Letture e riletture


3.10.07
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Bret Easton Ellis, American Psycho, 2001 (traduzione di Giuseppe Culicchia)

American Psycho o l'impossibilità della redenzione
Sedici anni dopo la pubblicazione, capace di sconvolgere il mondo letterario contemporaneo quanto la vita dell'allora ventisettenne Bret Easton Ellis, American Psycho si ripropone al lettore di oggi con accresciuta forza e ambiguità: memoriale di un maniaco omicida mimetizzato fra squali dell'alta finanza o diario di un privilegiato che non riesce più a reggere la sua immagine pubblica?
L'involucro seducente di Patrick Bateman, giovane yuppie di fine anni Ottanta che si divide tra Wall Street, esercizi in palestra e ritrovi mondani, cela uno spirito malato e invaso dall’odio. Smembramenti e sevizie di mendicanti, modelle, taxisti, colleghi, si alternano nel suo racconto apatico a interminabili descrizioni di vestiti, oggetti di design e recensioni dell'opera di pop star.
Collante di un materiale tanto disomogeneo è il talento di Ellis che, dopo le notevoli prove di Meno di zero e Le regole dell'attrazione e i racconti giovanili destinati a finire nella raccolta Acqua dal sole, ha scritto il suo capolavoro.
La vita interiore del personaggio è ottenuta in negativo attraverso il suo rapporto con gli oggetti, anteposti alle persone con esiti che spaziano dal comico al raccapricciante. Gran parte dei riferimenti all'attualità contenuti nel romanzo appartiene già alla preistoria consumistica, eppure è proprio questa obsolescenza di merci e celebrità a lasciare campo libero alla sua sostanza imperitura di classico.
"Ogni occidentale tormentato" scriveva Cioran, "fa pensare a un eroe dostoevskiano con un conto in banca." Ellis, che prima del dantesco incipit cita il Sottosuolo, concede a Bateman una possibilità di salvezza almeno teorica. Come nei grandi romanzi di Dostoesvskij, a offrirla è una donna di appartenenza sociale inferiore a quella del protagonista: la segretaria personale Jean, una moderna sventurata in abiti Ralph Lauren, infatuata da stili di vita per lei irraggiungibili, ma all'ostinata ricerca di un contatto umano.
La pietà si frappone quindi come unico ostacolo alla furia di Bateman, riconducibile allo scatenamento rilevato da Georges Bataille nell'opera di Sade. Come gli aguzzini delle 120 giornate di Sodoma, Bateman tortura e distrugge i corpi dei suoi simili per negare la propria appartenenza a un ordine di cose finite.
A fare del romanzo di Ellis un'opera blasfema agli occhi del pubblico di fine Novecento è tuttavia un ulteriore scarto compiuto dall'autore, che riesce a fare delle atrocità di Bateman una maldestra riscossa prometeica del figlio occidentale, lasciato solo in balia del mercato. Da una parte lo vediamo rispondere a un impulso conservativo, tenendosi aggrappato all'ambiente sociale di provenienza con una recita che gli costa sempre maggior pena, e dall'altra inseguire una disperata affermazione di vitalità tramite la distruzione di questo suo mondo.
Se il Pasolini di Salò finisce per riportare il sacrificio umano alla sua funzione originaria di mantenimento di un ordine, riproponendo i torturatori delle 120 giornate nella veste di gerarchi fascisti, Ellis mette la crudeltà a disposizione del suo controverso eroe come ultimo strumento di liberazione, ma solo per denunciarne l'impotenza.
Consegnando alla storia della letteratura la deriva individualista di una Manhattan da cui non c'è scampo, American Psycho teorizza l'impossibilità della redenzione in una società in cui "Dio non è vivo" e il male è "l'unica cosa permanente".
Matteo Ferrario



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