Letture e riletture


13.2.07
Recensione inviata da Simona Magnoni
Yasmin Crowther, La cucina color zafferano (traduzione di Paola Mazzarelli)
Avvolgente, affascinante, conturbante, appassionante: il miglior libro letto negli ultimi mesi.
La cucina color zafferano ti trasporta in un altro mondo, anzi in più mondi, in Iran e in Inghilterra, nel passato e nel presente e ti ci trasporta in modo così travolgente che fai fatica a pensare di essere solo il lettore di queste incantevoli drammatiche pagine. Ti immedesimi in tutti i personaggi, che siano giovani, vecchi, uomini o donne e vivi i sentimenti, le passioni, i drammi, le scelte di vita proprio come se fossero sulla tua pelle, anzi no, di più, sotto la tua pelle. E pensi che avresti detto proprio così, o avresti agito proprio in quel modo, e questo indipendentemente dal personaggio di cui si sta raccontando in quel momento. Senti i profumi, il vento, vedi i colori, ascolti e parli la lingua farsi come se fosse la tua lingua. Entri nel libro sin dalla prima riga e non ne vorresti più uscire. Lo fai a malincuore alla fine. Saresti andata avanti a leggere, ancora e ancora...
Ho ritrovato nella storia di Maryam il mio pensiero più frequente degli ultimi tempi: la vita è "a pezzi", ogni avventura che viviamo e ogni battaglia che combattiamo e che ogni volta crediamo essere unica, irripetibile ed eterna, non sono altro che una delle mille che compongono la nostra vita. E c'è sempre un modo per riappropriarsene, un modo per riscattarsi, un modo per far sì che valga la pena di essere vissuta: l'importante è rispettare noi stessi e i nostri principi esattamente come chi abbiamo di fianco a noi, indipendentemente da quanto possiamo comprendere o condividere.
Se non inseguiamo il sogno, se non inseguiamo la nostra felicità, tutto sarà una farsa. Inganneremo noi stessi, accontentandoci di vivere una vita non-vita come fosse una farsa, come forse tanti intorno a noi decideranno di fare, magari per paura, magari per pigrizia, tutti convinti di essere a posto, nessuno veramente felice.
Simona



