Letture e riletture |
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Questo è uno spazio pensato per chi dopo ogni lettura desidera condividere le proprie
impressioni o le proprie emozioni. |
22.8.03
Preferenza inviata da Paola
avevo deciso di scrivere qualcosa ma quando decidi che è il momento giusto per farle le tue cose migliori o ti vengono una merda o non ti vengono proprio. è proprio questa la differenza tra me e un grande scrittore, non so ad esempio marquez. lui quando ha partorito cent'anni di solitudine era bello bello in macchina, direzione vacanza, con tanto di moglie e due figli. zacchete. l'ispirazione, il momento magico, quello in cui potresti dettare parola per parola tutte le 800 pagine. e che ha fatto? ha rigirato la opel, è tornato alla su' casa e si è messo a scrivere. tu dirai: certo lui se lo poteva permettere! manco per niente: era talmente poveraccio che s'è dovuto vendere la opel e la moglie di suo ha venduto il phon. di fatto s'è chiuso in casa per un anno e ha vomitato su carta assorbente tutto quello che nei decenni andati aveva serbato nella sua memoria e nel suo cuore. e io ancora dovevo nascere. 8 mila copie vendute in una settimana, proprio la settimana della guerra dei sei giorni, proprio la settimana in cui la rivista primera plana gli doveva dedicare la copertina e che all'ultimo momento dovette cederla alla guerra. 8 mila copie senza uno straccio di pubblicità. tu dirai: ma aveva già scritto cose come le foglie morte, nessuno scriva al colonnello, la mala ora, i funerali della mamà grande! si si le aveva scritte ma se al monte dei pegni portò anche l'asiugacapelli, tu quante copie di quei libercoli credi avesse vendute? pochine. un libro magico visto che la mamma, che se è ancora viva dovrebbe avere oggi 100 anni, in vecchiaia si trasformò nella perfetta ursula. io ancora non ero nata e nel maggio del '68 uscì in italia e vendette 1 milione e mezzo di copie. ad oggi ne ha vendute più o meno 25 milioni nel mondo. un libro misterioso perchè fu visto come una specie di manifesto pur non rispecchiando affatto le idee del '68. doveva intitolarsi con un insulso "la casa" e invece aureliano, ursula, remedio e tutti gli altri scalpitarono talmente forte che fu impossibile tenerli in casa e così la casa cedette il posto a cent'anni di solitudine. gabo si ritrovò ad essere prigioniero della sua stessa creatura, quasi odiata perchè mito, mentre lui avrebbe voluto solo scrivere un libro. poi venne la crisi certo, perchè tutti si aspettavano un altro cent'anni di solitudine e invece sfornò l'autunno del patriarca, ora come ora forse il più amato dei suoi libri, ma non amato a quei tempi. insomma, nel frattempo io sono nata, cresciuta e pasciuta e darei la mia mano destra, chè non sono neanche mancina, pur di trascorrere una giornata con lui a chiacchierare. Paola 12.8.03
Recensione inviata da GiallodiVino
L'affondatore di gommoni, di Francesco De Filippo La vita del Genio d’Albania di qua e di là dell’Adriatico. La vita di uno che non è un semplice scafista, ma fa qualcosa di più, lavora come Affondatore di gommoni (Mondadori, 216 pagine, 16.60 euro). Mestiere che è il titolo del secondo romanzo di Francesco De Filippo. Un viaggio agli inferi andata a ritorno, compiuto con la tenerezza e lo stupore che s’addice a un bambino. Pjota Barnovic - il protagonista, l’affondatore - è un ragazzino. “Sono uno specialista io, un professionista. Non uno scafista qualunque, che rischia la sua vita, quella degli altri, che ha a che fare con la polizia (...). Io sono libero”. Essere affondatore di gommoni è un privilegio, perchè si tratta di un incarico rischioso e difficile. Pjota - nonostante sia un mocciosetto che vive in mezzo alle peggiori gang criminali che trafficano carne umana, droga e armi in mezza Europa - viene scelto perchè lui è un genio. Ha letto tutto, tutti i libri, li ha imparati a memoria, ma non sa nulla della vita. Così il suo capo, Razy Leone Papà, lo prende con sè. “Razy mi piaceva, andava in giro con un'auto lunghissima e con uomini armati che non lo lasciavano mai. Ma soprattutto mi piaceva quel suo incisivo d’oro: un tocco di eleganza e di distinzione, di distinzione sì. Nessuno poteva permetterselo, soltanto lui; mio padre ne aveva uno ma dovette impegnarlo quando nacque Natasha. Tutte le altre dentature del villaggio vivevano più di cavità che che di osso e smalto”. Razy Leone Papà vuole Pjota con sè e ma prima deve metterlo alla prova, farlo scendere in una grotta dove piega le volontà delle ragazze che andranno a battere oltremare. Un antro che ricorda quello dov’era rinchiuso Hannibal, nel Silenzio degli innocenti. Ancora più lurido e schifoso, buio e affollato di topo lunghi come un braccio. Ma Pjota un giorno se ne va dall’Albania, arriva in Italia. E gira come una trottola tra Napoli, Milano e Roma. E vede l’inferno