Letture e riletture


26.10.05
Contributo inviato da Severine
Bret Easton Ellis intervista me a proposito del suo ultimo libro, Lunar Park
BEE: Allora? Eh? Com'è?
ME: Uhm... carino.
BEE: Tutto qui? Solo... carino?
ME: Molto ben scritto. Come sempre del resto.
BEE: Ho capito, non è giornata.
Si alza con le mani nelle tasche della giacca Armani e tira fuori delle pasticche. Le osserva, soffia via un po' di peli e le ingoia. Si risiede.
ME: Ora va meglio?
BEE: Immagino di sì.
ME: Lasciami spiegare, non è che voglia sminuire il tuo ultimo lavoro, che peraltro attendevo con impazienza.
BEE: Ma?
Si strizza un contagocce pieno di liquido trasparente sotto la lingua.
ME: Ma ci sono delle cose che non mi hanno convinta. Prima di leggerlo pensavo che fosse il classico libro tappabuchi, per rispettare una scadenza contrattuale. A un terzo del libro mi sono dovuta ricredere e ho pensato: che genio, ha trovato il modo di scrivere una delle sue storie, ma senza ripetersi, perché stavolta è lui il protagonista.
BEE: E poi?
ME: E poi arriva Stephen King e manda tutto in vacca.
Sta trafficando con un blister contenente pillole rosa. Se ne spara una mitragliata in bocca e le mastica tenendo gli occhi bassi.
BEE: Se non ti piace Stephen King non è colpa mia.
ME: E se mi piacesse comprerei i suoi libri. Andiamo, cosa c'entrano le case infestate, i pupazzi posseduti, i fantasmi e le maledizioni con te? Tu sei il vate dell'horror vacui, che bisogno hai di farmi vedere gli scheletri in salotto?
Altro blister, altra raffica di pillole.
BEE: Ok, ho capito, ma non c'è solo quello.
ME: No, infatti. Il resto mi piace. Anzi, stavolta sei stato anche più ironico del solito. E mi è piaciuto come hai giocato con la parola...
BEE: Zitta! Ci sarà pur qualcuno che lo vuole ancora leggere nonostante te.
ME: Hai ragione, scusa.
Si osserva attentamente i mocassini Prada, poi sfrega con l'indice come a voler togliere una macchia che non c'è. Intanto con l'altra mano si infila in bocca un paio di pasticche che non faccio in tempo a riconoscere.
ME: Sai cosa avrei evitato?
BEE (rassegnato): Sentiamo.
ME: Avrei lasciato perdere quella frase dove ribadisci che è tutto vero. Ottieni proprio l'effetto contrario. Uno arriva lì convinto di leggere una biografia e quella frase gli fa pensare vuol dire che sto per leggere delle tavanate che non stanno né in cielo né in terra. E smette di crederci all'istante. E fa bene, visto che poi le tavanate ci sono davvero.
BEE: Però ti ha fatto paura.
ME: Molta. Ma io non sono un campione attendibile, mi fa paura anche L'esorciccio.
BEE: Insomma, cosa ti aspettavi? Glamorama Reloaded? Pakistan Psycho?
Una sola, grande, pillola gli sparisce direttamente in gola.
ME (ridendo col naso): Guarda che Pakistan Psycho non sarebbe mica stata un'idea scema.
BEE: Cretina.
ME: Comunque, se ti può consolare, hai avuto un ottimo traduttore. Non come Glamorama, dove la gente si salutava con ehi, cosa stai facendo? e la Vespa di Victor non era un diesel.
BEE: Miii, te lo sei letta pure in inglese?
ME: Solo il primo capitolo. Lo sai che ero posseduta.
BEE: Ho giusto qui un contributo. (diapositiva)
ME: Vabbé, quello era un gioco.
BEE: Sì, ma la prossima volta scrivilo tu, visto che sei così brava.
ME: No, dai, scrivilo tu che sei il più grande-giovane-post-minimalista-vivente, ma lascia perdere i vecchi appunti e i racconti che scrivevi al liceo. Che ormai hai passato i quaranta.

