola di sua figlia Claudia, orfana di madre da meno di un mese.
Quel dolore per la recente morte della moglie che Pietro sembra rifiutare o semplicemente non vedere, riaffiora in amici e parenti, come catalizzati dalla stramberia di Pietro che essi scambiano per lacerazione profonda e inconsapevole. L'autore manipola bene la vastità dei sentimenti in gioco, dall'amicizia vera all'invidia malcelata e strisciante, al tradimento, ai sentimenti filiali eccessivi, spesso causa di errori e pene dei destinatari, alla passione sensuale, al sesso crudo, fino a sfumare nella stima sincera, nel calore tiepido di una conoscenza casuale.
I personaggi che di volta in volta si confidano con Pietro partecipano quasi sempre una delusione che accompagna un dolore. Lui li ascolta, a volte attento, altre distratto, annoiato, divertito, meravigliato. Mai sofferente. Il dolore degli altri non lo ferisce. Pietro non soffre. Prova pena, addirittura quel dolore altrui in lui si fa risarcimento di antichi screzi, o ammirazione di fronte a un'abbagliante umanità che mai avrebbe sospettato amalgamata al cinismo.
Pietro sembra sgusciar via come un pesce, uscire inalterato, indenne da tutti quei rapporti che in qualche modo vorrebbero coinvolgerlo in un dolore. Nulla lo scuote oltre la soglia della razionale elaborazione, del meccanico contenimento. Tutto resta sotto un controllo razionale, le emozioni di Pietro si giocano sul piano della elaborazione concettuale, e il quadro narrativo dei personaggi in cui l'autore ripone sentimenti forti ed emozioni devastanti quasi a compensazione, contraltare alla razionalità di Pietro, si infrange nell'unica nota dissonante.
Caos calmo è oltre l'apparenza della mancanza di dolore, oltre la dilazione di esso, oltre il rinvio. Caos calmo è il dolore che già c'è, che pervade e strazia sotterraneo, il dolore che sconvolge senza manifestarsi a sé. Così pervasivo e penetrante da non poter che essere rifiutato. E non basta neppure il gioco speculare a stanarlo, non è sufficiente il dolore di un qualsiasi "altro" per ricongiungere un'assonanza. Esso può affiorare a coscienza soltanto quando l'altro è la sede del nostro, quando egli ce lo rimette addosso con tutto il suo peso non per librarsene ma solo per condividerlo. È Il contrario di uno di Erri De Luca.
Carlo Giuseppe Diana



23.8.07
Recensione inviata da Luca Caddia
Francesco Campora, Il dilettante, 2003
Questo non è proprio un libro giallo, ma un libro giallo-rosso. A poche settimane dal terzo scudetto della Roma, città in cui anche le luci delle auto sui lati opposti della carreggiata riflettono i colori della sua squadra, uno studente che sembra di Lettere ma ciondola a Giurisprudenza riceve una quantità di soldi incredibile per scoprire chi ha ammazzato Alberto il Biondo, micro-criminale di San Lorenzo. E Francesco, protagonista omonimo dell'autore, si spinge nel labirinto umano di Roma con lo scopo di arrivare al dunque. Il dilettante si muove su autobus che portano da Centocelle ai Parioli, prende il fresco in macchina fino a Torre Maura, coglie il cielo plumbeo all'obelisco dell'Eur, va a Prati - non in Prati – e intanto porta avanti l'esame della vita incontrando personaggi di tutti i tipi, dall'hacker fan di Califano al mago tarocco di Tele Gianicolo. In una città in cui tutti, tranne un medico senza frontiere, perdono il tempo senza sprecarlo, il nostro capisce che al di là delle soluzioni enigmistiche la capitale d'Italia nasconde un finale che non lascia scelte. Bel gol di Campora al primo romanzo, di cui urge film con Mastrandrea nella parte del protagonista (ma andrebbe bene anche nel ruolo di guardia fascia, così, tanto per cambiare).
Luca Caddia