con i suoi occhi. Le puttane, i boschi frequentati da travestiti e papponi, s’inventa improbabili commerci di preservativi, batte lui stesso e riprende a fare l’uomo di fiducia di una gang. Sentite qua: “il gioco era che gli uomini passavano con le macchine e ogni tanto qualcuna si fermava, faceva una domanda alla femmina e quella se rispondeva bene allora saliva sulla macchina e lui la portava a fare un giro e tornavano dopo un poco, altrimenti niente. (...) Battere lo chiamavano questo gioco, c’erano tante ragazze, pure albanesi, anche se non capivo perchè si chiamava così in quanto nessuno si batteva. E la ragazze nel gioco si chiamavano puttane”. Una storia semplice, avrebbe detto Sciascia. “La notte stavo dentro alle stazioni, sotto i cartoni e vedevo la luna con un litro di vino nella testa che qualcuno mi faceva bere, mi addormentavo e chiedevo al cielo nero che stava sopra di me, alle stelle, chiedevo un poliziotto del cielo, qualcuno che esistesse che mi facesse passare la paura, come potevo diventare italiano in Italia. In Albania non avevo paura di nulla, ma lì, in Italia, da albanese, sì, ce l’avevo la paura. Tanta”. Il romanzo sembra la trascrizione di un racconto orale. La vita di Pjota narrata da lui medesimo. C’è uno stile che De Filippo si porta dietro, e che gli consente di rendere con naturalezza le prospettive più truci e i panorami più desolanti. Non si tratta di un reportage sulle disavventure di un ragazzino che sbarca ne Lamerica, da un gommone di clandestini. È un romanzo, e potrebbe anche essere la vicenda di un piccolo messicano che scavalca il muro nero che separa Tijuana dagli States e invece d’arrivare a Napoli mette piede a Las Vegas, l’effetto sarebbe lo stesso. È l’obiettivo scelto dalla macchina da presa che dà a questo libro una marcia in più. Un tele che sta sempre dietro le spalle di Pjota e ci mostra il mondo, l’Albania, l’Italia come lui la vede. E non è facile. Se avete letto Céline, e v’è piaciuto Viaggio al termine della notte. Se vi ha appassionato J.T. Leroy di Sarah. Provate una dose di De Filippo. Uno con una faccia normale, stempiato il giusto, occhiali tondi e che nella vita fa il giornalista all’Ansa. Ma che intinge la penna in un epos quotidiano, surreale, ma allo stessso tempo vicinissimo a noi, e ne tira fuori una storia che prende giù alla bocca dello stomaco e ti lascia respirare soltanto alla fine. Provate a immaginare un bambino che vede e vive stupri, amazzamenti e vite bruciate dal buco d’una serratura. E questo buco, piano, piano s’allarga. Non bastano tutti i libri che Pjota ha letto per svelargli tutto il male e l’amore del mondo. Deve viverli sulla sua pelle. Nicola
Recensione inviata da Latte & fiele
Di tutti i mali che il colonialismo ci ha portato, il più subdolo è stato il "sogno d'amore". Affermazione delle donne somale al Forum Migranti e Native. Roma, 1997. Maria Cristina Fedrigotti, Sogni d'amore, Edizioni Energy - ISBN 88-88244-09-3 È un mosaico di sentimenti e contraddizioni, quello che ci ha regalato Maria Cristina Fedrigotti. Dopo lo splendido ed incredibilmente maturo esordio con A cosa stai pensando, arriva Sogni d'amore edito da Energy. Il primo racconto, Alba, ha vinto lo scorso anno il premio Teramo. Ma Alba è solo l'inizio, l'aurora di una più complessa rete di rapporti e di illusioni, di incantesimi e di speranze, che hanno come perno storie di donne. Donne in un impianto narrativo forte e capace di sorprendere, coeso eppur prismatico. Donne un po' in là nel tempo, quasi che il contesto storico e culturale più timido possa fungere da alibi, sino a giustificarne l'ingenuità. Donne riscattate forse oggi dal personaggio di Chiara, che sembra voler fare da contraltare alla sconfitta emotiva di chi l'ha preceduta. L'hanno preceduta storie diverse, raccontate con voci toccanti e personalissime, che anche stavolta denotano la completa capacità di mimesi linguistica dell'autrice, che sembra sciogliersi, scomparendo nelle voci delle sue donne. Voci che a loro volta sprofondano nel loro tempo, nei ricordi, in un'immagine di femminilità che sembra voler essere congelata per non cedere il passo alla vecchiaia. Sentimenti, sogni d'amore, totalizzanti e distorti. Di quelli che alzano la soglia del dolore. Perché la vita con l'uomo che si ama è privilegio, grazia ricevuta, e il tradimento un prezzo giusto da pagare. Il dolore diventa allora una prova di appartenenza che non può mai condurre al disincanto. Il riscatto, quello di Chiara, quello della nuova generazione, porta lontano dai sogni d'amore, dalle illusioni che hanno ferito le donne. Una nemesi, nell'intenzione di Maria Cristina Fedrigotti, che lancia Chiara verso un futuro più consapevole, senza rinnegare la forza d'animo delle protagoniste e rispettandone la sofferenza. Latte & fiele
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