6.2.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Erri De Luca, Tu, mio
Di Erri De Luca mi piace quel suo modo di raccontare delicato, attento alle parole, ad affiancarle, a disporle nel testo quasi fossero di vetro e rischiassero di infrangersi urtando fra loro. Mi piace la scrittura capace di "presa diretta" pur senza mai risultare banale; quel modo originale di raccontare il particolare, spogliato dalla noia della descrizione meticolosa. Anche il rapporto della scrittura con l'origine napoletana dell'autore e dei personaggi mi sembra curato in modo particolare e s'incentra più sulla descrizione dei gesti, dei luoghi, delle abitudini, che sulla più comune elaborazione del linguaggio dialettale, presente ma ridotta all'essenziale.
Il libro apre subito una grande finestra sul mare, meglio sarebbe dire sulle "cose di mare", viste e vissute da un adolescente nel pieno della sua crescita, della sua curiosità verso la vita, intrecciate ai suoi problemi, alle emozioni che si fanno particolari quando defluiscono da una storia ai limiti del fantastico, colorando il racconto con un arcobaleno di sensazioni gustose e molto delicate.
Anche il corpo del ragazzo è centro d'attenzione sia nella mutazione inverno/estate, attraverso il processo di adeguamento all'isola, espresso quasi in minuscoli sacrifici, "dazi della pelle pagati all'isola"; sia rispetto al cambiamento adolescenziale e non manca l'espressione dell'imbarazzo di fronte a quello stato intermedio dello sviluppo che rinvia a una sensazione indefinita del proprio corpo, appena uscito da una dimensione e in attesa che si apra l'uscio dell'altra.
Il primo personaggio a entrare in scena è anche il più umile, dal quale il ragazzo impara la pesca, riuscendo ad amarla attraverso l'osservazione dei gesti del pescatore Nicola, presentati nel movimento ritmico della poesia, capace di coniugarsi alla successione precisa dell'artigiano, che rimarca l'essenzialità conseguente al mestiere svolto per necessità di sopravvivenza. Nicola gli mostra la pesca mentre gli racconta la guerra, la sua guerra, quella di uomo modesto, dai sentimenti semplici, incapace di odio, costretto a essere considerato "nemico" che occupa la terra d'altri, da gente modesta come lui.
Questo spaccato costantemente aperto sulla guerra appena passata (siamo negli anni cinquanta) è anche il bel tentativo di raccontare la storia attraverso i diversi personaggi del libro (pescatore, zio, padre) offrendo una lettura legata ai singoli vissuti personali e recupera il gusto e il valore della oralità. È la storia che si tramanda con la voce di chi l'ha fatta, capace di sottrarsi ai meccanismi di istituzionalizzazione dei fatti rintracciabili nei libri, e alla generale regola per cui essa è raccontata dai vincitori. Il ragazzo cerca altro, è pieno di domande e non riesce a comprendere perché la sua gente si è dovuta difendere dai tedeschi, perché ha combattuto e vinto una guerra di liberazione per poi diventare serva degli americani. Il racconto traccia un solco definitivo fra le persone costrette a combattere guerre che non vogliono e di cui non comprendono il senso neppure quando le hanno vinte, e gli interessi politici ed economici in qualche modo rappresentati dalle istituzioni.
Il segreto di Caia/Hàiele è per tutti gli altri personaggi la finestra occulta sulla guerra, dove vi si affacciano solo due di essi che della guerra non hanno memoria, a parte i pochi ricordi di Hàiele, per lo più legati al rapporto col padre. Lo scenario di quella finestra è un groviglio di sentimenti. Grazie al corpo del ragazzo che ospita il fantasma del padre ucciso dai tedeschi, lei ancora bambina, Caia vive gli incontri con lui. Le emozioni giocate da Caia e dal ragazzo attraverso questa rappresentazione fantasmatica del racconto, si esprimono in un crescendo di potenza, ma sempre con una delicatezza attenta. Un obiettivo puntato sul particolare del gesto, sul movimento di una mano, sullo spostamento lieve delle dita, fra gli sguardi bassi e dentro quelli diretti, sopra carezze che sanno accogliere ferite, nei piedi scalzi e veloci della voglia di vivere, fino a riprendere lacrime conservate, mai versate su di un addio che segna vite nuove, sguardi larghi. Un addio che rappresenta uscite dai corridoi stretti, dai ricordi pieni d'angoscia di lei, ma anche dalla adolescenza inquieta del ragazzo che impara le cose degli adulti e una guerra che non ha vissuto, nella difficile prova d'essere padre. Un tratto pirandelliano, moreniano che De Luca propone col "gioco dell'altro", quale strumento di conoscenza e di crescita attraverso l'esperienza diretta e la presa in consegna dei costi dell'altro.
Un addio senza angoscia d'abbandono, di giovani vite liberate dai fantasmi, riconsegnate alle normali difficoltà della costruzione della propria esistenza.
Sul piano personale mi ha ricordato un po' la mia infanzia vissuta nel dopoguerra, in questa città non molto diversa da Napoli. I racconti degli adulti di quegli anni difficili tenevano famiglia e amici stretti attorno ai bracieri per ore. L'inverno passava dentro quei racconti quasi inosservato, per fermarsi invece vistoso a forma di mortadella sulle cosce nude dei ragazzini, conseguenza segnata sopra la carne tolta di colpo dal freddo dei giochi di strada e consegnata accanto al rosso della carbonella accesa nei bracieri.
Un calore umano che ho notato svanire con gli anni, via via che l'esigenza della ricostruzione, personale e sociale, piegava le persone sui propri interessi. Ma questo avveniva solo più tardi, mentre quel tempo lo ricordo povero ma pieno di protezione umana, donne che c'erano a ogni richiesta di un bambino, anche per rifiutare, ma c'erano. Le case, mai vuote, rappresentavano un centro caldo disponibile in ogni momento; sempre qualcuno ad accogliere un dispiacere, a curare un ginocchio sbucciato. Sempre una voce alla finestra per annunciare una merenda.
Carlo Giuseppe Diana



3.2.07
Contributo inviato da Prospera
Lauren Weisberger, Il diavolo veste Prada
Non avevo preso in considerazione l'idea di vedere il film, né tanto meno di leggere il libro dal quale era stato tratto, ma una persona particolarmente vicina alla mia vita professionale un giorno mi ha detto: "Devi vederlo, lì c'è il tuo capo!"
Dopo aver visto il film e aver concordato con chi mi aveva dato la dritta, mi sono incuriosita e mi sono fatta prestare il libro, pensando che mi avrebbe fornito maggiori particolari e descrizioni più approfondite.
In realtà così non è, perché il libro (quanto meno la versione tradotta in italiano, mentre mi dicono che l'originale meriti qualcosa di più), non è scritto particolarmente bene, anzi, oserei dire che tutto è abbastanza qualunquistico: il lessico, i dialoghi, le descrizioni degli stati d'animo.
Ma un solo motivo sufficiente per apprezzarli entrambi esiste ed è: Miranda. Il mio capo, il capo di migliaia di noi: arrogante, presuntuoso, maschilista, egoista, arrivista, prepotente, sprezzante e insensibile. Quel capo arrivato al potere e in continua arrampicata proprio perché è il concentrato di tutto ciò che a ciascun essere umano con un po' di umanità, umiltà e rispetto se non amore verso il prossimo, ripugna. Esattamente colui che invece nel mondo del lavoro viene apprezzato e sguinzagliato proprio per queste grandi doti di spietatezza e durezza. Il nostro mondo, dove troppo spesso non conti, non sei nessuno, non vieni gratificato, ma sfruttato fino a piacimento per poi essere magari rimosso senza nessuna considerazione. Siamo numeri, e personaggi come Miranda ce lo ricordano quotidianamente.
Chi legge questo libro lo deve fare unicamente con questo spirito: avere la conferma di non essere solo a vivere certe situazioni e che forse come ad Andrea, anche a noi, un giorno, il destino darà la possibilità di dire "Vaffanculo Miranda, vaf-fan-cu-lo", magari dopo esserci trovati un altro posto di lavoro!
Prospera



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