Letture e riletture


31.10.07
Doppia recensione inviata da Jane Bowie
Andrew Sean Greer, Le Confessioni di Max Tivoli (traduzione di Elena Dal Pra), 2004
Audrey Niffenegger, The Time Traveler's Wife, 2004
[tradotto in italiano da Katia Bagnoli: La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, 2005]

Due anime condannate da uno scherzo del tempo, due amori profondi beffeggiati da una cronologia impazzita. Due protagonisti che soffrono forme diverse della stessa malattia cronologica, dipinti con la tavolozza colorata di due scrittori padroni delle parole (non per niente una dei due è pittrice di successo).
Due scrittori che per uno strano scherzo del tempo anche nei loro confronti, sono usciti con i due libri nello stesso anno, il 2004.

[ATTENZIONE: i paragrafi seguenti potrebbero contenere rivelazioni sulla trama delle opere]

Max Tivoli, l'uomo che viaggia su due binari in senso opposto. Nasce nel 1871, neonato dentro, 70enne fuori. Intorno al collo la sua condanna, la medaglietta con inciso "1941", data calcolata come quella della sua morte. Viaggiando sempre su un doppio binario, Max vive i tormenti dell'adolescenza da 50enne e la crescita interiore della maturità da ragazzo; vive con l'eterna spada di Damocle sopra la testa, e l'eterno fidato amico Hughie al fianco finché un giorno non accade l'orrore.
intorno a me il mondo cominciava a crescere... Cominciai a rovesciare bicchieri d'acqua... e a inciampare sui marciapiedi... Ma il peggio fu quando il mio corpo ... in silenzio mi evirò.
Henry DeTamble, l'uomo che viene rapito dal tempo, portato via in altri momenti, e lì scaraventato nudo e indifeso. Il passato, come diceva L.P. Hartley, è un paese straniero, lì fanno le cose diversamente. Ma quando il passato è tuo e vorresti tanto che lì facessero le cose diversamente, e invece sei condannato a guardare tutto, il bello e l'insopportabile in moviola? E quando il futuro ti condanna a riportare indietro con te le cose, quella cosa, che viviamo tutti felici e sereni non sapendo...

Due uomini che si innamorano della loro donna "fin da piccola" e che la ameranno sempre. Henry, cui sarà concessa la realizzazione dell'amore vissuto e ricambiato di Claire, che lo aspetta sempre; Max che amerà e sarà amato, e non si renderà conto fino alla fine quanto, e da chi, e finalmente si accorgerà che "siamo tutti il grande amore di qualcuno".
Due scrittori diversissimi tra loro che rendono in maniera quasi plastica i loro soggetti. Le voci di Henry e Claire che si alternano in una perfetta simbiosi, a volte poetiche e a volte semplicemente banali, a volte esaltate a volte stanche e spente, due voci come tante, come le nostre, due persone in ogni loro umore, momento, pensiero, intento. La Niffenegger non maschera in esercizi stilistici il loro cruento, sanguinoso dolore, così come non riveste di mielosità e saccarina le loro gioie. E poi la voce elegante ma sincera, l'accurata visione (di Greer) di una visione non sempre accurata (di Max), l'umorismo e l'ironia, il coraggio di ridere che sfoggia sempre Max, la concessione di un'occasionale apertura del sipario sul suo mondo interiore di dolore, senza pathos, senza pietismo.

Due libri che finiscono con due protagonisti consapevoli che il tempo per loro è scaduto, due libri così diversi per stile ma nati insieme come gemelli, due autori che alla fine ci lasciano lo stesso messaggio, affidato alle ultime parole dei loro protagonisti verso le donne che amano:
Henry: "you, as an old woman, in the future. It was sweet beyond telling... live, fully, present in the world, which is so beautiful." (eri tu da vecchia, nel futuro. È stato dolce, non hai idea quanto... vivi appieno in questo nostro mondo bellissimo.)
Max: "invecchia felice amore... Lascia che i tuoi capelli incanutiscano, e che i tuoi fianchi si allarghino nella sedia... Non rimanere sola."