Nel corso dell'intervista l'Autore ha assunto in quantità variabile Borocillina, Fiori di Bach (Star of Bethlehem, Walnut, Scleranthus), Zigulì gusto lampone e yogurt, Acutil Fosforo, Pasticche del Re Sole alla malva e una pillola abortiva.

Severine



25.10.05
Recensione inviata da Sbloggata
Ken Harvey, Ragazzo di zucchero (traduzione di Carlotta Scarlata)
Nove racconti, splendidi. Ironia e sentimenti, dolore e coraggio, la provincia americana e l'oceano che non danno spazio a orizzonti di fuga, la piccola città di Lynn, Massachusetts, dove "la cosa più vicina a uno spazio aperto è il parcheggio del centro commerciale". Questo il Ken Harvey di Ragazzo di zucchero.
Delicatissime sono le narrazioni in cui scelte audaci, scoperte amorose e adolescenziali, anziani eccentrici e genitori scompostamente eterosessuali delineano i contorni di un'omosessualità che nasce fra le mura di casa, nella quotidianità di un rapporto familiare, nella freschezza di un'amicizia.
In ogni scelta, in ogni scoperta, su ogni cammino la sofferenza e il dolore sono lasciati intuire, sono appena percepibili, eppure sembrano esplodere quando il libro viene chiuso, quando l'ultima pagina palesa una realtà che non ha più bisogno di prove per esistere.

Il primo racconto, "Rovesciando le mucche", è delicatamente adagiato sulla violenza di ciò che narra, le parole sono come pennellate leggere imbevute in tonalità morbide, capaci di squarciare come fiamma viva il silenzio di un tramonto.
Mio padre disse: "Eravamo nel Vermont. La zia Sylvie mi svegliava nel cuore della notte e insieme andavamo nei campi a rovesciare le mucche. Devi trovare delle mucche addormentate, poi le tocchi piano piano con le dita, così". Mio padre sollevò le mani e aprì bene le dita. "E quelle si rovesciano nel sonno, senza nemmeno accorgersene. È divertentissimo."
"Le mucche non si fanno male?"
"Non sentono niente è la cosa più normale del mondo." Si sedette accanto a me sul divano. Mi disse di sollevare le mani e di aprire bene le dita. "Rovesciami," disse.
"Sono stanco papà."
"Solo una volta. Di solito io e zia Sylvie lo facevamo l'uno con l'altra dopo averlo fatto alle mucche."
"Papà," dissi, divincolandomi sul divano.
"Signor Bolle, ti amo" l'ho letto e riletto. L'ho fatto leggere e l'ho regalato. La storia è così preziosa che vale la pena custodirla nel più antico degli scrigni, magari di quelli con una ballerina in tutù che ruota fra le note di un carillon vellutato.
Il Signor Bolle è "quell?uomo che sorrideva sempre e profumava di sapone".
"Amavo quell?abito morbido come la seta. A volte pensavo che se l?avessi indossato in una giornata di vento, sarei volato via", questo invece è Hopi.
In quel sospiro, "Signor Bolle, ti amo", l'emozione profuma di sapone. Candida e leggera come la schiuma fattasi bolla.
Sbloggata



23.10.05
Recensione inviata da Emanuelito
Émile Zola, La disfatta (traduzione di Luisa Collodi)
È un libro duro, crudo e difficile, incentrato su una duplice sconfitta: da un lato la sconfitta militare della Francia di Napoleone III nel sanguinoso conflitto del 1870 contro la Prussia del cancelliere Bismarck, dall'altro la sconfitta dell'uomo, degradato al rango di bestia grazie alla guerra.

