Letture e riletture |
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impressioni o le proprie emozioni. |
25.11.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi, 2005 (traduzione di Martina Testa, 2006) Il paese per scrittori Tre personaggi dalla statura di eroi classici si danno la caccia attraverso i paesaggi sconfinati del Texas dei primi anni Ottanta in questo romanzo che Cormac McCarthy conduce magistralmente attraverso l'azione registrata in terza persona e un orecchio unico per i dialoghi, senza per questo togliere peso e lucidità alle soggettive dal punto di vista principale dell'opera: quello di un uomo del passato che non si riconosce più nel mondo in cui vive. Il sistema di valori di Bell, vecchio sceriffo di una piccola contea, si confronta con la natura diabolica di Anton Chigurh, criminale perfetto che nessuno ha mai visto in faccia senza essere ucciso pochi istanti dopo. Moss, reduce dal Vietnam che vive in una roulotte con la giovane moglie, cacciando antilopi nel Rio Grande si trova di fronte a una scena emblematica del crollo di ogni etica, compresa quella mercantile: la consegna di una partita di eroina risoltasi in una strage perché nessuna delle due parti intendeva mantenere fede agli accordi. Aggirandosi fra cadaveri e fuoristrada crivellati di colpi, Moss trova un solo superstite pressoché dissanguato e una borsa con due milioni e mezzo di dollari. Il denaro entra in gioco con tutto il potere rivelatore che ha nei romanzi di Dostoesvkij, concedendo al personaggio l'attimo di libertà sovrana che ne compie il destino. Moss è alla ricerca dell'avversario. Quello che lo stesso Bell non ritiene saggio affrontare: a metà tra un'oscura forza e un demiurgo cattivo che, attraverso il caso e un suo indecifrabile codice d'onore, invita i mortali a giocare con lui. Abbastanza incosciente da non tirarsi indietro - sventurata vocazione che rimanda a quella di uno scrittore - Moss mette a repentaglio tutto ciò che ama per fronteggiare la sfida finale. Matteo Ferrario 15.11.07
Recensione inviata da Dario Arena Michel Houellebecq, La possibilità di un'isola (traduzione di Fabrizio Ascari) "Sparito il contatto, svanì anche il desiderio."Agghiacciante, aggiungo io. "Mi resi allora conto che a poco a poco tagliavo i ponti con tutto; in quel mondo non c'era forse un posto adatto a me."Metafora della frantumazione della speranza è quando Daniel 25 trova il frammento del simposio di Platone, si ricorda di come continua la parte mancante e la cita mentre il documento gli si sbriciola fra le mani. "mi dirigevo verso un nulla semplice, una paura assenza di contenuto"Abbiamo appena letto la testimonianza più lucida dell'assenza di speranza in una storia che riguarda l'uomo e l'umanità intera. Non aggiungerei altro, al riguardo. Un altro dei temi di questo grande romanzo è la presenza della sofferenza contro il suo opposto, l'assenza di sofferenza. La sofferenza patita da Daniel1 è la più velenosa tra quelle che possa subire un essere umano. La sofferenza assoluta è conseguenza di un dolore assoluto autogenerato – la consapevolezza di un tumore - o sorto per causa d'altri in se stesso - la morte di un familiare caro. È un dolore-sofferenza assoluto, dai contorni netti, privo di sfumature, senza compromessi, di cui dobbiamo farci carico – con o senza speranza, ma sulla speranza abbiamo già sentenziato – e che abbiamo facoltà di comunicare agli altri attraverso l'esternazione dell'afflizione e l'immagine del nostro patimento. Il tessuto della sofferenza di Daniel è invece intriso di veleno dispensato dall'universo femminile, l'unico in grado di generare vita o morte, amore e indifferenza, passione e dolore. È un tormento collegato alla passione, mescolata a tante altre sensazioni ambigue, interlocutorie, composte d'opposti. Il protagonista è vincolato a questa sofferenza contenente numerosi elementi contradditori, più quello relazionale alla sua età. Si aggrappa alla sua amante più giovane per iniettarsi quella fiducia nella vita che avverte di essere sul punto di perdere poco a poco. Ella poi si indirizza verso altre esperienze, si sottrae a lui, l'effetto dell'eroina nel cervello di Daniel svanisce, Daniel accusa la differenza e si svuota. Per placare la propria astinenza – c'è anche chi nella storia la propria astinenza non la placa continuando a farsi davvero, di morfina, è una conoscente del protagonista intrisa di noia, poi trasformatasi in morte - decide di delegare il proseguimento della propria vita al suo clone, offrendo alla specie umana la possibilità di mantenersi in essere in un'isola. Un'isola ove, come scrive Houellebecq, "sparito il contatto svanì anche il desiderio". Ove egli, scegliendo di morire, ha scelto anche di presenziarvi, contraddistinto da un numero privo di sentimenti, anzi impersonificato in esso. L'isola del titolo a mio avviso è rappresentata dagli appartamenti in cui sopravvivono i cloni. È un libro di opposizioni, di opposte fazioni. A partire dalle contrapposizioni: futuro vuoto vs. montagna [piena], sogni e presenze emotive vs. vita reale, ero vs. non ero più. Il neo-umano e i selvaggi. Terra secca contro cielo riarso. La selvaggia che gli si offre putrida contro la sua Esther profumata che è fuggita da lui. Il mondo come lo conosciamo contro il mondo dopo la prima e la seconda Diminuzione. E ancora la frase finale, già contraddittoria fra i suoi componenti, nel suo insieme ancora contraddice il finale di Daniel25, lo spegnimento infinito, il decadimento solitario, l'attesa fine a se stessa: cioè il nulla. E infine l'amore ossessivo di Daniel e il suo riscontro opposto nell'indifferenza velenosa di Esther. Uno di quei libri che scuote dentro, che lascia profonda traccia emozionale dentro ciascuno di noi, che in qualche modo si ama di forza. Uno di quei romanzi che dovrebbero essere letti tre-quattro volte. Anzi, dovrebbero essere studiati. Dario Arena
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