Jane Bowie (granepadane)



29.10.07
Recensione inviata da Lisa Pietrobon
Enrico Brizzi, Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro, 2007
È l'ultimo libro di Brizzi e costituisce una sorta di seguito al precedente Nessuno lo saprà: vengono ripresi il motivo del narratore che raccontando in seconda persona si rivolge a sé stesso come "tu" e quello del viaggio a piedi.
Quattro amici si mettono in marcia sul sentiero della Via Francigena, ricalcando le tracce dei viandanti medievali, da Canterbury a Roma. Così, lungo i passi che attraversano le Alpi, i quattro, che al giro di boa dell'età adulta si trovano a indagare sé stessi, si imbattono in un pellegrino particolare, Bern, personaggio strano: quasi un integralista cristiano, con eccessi di fanatismo e simpatia e con le braccia interamente tatuate. Bern porterà scompiglio nella comitiva e le cose peggioreranno durante il viaggio...
Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro, attraverso le atmosfere accattivanti e noir, segna la rinascita letteraria di Brizzi: par di vedere che sia nel viaggio la dimensione adatta alle corde narrative dell'ormai trentenne scrittore bolognese.
Lisa Pietrobon



28.10.07
Recensione inviata da Luca Caddia
Francesco Campora, L'acqua non ha memoria, 2007
La città è la grande protagonista dei romanzi di Campora. In questa seconda prova, non solo Roma, che si attacca addosso a chi vi abita come una seconda pelle sporca e fastidiosa, ma anche Amsterdam, la città delle canne, delle donne in vetrina, ma anche dei romani in trasferta che si fanno riconoscere quasi ovunque. Secondo una certa teoria, l'acqua conserva la memoria delle molecole che l'hanno attraversata, ma il protagonista, il sempiternamente fuoricorso Francesco Marlowe, passa e scorre per la gelida città olandese senza colpo ferire, da cui lo scetticismo del titolo. In questo romanzo il dilettante professionista accetta un incarico più pericoloso del precedente e non si accorge che, mentre matura la consapevolezza che la sua vita non è all'altezza di essere raccontata, gli altri lo osservano e gestiscono i suoi piani. Tra gli altri un serial killer che, oltre a rappresentare il secondo narratore di questo romanzo dalla prospettiva doppia, appare infine come un angelo sterminatore. Il bicchiere è mezzo pieno, il romanzo si ricorda.
Luca Caddia



27.10.07
Recensione inviata da Carlo
Peter Cameron, Quella sera dorata (traduzione di Alberto Rossatti)
Tra gli acquisti recenti, proprio da Quella sera dorata mi aspettavo molto, vuoi per le cose lette e sentite in giro sul romanzo e Cameron in genere, vuoi per un bel soggetto che, a poche ore dalla lettura, è tutto quel che mi resta. Non fosse carta stampata, verrebbe quasi da sperare in un remake.
Omar Razaghi, iraniano cresciuto a Toronto, è un dottorando all'Università del Kansas, che grazie a una borsa di studio lavora alla biografia di Jules Gund, semisconosciuto autore de "La gondola" e morto suicida. Manca solo quel consenso alla pubblicazione che gli esecutori testamentari hanno già negato, portando a un bivio la sua intera carriera: spinto da Deirdre, compagna che ben compensa la sua carenza di ambizioni, Omar parte per l'Uruguay nella speranza di convincere gli eredi.
Ciò che trova è forse la ragione stessa della reticenza, una famiglia forzosamente allargata, in declino come i possedimenti e la fortuna dei Gund. Caroline, Arden e Porzia (moglie, amante e figlia dello scrittore), dividono la villa che fu di Jules, poco distante dall'altra logora tenuta che ospita Adam (l'anziano fratello di Jules) e il giovane compagno Pete.
Il suo arrivo inaspettato convoglia su Omar le ruggini silenziose che serpeggiano in quel perpetuo meriggiare pallido e assorto, fino a spostare l'accento su questioni che col vecchio Gund hanno ormai poco a che fare.
Gran soggetto, dicevo, ma non si va molto più in là.
I dialoghi spesso velleitari e stereotipati non aiutano, ma passerebbero in sordina se solo negli altri comparti Quella sera dorata funzionasse come avrebbe potuto; del resto sono tanti i canali aperti e mai percorsi appieno, dall'emigrazione che fiorisce nel melting pot di Ochos Rios - i Gund fuggiti dalla Germania, le origini orientali di Omar, quelle americane di Caroline o thailandesi di Pete, gli amici italiani... - alla memoria, la famiglia (o le famiglie possibli), al feticcio dell'intimità altrui: luce dorata e polvere sono quanto concesso alla bella cornice uruguagia, così come la penna di Cameron s'accontenta di abbozzare i pur pochi personaggi (fatto salvo Adam, gay dandy e attempato, sagace, snob, logorroico e troppo aderente a un prevedibile cliché), affannati in una spola tra antiche paralisi e brusche epifanie mai abbastanza argomentate.
Carlo (Lo Scaffale)