Le vicende narrate da Émile Zola sono come scatole cinesi. Ci sono tante piccole storie, i cui personaggi sono soldati semplici, caporali, sergenti, contadini, fratelli, sorelle, genitori e figli.
Poi la scatola più grande, che comprende, contiene e collega tutte queste piccole storie: la Storia, quella dei generali e degli imperatori, di Bismarck, di Napoleone III e della Comune di Parigi. Tutte queste storie sono unite sui diversi livelli, compenetrate, analizzate dall'interno, ma senza mai indulgere a visioni globali da manuale scolastico. Anzi, la Storia è osservata con gli occhi dei suoi piccoli protagonisti, di chi si gioca la vita nei campi di battaglia, di chi ha un promesso sposo al fronte, di chi cerca anche solo di sopravvivere, con tutti i limiti di parzialità e incompletezza che questa visione può portare.
E infine, la guerra. Somma protagonista. La guerra che mangia tutto: la vita, l'amore, la dignità; che al loro posto partorisce mostruosità di sangue, bassezze irrazionali, immagini dell'alterazione, tutto perfettamente legittimato e inquadrato in uno stato di "normalità", proprio perché è esattamente questa la normalità di una guerra: la disfatta, appunto, dell'essere umano, che sia il vinto o il vincitore.

Appena prima della tremenda battaglia decisiva di Sedan, i tre protagonisti principali si ritrovano insieme ad aspettare l'inevitabile tragedia: Maurice, soldato francese volontario pieno di cultura, ideali e passione; Jean, contadino tornato all'esercito dopo aver perso tutto, dotato di una sensibilità che contrasta con la rudezza della sua provenienza sociale; Henriette, sorella gemella di Maurice, l'anima femminile del romanzo.
"È vero, la odio, la trovo ingiusta e orribile... Forse perché sono una donna. Tutte quelle stragi mi rivoltano. Perché non riuscire a spiegarsi, a mettersi d'accordo?"
Jean approvava le parole di Henriette, scuotendo la testa. Anche a lui, illetterato ma pieno di buon senso, nulla sembrava più facile che mettersi tutti d'accordo, dopo essersi spiegati bene, e con calma.
Maurice, invece, uomo colto e passionale, giudicava la guerra necessaria, in quanto vita stessa, legge del mondo. Non è stato forse l'uomo pavido a introdurre l'idea di giustizia e di pace, mentre l'impassibile natura è un continuo campo di battaglia e di strage?
Emanuelito (di Colonnedercole)