22.8.07
Contributo inviato da Raffaela
Antonio Molinari, L'ideale raggiunto?
È un diario romanzato di un artista che ha vissuto l'ultima guerra.
Molinari non ha mai perso l'ottimismo. Anche quando si è trovato esiliato in Austria, tra bombardamenti e macerie, aveva sempre con sè un taccuino e gli acquerelli, ha dipinto scene di Vienna mortificata dalla guerra.
Ha scritto la sua storia pensando ad un Europa unita e questo nel lontano 1944/45. E poi ha vissuto una bellissima storia d'amore... Secondo me va letto.
Raffaela (C.Æ.S.A.R. ONLUS)



21.8.07
Recensione inviata da Carlo
Zadie Smith, On Beauty, 2005
L'ho preso appena uscito, iniziato, lasciato, ripreso, finito, riposto. A pensarci, non so se attribuire l'idea di discontinuità che associo al libro (se devo trovare un limite) alla mia lettura indisciplinata, o se addebitarla all'imperfetto amalgama dei molti, diversi elementi che si accavallano in 443 pagine di romanzo.
Un'impietosa caricatura del mondo accademico (che la Smith ben conosce) è il pretesto per l'esplorazione di temi già affrontati nei lavori precedenti: come in Denti Bianchi, al quale On Beauty è più vicino, al centro degli eventi è il rapporto tra famiglie radicalmente diverse, stavolta costrette al confronto da infinite e imprevedibili connessioni.
Howard (non a caso: il romanzo è un omaggio a Howard's End di E.M. Forster) Belsey è un docente di Wellington, bianco, laico e liberale, sposato con Kiki, impiegata afro-americana. Dalla loro unione Jerome e Zora, votati l'uno al superamento, l'altra all'incarnazione dei valori di famiglia, e Levi - carattere smithiano per eccellenza - coinvolto nella compulsiva ricerca di un'identità, passi essa per la cultura hip hop o l'impegno nella causa haitiana.
Monty Kipps, marito di Carlene e padre della bellissima Victoria, è un illustre accademico di colore, cristiano conservatore e detrattore dell'affirmative action ("Equality was a myth, and Multiculturalism a fatuous dream"), è un autore di successo in eterna querelle con Howard per le opposte vedute sull'opera di Rembrandt (secondo Howard niente più che un abile artigiano) e l'arte in genere, che Mr. Belsey definisce, con decadente cinismo: "the Western myth, with which we both console ourselves and make ourselves". Non così per Kipps, che colleziona dipinti di valore: "Art was a gift from God, blessing only a handful of masters, and most Literature merely a veil for poorly reasoned left-wing ideologies".
Due intellettuali agli antipodi, eppure vittime di identiche debolezze, in un romanzo quasi matriarcale: uomini fragili, volubili, vili, alienati, piccoli e banali, che camminano sulle spalle di donne granitiche.
Sullo sfondo della difficile convivenza a Wellington (e delle frizioni che ne scaturiscono), si scrive e ragiona di arte, amore, tradimento, politica, religione, disuguaglianza (il ritratto dell'impaccio con cui le vecchie minoranze, fagocitate dalla middle-class, fanno i conti col proprio status, le categorie in cui riconoscersi [è ancora sufficiente parlare di "colore"?] e le nuove classi subordinate è magistrale), ma soprattutto di bellezza: quella dipinta, quella scritta, quella che si fa potere (come per Carl, rapper locale, il cui aspetto e carisma hanno forse un ruolo nel successo dei suoi versi), quella negata, quella scordata e riscoperta troppo tardi.
Né manca, la bellezza, nell'usuale perfezione ed equilibrio dei dialoghi, negli infiniti registri modellati sui personaggi (dallo Standard Black English alle forme pompose della dissertazione accademica, che spero non siano andati persi nella traduzione), nella prosa raffinata ma brillante che ha un valore - estetico, appunto - in sé, capace di intrattenere anche quando, di tanto in tanto, l'abbrivio della narrazione sembra sottrarsi al controllo dell'autore.
Carlo (Lo Scaffale)



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