Letture e riletture


30.3.05
Contributo inviato da b.georg

Antica amicizia elettrica. Omaggio, utilizzo, citazione, parodia, titolazione e link a Oblio, di D. F. Wallace.

Spesso diciamo cose tanto per dire, ma sulla superficie di quello che diciamo si mostrano i nostri modi di pensare, di collegare o separare le cose tra loro e con noi, in definitiva la nostra collocazione. È interessante e ozioso provare a ricostruirle quei modi, cioè smontarli. Oltretutto bisogna sapere che anche questo tentativo di ricostruzione è una cosa detta "tanto per dire", quindi non possiede una verità superiore, ma solo una verità interna, relativa alle regole di questa pratica (pensate che verità relativa sia un ossimoro? In effetti). Potrebbe, anzi dovrebbe, essere essa stessa sottoposta al medesimo trattamento (pensate che un insieme non può contenere se stesso, come fosse oltre il limite della propria definizione? Sembrerebbe proprio così).
Smontare discutendo (diversamente da montare narrando) è un gioco che si fa con celata leggerezza - o evidente pesantezza - e la sua utilità in genere è farci credere di disperdere la nostra inconsapevolezza rispetto agli schemi che usiamo, illuderci necessariamente di man mano scoprirli, recitarne la distanza da noi, e quindi ritrovarsi alla fine apparentemente senza schemi, nudi e che non sappiamo più cosa pensare. Uno strip poker del cervello. E una nudità che tuttavia coincide curiosamente con tutti gli abiti che indossiamo, o meglio: con la nostra possibilità di indossarli, e la riflette, la raccoglie, la lega. Di nuovo contraddizioni. Infatti non dico che funzioni sempre, anzi a ben vedere è un gioco che non funziona mai, per principio, e l'imperfezione è la sua regola di spostamento. Ma era necessario giocarlo. Almeno credo. Consiste nel rinunciare a costruirsi un passato di convenienza? O non è comunque sempre il futuro a determinare il passato?

Spesso invece invochiamo la sincerità. Io non sono tanto sicuro che la sincerità sia un valore. Ognuno sa piuttosto poco di se stesso; come dice il poeta, che qui le citazioni son sempre le stesse, "io sono quello che tra tutti non incontrerò mai" (eppure ne parla, no?). Quindi sincerità sembra che significhi: attingere a un grado più elaborato, anzi più tortuoso, di menzogna, o di costruzione se si preferisce. Costruire è una bella cosa, farlo tortuosamente forse no (che lenza...).
Se fosse davvero possibile essere "sinceri", non si dovrebbe infatti giungere molto presto al silenzio? Ammesso che al fondo non ci sia un nocciolo - un se stesso da sempre deciso - un grumo inesploso da dipanare con interminabile logorrea; piuttosto uno spazio vuoto, la non-cosa che ci permette di farci attraversare, di attraversare e di rimanere in qualche modo coesi, cioè di essere diversi da un sasso, ammesso che sappiamo davvero cosa sia un sasso.
Si arriverebbe a un curioso "silenzio parlante", che poi è stranamente proprio quello del sasso, o dell'animale o di noi stessi nel divenire sassi o animali o altro.

(e sai che stai scrivendo tutto questo perché ti si possa rinfacciare con disprezzo questa assurdità, ti si possa dire la vanagloria di una ricerca che non vuole ammettere la sconfitta, il fatto che hai cercato un significato in ogni cosa intorno a te materiale o ideale senza trovarlo, e poi in te stesso e in una narcisistica e presunta diversità dall'uomo medio comune, in certi aspetti cruciali e superiori, per così dire centrali, significativi, in un fantasticato talento che ti faceva destinato a far differenza nel mondo con la tua centralità presunta e prospettica, centralità costituita dal fatto di essere in realtà semplicemente il centro esatto di tutte le esperienze che hai vissuto nell'intero corso dei tuoi anni di vita cosciente, fino alla decisiva scoperta della tua inesistenza stessa come individuo giocato e destinato, più ancora della tua medietà incurabile, e allora hai deciso - questa è il centro dell'accusa cui ti sei apparecchiato - di cercarlo grossolanamente diremmo nelle non-cose, nel nulla, nell'assenza inutile e nello sfondamento, come se un significato a tutti i costi si potesse cavare dallo zero se non si può dall'uno; e sai soprattutto che stai scrivendo questa confessione verbosa tra parentesi per sviare ancor più le tracce usando smaccatamente le parole di un romanzo alla moda, tic di filosofi mai stati troppo di moda e altro ancora qui incastonato tra una riga e l'altra e rapinato persino dai giornali e ora come non bastasse - e infatti non bastava e l'hai detto - stai facendo conseguente e didascalica autodenuncia al plagio stesso, quasi ad alludere - e a smentire l'allusione col rivendicarla alla luce del sole - che tutta questa premura che dallo scritto trasuda verso una direzione possibile anche fosse una non direzione o la circospetta anatomia della propria direzione la stai torturando con tecniche da rigattiere post-moderno dentro lo scritto e rinviando all'infinito, la stai immergendo nell'incurabile inconcludenza e la mostri stupidamente fiero come il pescatore solleva in trionfo il pneumatico in disuso appeso all'amo, quando tutti se ne sono già andati via intoni il tuo estenuante karaoke)