16.10.05
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Michel Houellebecq, La possibilità di un'isola (traduzione di Fabrizio Ascari)
Michel Houellebecq non è capace di innocenza. Nel primo testo critico dedicato alla sua opera, Houellebecq en fait, Dominique Noguez lo definisce "il Baudelaire dei supermercati". È ormai dal 1991, anno in cui pubblicò l'importante saggio su Howard Philip Lovecraft, che Houellebecq vaga incessantemente da un reparto all'altro del supermercato Occidente. Non ne trascura nessuno. Si lascia tentare, talvolta sedurre dalle merci che trova sugli scaffali, ma si riserva di provarne poi un profondo disgusto.
Quello che a una lettura ingenua può essere facilmente liquidato come compiacimento, è in realtà un tratto saliente della migliore narrativa di questi anni: l'ambiguità.
Come tutti gli scrittori onesti, Houellebecq ha in serbo per il lettore più interrogativi che risposte. I suoi romanzi non offrono soluzioni, o se ne offrono si tratta di soluzioni insoddisfacenti perché temporanee.
La possibilità di un'isola, suo quarto romanzo, ci pone forse le domande più angoscianti. Arriva a sei anni dal discusso Piattaforma, considerato da più parti come un congegno narrativo imperfetto, una pasta mal lievitata. In realtà si trattava di un romanzo dalla struttura più convenzionale rispetto a Le particelle elementari, meno ambizioso ma altrettanto sapiente nel destreggiarsi fra registro narrativo e pamphlet.
Alla sua pubblicazione è seguita una lunga pausa, interrotta solo dal modesto racconto di viaggio Lanzarote: al di là del carattere occasionale, un deciso passo indietro rispetto alle prove precedenti, che non faceva ben sperare circa i futuri sviluppi della narrativa di Houellebecq.
La possibilità di un'isola è testo di ben altra sostanza, in cui proprio il fantasma di Lovecraft è più che mai presente.
Non ci troviamo di fronte a un Le particelle elementari - parte seconda. Non devono trarre in inganno il tema della clonazione umana, già affrontato nella sua opera più nota, né le dichiarazioni dell'autore stesso, che al pari dei critici considera Piattaforma un parziale fallimento. "Non sarò mai" si è schermito in un'intervista "uno story-teller".
Col senno di poi, l'unico vero indizio della direzione che Houellebecq avrebbe intrapreso con La possibilità di un'isola si trova in un colloquio avuto dallo scrittore nel novembre 2000 con il periodico tedesco "Die zeit". Il testo che ne è scaturito - lo si può leggere nella traduzione di Giuseppe Genna - si presenta come una breve narrazione, il cui tema è il sogno di vita eterna dell'autore.
"Apro gli occhi e constato che il mio sogno è alquanto superficiale. Mi accendo una nuova sigaretta, tormento il filtro, in realtà non esiste armonia con l'universo. Nei momenti di felicità, per esempio contemplando un bel paesaggio, so istantaneamente che io non ne faccio parte, il mondo mi appare come qualcosa di estraneo, non conosco nessun luogo dove io possa sentirmi a casa. Dio, anche lui, non può risolvere questo problema, peraltro io non credo a nessun dio, non è necessario, né qui né in paradiso. Credo nell'amore, è la sola cosa di valore di cui siamo in possesso, è migliore di un programma di fitness, è meglio dello sport. Forse un giorno il mio sogno di eternità si realizzerà, allora sarò una creatura con zampe, ali o tentacoli, forse altrove, non qui."
Diario di bordo dell'infelicità umana, La possibilità di un'isola contiene una realizzazione monca di questo sogno di vita eterna. L'uomo l'ha raggiunta, ma a prezzo della rinuncia all'umanità stessa.
Daniel 24 e Daniel 25, cloni venuti duemila anni dopo il loro capostipite, ne analizzano il racconto di vita da un punto di vista straniato: quello di neoumani, dotati dello stesso patrimonio genetico e della memoria di tutti i loro predecessori, ma incapaci delle passioni violente e del senso di inadeguatezza che hanno condotto Daniel 1 alla disperazione. Studiarne le vicende personali, dal successo nella carriera di comico fino al delirio per la perdita dell'amore che ne ha preceduto la morte, è l'unico scopo della loro esistenza, che si svolge in una enclave protetta dalle incursioni degli umani - ridotti a tribù sparse di cannibali senza passato - e prevede solo contatti virtuali con altri neoumani. Daniel 1 ha vinto la morte. È destinato a morire e rinascere senza soluzione di continuità. Tuttavia, ciò che lo spingeva a desiderare l'immortalità - la possibilità di un'isola, che è poi l'amore ricambiato - è una condizione non più realizzabile già a partire dalla prima reincarnazione. Qualcosa si è perso.
Come Le particelle elementari, anche questo è un libro dedicato all'uomo, con tutto il disincanto, la beffarda ironia e la tenerezza che la dedica presuppone.
E come in Piattaforma, anche qui si afferma che la felicità è possibile, addirittura probabile, ma per sua stessa natura non durevole.
