Letture e riletture


3.5.06
Recensione inviata da Gianpaolo Armani
La violenza di Isidoro Cavada - il protagonista di Seme di metallo, l'ultimo romanzo di Maurilio Barozzi (ed. Curcu & Genovese, Trento, pp. 216, euro 14), ambientato nel Trentino del 1920 - è la violenza della natura e degli esseri terreni. Cavada, il forestiero che arriva in paese al termine della Grande guerra senza una storia, sembra uno spirito malvagio, piuttosto che un uomo. O, vista la sua predizione, un animale che ha la capacità di avvertire le disgrazie. Eppure, nonostante tutto, il meschino ambiente in cui si trova ad agire non lo smarca completamente facendolo risaltare come un personaggio negativo in un contesto positivo. "Figliolo, non vorrai che venga giù ora, lasciando qui il poiàt col fuoco, allora sì che lo ritrovo, il carbone. Ci sono in giro tanti di quei ladri, e violenza... Tanta violenza. Non la userai mica per far del male, quella zappa?", dice il fabbro mentre costruisce la carbonaia. No, in una terra boscosa, in cui spiccano gli elementi naturali, duramente stilizzati, gli unici valori sociali sui quali questo vagabondo è misurato dai paesani sono quelli della frequentazione della messa o della voglia di lavorare. Una terra che, ironia della sorte, sarà poi violentata e sformata da una fabbrica enorme, estremo simbolo del lavoro.
Lessi il manoscritto già nel 2002, in occasione della sua premiazione al concorso Pungitopo, nelle Marche, con il vecchio titolo di "Vergine in Bilancia", e già allora espressi tale considerazione, ma adesso, con questo titolo più gelido del ghiaccio e alcune modifiche strutturali, penso che l'importanza dell'ambientazione cresca notevolmente. Anzi, oltre a Cavada e la fabbrica di alluminio, direi che proprio l'ambiente è il vero protagonista del romanzo. Pure la struttura, che ricorda le narrazioni orali da osteria, portate avanti senza troppo ordine né consapevoli prese di distanza, riproduce tale sensazione. E il finale suggerisce di considerare l'autore come il semplice estensore di una vicenda nella quale egli stesso è compreso, annullando la cesura tra chi narra e chi è protagonista.
L'ambiente, dunque. Un ambiente che pare rifiutare il progresso e l'ignoto. Un ambiente conservatore che - in ultima analisi - trova proprio in questo essere conservatore la forza di mantenere coesa la sua popolazione, i suoi abitanti, la sua comunità. Anche quando, e qui si annida la critica, magari non dovrebbe esserlo.
E così: nella terra del romanzo, la novità - sotto forma di una fabbrica o di un forestiero che la predice - stenta a trovare spazio. Come se quella terra fosse freddamente distaccata, di metallo appunto. Il caso però, forse ancora più violento degli uomini e della terra in cui Seme di metallo è ambientato, fa sì che le novità che fanno capolino in paese siano effettivamente temibili. In primo luogo il forestiero che predice la sventura di un'alluvione (e la nascita dello stabilimento), sopravvive rubando e commettendo crimini abietti senza alcun rispetto per la morale, l'etica e la cultura del paese che gli ha dato asilo. Ma pure la fabbrica di alluminio che portò lavoro, certo, ma anche un carico di malattia e di diseconomie dalle quali il paese non riuscì a liberarsi, nemmeno dopo la chiusura: venticinque anni di improduttività e una pietraia di 22 ettari (come spiega l'autore nel sito del libro).
Insomma, la forza del romanzo sta proprio nella descrizione di un mondo arido e compatto anche nei suoi pregiudizi. E il suo pessimismo, quasi nichilismo, forse, scaturisce dalla casualità che rende tali pregiudizi tragicamente veritieri. Quasi come se la natura umana fosse governata da forze maligne che non permettono nemmeno la speranza nel riscatto. Scrive Maurilio Barozzi nell'ultimo dei brevi flash contrassegnati da una data: "Ora LA FABBRICA, nata in quel giorno di piena quando Virgo toccò Libra, dorme. Ma la piena tornerà, la pietra sarà risvegliata dalla mano dell'uomo che - delirante - penserà di averla creata. Invece sarà solo un'altra storia".
E anche il colpo di scena finale, sovvertendo la dinamica che pareva essere dietro alla trama raccontata in un'ennesima nuova verità rimasta fino ad allora nell'ombra, contribuisce ad alimentare il pessimismo. Nello stesso tempo, tale rivelazione, l'unico elemento di dolcezza - possiamo chiamarlo così? - suona quasi come un'ultima confessione, l'estremo tentativo che l'uomo, giunto alla fine della sua vita, mette in atto per salvare se stesso e il mondo che lo circonda. E probabilmente non è ininfluente il fatto che tale tentativo, in un mondo essenzialmente dominato da un'umanità gelidamente virile, sia messo in atto da una donna.
Gianpaolo Armani



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