26.10.07
Recensione inviata da Chiara Guidarini
Antonia Romagnoli, La Magica Terra di Slupp
In un mondo affascinante, magico e periglioso, ha inizio l'avventura di un manipolo di giovani maghi chiamati a difendere la loro terra.
Slupp, infatti, splendido mondo dove regnano incanti e magia, è in pericolo: il Signore delle Tenebre l'Oscuro Signore sta per impossessarsi della mitica spada Albin Taran Bilah Comah Geran Katalbabes, forgiata da nani, elfi, fate e giganti della cooperativa Fabbri riuniti e appartenuta per secoli alla famiglia Babes, poi persa a poker dall'ultimo discendente della famiglia.
Guidati dalla saggia Ghidia e dalla fata Gys, i nostri eroi devono cimentarsi in romanzesche avventure capaci più volte di strappare una risata, e dare prova del loro valore tramite oscure profezie, grandi magie e valorose imprese.
Un romanzo, questo, già catalogato tra le storie "delle meraviglie" grazie alla comicità che più volte imperversa tra le sue pagine, ma capace anche di strappare riflessioni profonde e, perché no, qualche lacrima.
Antonia Romagnoli dimostra con questo suo romanzo d'esordio una splendida capacità narrativa e guizzante creatività stilistica capace di rendere vivide immagini che si impongono al lettore con lampante immediatezza.
Basato su personaggi reali che ben volentieri hanno accettato di essere messi su carta e animato da nuove e grandi avventure, è un libro capace di ribaltare completamente tutti i canoni della fantasy classica, grazie non solo alla già citata comicità, ma anche agli escamotage usati dall'autrice durante la narrazione.
Slupp è magia, schiettezza e divertimento: un mondo fantastico, grande e meraviglioso che non smette mai di stupire e appassionare.
Chiara Guidarini



25.10.07
Recensione inviata da Lisa Pietrobon
Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo
Il titolo, che allude alle vicende dei Red Hot Chili Peppers, che in quel periodo si trovavano ad affrontare l'abbandono del chitarrista John Frusciante, non ha molto a che vedere con la storia che viene raccontata qui, se non per la comunanza della perdita.
La storia, ambientata a Bologna, è quella di Alex D., un adolescente alle prese con l'innamoramento per una coetanea: un amore platonico e sublimato a cui fa da sfondo la scoperta della personalità di un Alex "triste e inutile come la birra senz'alcool", un diciassettenne a cui hanno inculcato che bisogna "sbattersi per gli obbiettivi da raggiungere", una coscienza tormentata, arrabbiata, in divenire, in conflitto con la società che lo circonda, con la scuola, ma solo come sfogo alla propria frustrazione adolescenziale.
"E va bene che non bisogna dipendere da nessuno nella propria cazzo di vita, ma io mica dipendo. Io vivo anche da solo senza dipendere da nessuno, col pilota automatico. Mi sbatto le mani in tasca e comincio a camminare dove mi porta la strada. [...] Posso sopravvivere col pilota automatico, ma vivere è un'altra cosa."
Lisa Pietrobon