Per quanto perverso e insensato, il meccanismo si riproduce. Nella presentazione del romanzo a Milano, Houellebecq stesso l'ha definito un generatore di vicende umane, destinate a ripetersi ciclicamente. Anche nel terzo, straordinario capitolo in cui Daniel 25 rinuncia alla quiete e all'immortalità per andare alla ricerca di suoi simili in un mondo desertico e devastato, la morte del cane Fox per mano dei selvaggi umani riproduce esattamente quella del Fox capostipite. L'epico viaggio di Daniel 25 per attraversare la faglia estesa dalla Spagna all'Africa centrale ricorda il peregrinare di Daniel 1 per le autostrade spagnole con la sua Mercedes. È lo stesso mondo violento e disperato, quasi interamente maschile, dove l'unico incontro sessuale possibile è quello con una prostituta dell'est europeo per Daniel 1, o con una selvaggia terrorizzata offerta in dono dagli umani a Daniel 25.
Non c'è un momento risolutivo. La narrazione si ferma, semplicemente, lasciando il personaggio in una stasi che sembrerebbe - ma sappiamo non essere - definitiva: lasciando la sua postazione recintata, ha infatti rinunciato alla sua immortalità. Non dissimile da quello descritto nella conversazione con "Die zeit", Daniel 25 ha trovato un altro paradiso imperfetto: tante nicchie d'ombra scavate nel fondale di sabbia, tra un lago d'acqua morta e l'altro che sono tutto ciò che rimane dell'oceano. Daniel 25 nuota e riposa, non desidera. Nel lettore, al ghigno amaro nel vedere i piccoli branchi di umani cadere sotto i colpi della sua pistola, si accompagna la speranza di una nuova, puntiforme isola. Magari una Marie 23, o una Esther 31, anch'esse uscite dal recinto in cerca di qualcosa.
Houellebecq pare specchiarsi in questa stirpe dei Daniel che, a cominciare dal primo, guardano al tema prediletto dalla sua letteratura: l'umanità media, di cui evidentemente l'autore si considera un campione attendibile.
Nel romanzo d'esordio Estensione del dominio della lotta, è l'alter ego di un giovane Houellebecq, preso in trappola tra una disperata routine lavorativa e la rinuncia ad averne una privata, a indicarci che le relazioni sono ormai governate dalle stesse leggi del libero mercato.
E se i due protagonisti di Le particelle elementari rappresentano una sorta di esplosione dell'io letterario di Houellebecq - lo studioso positivista e la canaglia col tarlo del sesso - e il Michel Renault di Piattaforma è a ben vedere il suo primo vero clone, nel racconto di vita di Daniel 1 c'è, tra le altre cose, lo scrittore che si fa beffe dei suoi detrattori e chiarisce come mai prima i motivi di fondo della sua narrativa.
Ci sono principalmente due categorie di artisti: i rivoluzionari e gli intrattenitori. A metà strada c'è gente come lui, che rimane furbescamente attaccato al treno dell'umanità senza nascondere il suo disgusto.
Ce lo confessa per voce del comico Daniel 1, abbozzando un curioso autoritratto:
Ero più stupido della media?, chiesi a Vincent la sera stessa mentre prendevo l'aperitivo a casa sua. No, rispose senza turbarsi, sul piano intellettuale mi collocavo in realtà leggermente al di sopra della media, e sul piano morale ero pressappoco simile a tutti: un po' sentimentale, un po' cinico, come lo è maggior parte degli uomini; ero soltanto molto onesto, lì stava la mia vera specificità: rispetto alla norma, ero di un'onestà quasi incredibile.
Niente di speciale in fondo, sembra dirci Houellebecq, che in Piattaforma aveva dato al suo narratore/protagonista il nome di una nota casa automobilistica. Come a sottolineare che il personaggio in questione è un modello standard, di larga diffusione, quindi quella che va in scena non è una vicenda personale ma una condizione universale.
Siamo nei dintorni di Yates, che in Revolutionary road sconfina nell'allegoria proprio attraverso i cognomi dati ai suoi personaggi.
L'analogia con il padre del dirty realism americano non si ferma qui. Nella prefazione di Richard Ford all'edizione italiana, leggiamo che per i contemporanei di Yates il punto debole dell'opera stava nell'ambivalenza della posizione del narratore, incapace di decidersi tra lo sguardo di un entomologo e quello di un metafisico. Con Ford, potremmo invece notare che proprio in quell'ambivalenza stava la grandezza di Revolutionary road, una tragedia familiare che è allo stesso tempo quella di una generazione, di una classe sociale e forse - è il titolo stesso a suggerirlo - di un'identità nazionale.
Sempre con Ford, potremmo ritrovare questa prerogativa, che non è certo un vizio costitutivo ma piuttosto un valore, in Houellebecq.
"Abbiate paura della mia parola". Grande entomologo, grande metafisico e molto altro ancora, Michel Houellebecq ha scritto il suo miglior romanzo, in cui allestisce un apparato retorico degno dell'epica dei testi sacri, soggioga il lettore con i suoi toni profetici, lo diverte amaramente, lo commuove, prefigurandogli lo sfacelo che lo attende.
Matteo Ferrario