Ma non è a questa sincerità che si pensa quando si invoca la sincerità.
Ciò cui si mira è un tentativo di scuoiarsi per vedere "cosa c'è sotto", e scuoiarsi è un'attività complicata, che oltretutto sporca il soggiorno. Ma "dentro" probabilmente non abbiamo segreti, solo gli organi interni, il dentro è tutto fatto di fuori. Ciò che ci accade e che siamo, è tutto in superficie, perfettamente visibile: una visibile e determinata modulazione di carne. Siamo già nella verità, e come non potremmo? Non serve cercare di entrare negli altri, dato che noi siamo già negli altri, e nel contempo separati da essi, da sempre o anche prima, oppure non sapremmo per esempio parlare o fare un sacco di altre cose che normalmente facciamo "con" gli altri, dentro e fuori dagli altri, tra cui primariamente desiderare, soffrire ed essere indifferenti.

È assai probabile che se tutti provassero a essere sinceri in questo secondo e vano modo, singhiozzando uno nelle braccia dell'altro a tarda sera e tirando fuori le paure private più terrificanti e i pensieri di fallimento e impotenza e le terribili piccinerie bell'e buone, denuncerebbero, "dietro" ai propri atti, sentimenti comuni: passione, invidia, vanagloria, paura, senso di vuoto, desiderio di compiutezza, piacere, narcisismo, pietà e così via. Non credo scoprirebbero niente di nuovo. Ora, questo sarebbe "vero"? Cioè: il vero di noi è ciò che ci fa coincidere con noi stessi? Detto diversamente: saremmo con ciò "più vicini" a noi stessi o agli altri? Ammesso che sia desiderabile: non è forse il permanere di una distanza ciò che permette di articolare una relazione? Potremmo scoprire le rispettive colpe o mancanze e i rispettivi punti di solidità, i pregi a cui cercare di somigliare o gli insormontabili difetti che ci condannano; ma cosa distinguerebbe questa volontà di sapere circa noi o gli altri, dalla volontà di possederli o possederci? E c'è impegno più complicato, tortuoso, impossibile e inutile che tentare di possedere qualcuno o se stessi?

Inventare un discorso su di sé per giungere a un "qualcosa", a un dato, a un "vero-di-sé" collocato dentro di noi che ci faccia permanere nell'essere che siamo, significa a ben vedere sottoporsi a un giudizio etico già deciso, già stabilito, già regnante e a cui si deve uniformare il discorso, su ciò che è bene e ciò che non lo è; e questo giudizio è una profezia che si avvera, cioè ci fa diventare ciò che il giudizio decide sia "essere una persona", quindi magari avere passioni negative, o positive o qualsiasi altra cosa. Niente di male, in sé.
Credo però che quell'attività prepotentemente tautologica che è la costruzione di comuni modi di vivere-assieme, non consista nello scoprire la rispettiva verità, che è già tutta alla luce del sole (o non sarebbe) ma nel costruire forme di transitare gli uni negli altri. Riti, se si vuole chiamarli così. Forme pienamente vuote. Agio, anche se spesso disagio.
Scrivere può anche essere uno di questi riti che, come gli altri, ci fa diventare ciò che già siamo, spostandoci tuttavia impercettibilmente di lato e aprendo una nuova distanza. Non per costruirci sopra la nostra sincera verità. Per distruggerla, magari.

Non ci sono ovunque serrature, né chiavi, solo porte girevoli e noi tra gli altri siamo queste porte. È sensato pensare che meno la porta è ostruita, più assolve alla sua funzione di transito. Scrivere è dunque forse un modo di scartare, e lo scritto è uno scarto. Quando lo diciamo bello è perché parla di sé (parlando d'altro) e piegato amorevolmente su di sé, si narra. Così possiamo alla fine persino amare noi stessi, e il nostro corpo che piega e segna il mondo, operazione la più ovvia e complicata di tutte.

b.georg (falso idillio)



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