24.10.07
Giorgio Scerbanenco, Traditori di tutti
Il padre del noir italiano è nato a Kiev e ama Milano. Ambientazione anni '60, una schematizzazione eccessiva tra buoni e cattivi e una moralità senza abbastanza chiaroscuri, però l'intreccio regge; e poi, in un narratore che sa farsi cinico, c'è lo stupore di trovare un afflato poetico che a tratti illumina con chiarore improvviso un mondo desolato.
Giulio Pianese, ovvero Zu



3.10.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Bret Easton Ellis, American Psycho, 2001 (traduzione di Giuseppe Culicchia)

American Psycho o l'impossibilità della redenzione
Sedici anni dopo la pubblicazione, capace di sconvolgere il mondo letterario contemporaneo quanto la vita dell'allora ventisettenne Bret Easton Ellis, American Psycho si ripropone al lettore di oggi con accresciuta forza e ambiguità: memoriale di un maniaco omicida mimetizzato fra squali dell'alta finanza o diario di un privilegiato che non riesce più a reggere la sua immagine pubblica?
L'involucro seducente di Patrick Bateman, giovane yuppie di fine anni Ottanta che si divide tra Wall Street, esercizi in palestra e ritrovi mondani, cela uno spirito malato e invaso dall’odio. Smembramenti e sevizie di mendicanti, modelle, taxisti, colleghi, si alternano nel suo racconto apatico a interminabili descrizioni di vestiti, oggetti di design e recensioni dell'opera di pop star.
Collante di un materiale tanto disomogeneo è il talento di Ellis che, dopo le notevoli prove di Meno di zero e Le regole dell'attrazione e i racconti giovanili destinati a finire nella raccolta Acqua dal sole, ha scritto il suo capolavoro.
La vita interiore del personaggio è ottenuta in negativo attraverso il suo rapporto con gli oggetti, anteposti alle persone con esiti che spaziano dal comico al raccapricciante. Gran parte dei riferimenti all'attualità contenuti nel romanzo appartiene già alla preistoria consumistica, eppure è proprio questa obsolescenza di merci e celebrità a lasciare campo libero alla sua sostanza imperitura di classico.
"Ogni occidentale tormentato" scriveva Cioran, "fa pensare a un eroe dostoevskiano con un conto in banca." Ellis, che prima del dantesco incipit cita il Sottosuolo, concede a Bateman una possibilità di salvezza almeno teorica. Come nei grandi romanzi di Dostoesvskij, a offrirla è una donna di appartenenza sociale inferiore a quella del protagonista: la segretaria personale Jean, una moderna sventurata in abiti Ralph Lauren, infatuata da stili di vita per lei irraggiungibili, ma all'ostinata ricerca di un contatto umano.
La pietà si frappone quindi come unico ostacolo alla furia di Bateman, riconducibile allo scatenamento rilevato da Georges Bataille nell'opera di Sade. Come gli aguzzini delle 120 giornate di Sodoma, Bateman tortura e distrugge i corpi dei suoi simili per negare la propria appartenenza a un ordine di cose finite.
A fare del romanzo di Ellis un'opera blasfema agli occhi del pubblico di fine Novecento è tuttavia un ulteriore scarto compiuto dall'autore, che riesce a fare delle atrocità di Bateman una maldestra riscossa prometeica del figlio occidentale, lasciato solo in balia del mercato. Da una parte lo vediamo rispondere a un impulso conservativo, tenendosi aggrappato all'ambiente sociale di provenienza con una recita che gli costa sempre maggior pena, e dall'altra inseguire una disperata affermazione di vitalità tramite la distruzione di questo suo mondo.
Se il Pasolini di Salò finisce per riportare il sacrificio umano alla sua funzione originaria di mantenimento di un ordine, riproponendo i torturatori delle 120 giornate nella veste di gerarchi fascisti, Ellis mette la crudeltà a disposizione del suo controverso eroe come ultimo strumento di liberazione, ma solo per denunciarne l'impotenza.
Consegnando alla storia della letteratura la deriva individualista di una Manhattan da cui non c'è scampo, American Psycho teorizza l'impossibilità della redenzione in una società in cui "Dio non è vivo" e il male è "l'unica cosa permanente".
Matteo Ferrario



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