5.10.05
Recensione inviata da Silvia (Phoebe)
Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Khaled Hosseini è un medico americano. Anzi, no. Non è americano. È afgano. Cosa che, di questi tempi, negli Stati Uniti credo possa essere considerato quasi un reato. Eppure, proprio in quegli Stati Uniti di Bush, intolleranti e gretti, è diventato un caso letterario questo piccolo libro, il suo primo racconto.
Khaled racconta una storia indimenticabile, commovente e straordinaria, ma priva di eroi.
È quello che è, un canto epico di padri e figli, di amicizia e tradimento, di abissali capitolazioni e redenzioni coraggiose e sofferte. Di fughe e ritorni, fino al riscatto finale, toccante e inaspettato. Sullo sfondo la scomparsa nel nulla di un mondo, l'Afghanistan, che assiste impotente alla disintegrazione della sua millenaria cultura e al crollo di ogni certezza. Assiste con la rassegnazione disperata all'incedere della Storia, incarnata dai Sovietici prima e dai Talebani in un secondo tempo, fino ai disastrosi giorni nostri.
La storia è narrata da Amir, figlio della ricca borghesia afgana, con un padre rispettato e amato da tutti per la sua probità morale e con una madre che è morta dandolo alla luce. Hassan è il servo hazara della sua famiglia, suo compagno di giochi e temibile cacciatore di aquiloni. Con la stessa minuziosa cura con cui Amir e Hassan bambini si preparavano all'evento più importante per i ragazzi di Kabul, la gara degli aquiloni, l'autore ritrae il mondo della sua infanzia e fa rivivere il calore di quella realtà sicura e ospitale per lui, dall'odore inebriante e inconfondibile della terra bruciata d'estate e dell'aria frizzante dell'inverno mista al sapore rassicurante del tè e delle spezie.
Tuttavia questo romanzo non è solo un racconto della memoria, ferita dal presente orribile e sanguinario, ma l'affermazione della coscienza di un uomo. Un uomo normale, Amir, né pavido né eroico, né buono, né cattivo. Un uomo, solo un uomo. Che alla fine, però, non può più sfuggire al passato e deve fare i conti con i propri ricordi, le proprie sensazioni. Deve riempire vuoti che chiedono di essere colmati.
Il viaggio che Amir intraprende verso la patria è prima di tutto un viaggio in se stesso, per confrontarsi e riscattarsi da quell'antica e dolorosa colpa, un blocco di ghiaccio represso dentro di lui, ma che non ha mai smesso di soffiare aria gelida sulla sua pelle. Un peso che Amir ha sopportato in solitudine nell'esilio americano, intrappolato nel suo stesso dolore.
Al proprio destino Amir non può sfuggire, e la tragedia dell'Afghanistan si materializza in un sottofondo di voci stridenti e feroci apparizioni, mentre sulla scena si dispiega il mondo interiore di Amir e degli altri personaggi che incontra, fino alla risoluzione finale e all'espiazione della sua colpa.
Un libro da leggere, anche per capire meglio un mondo sempre più vicino al nostro.
Silvia (La stanza di Phoebe)



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