Letture e riletture


21.8.07
Recensione inviata da Carlo
Zadie Smith, On Beauty, 2005
L'ho preso appena uscito, iniziato, lasciato, ripreso, finito, riposto. A pensarci, non so se attribuire l'idea di discontinuità che associo al libro (se devo trovare un limite) alla mia lettura indisciplinata, o se addebitarla all'imperfetto amalgama dei molti, diversi elementi che si accavallano in 443 pagine di romanzo.
Un'impietosa caricatura del mondo accademico (che la Smith ben conosce) è il pretesto per l'esplorazione di temi già affrontati nei lavori precedenti: come in Denti Bianchi, al quale On Beauty è più vicino, al centro degli eventi è il rapporto tra famiglie radicalmente diverse, stavolta costrette al confronto da infinite e imprevedibili connessioni.
Howard (non a caso: il romanzo è un omaggio a Howard's End di E.M. Forster) Belsey è un docente di Wellington, bianco, laico e liberale, sposato con Kiki, impiegata afro-americana. Dalla loro unione Jerome e Zora, votati l'uno al superamento, l'altra all'incarnazione dei valori di famiglia, e Levi - carattere smithiano per eccellenza - coinvolto nella compulsiva ricerca di un'identità, passi essa per la cultura hip hop o l'impegno nella causa haitiana.
Monty Kipps, marito di Carlene e padre della bellissima Victoria, è un illustre accademico di colore, cristiano conservatore e detrattore dell'affirmative action ("Equality was a myth, and Multiculturalism a fatuous dream"), è un autore di successo in eterna querelle con Howard per le opposte vedute sull'opera di Rembrandt (secondo Howard niente più che un abile artigiano) e l'arte in genere, che Mr. Belsey definisce, con decadente cinismo: "the Western myth, with which we both console ourselves and make ourselves". Non così per Kipps, che colleziona dipinti di valore: "Art was a gift from God, blessing only a handful of masters, and most Literature merely a veil for poorly reasoned left-wing ideologies".
Due intellettuali agli antipodi, eppure vittime di identiche debolezze, in un romanzo quasi matriarcale: uomini fragili, volubili, vili, alienati, piccoli e banali, che camminano sulle spalle di donne granitiche.
Sullo sfondo della difficile convivenza a Wellington (e delle frizioni che ne scaturiscono), si scrive e ragiona di arte, amore, tradimento, politica, religione, disuguaglianza (il ritratto dell'impaccio con cui le vecchie minoranze, fagocitate dalla middle-class, fanno i conti col proprio status, le categorie in cui riconoscersi [è ancora sufficiente parlare di "colore"?] e le nuove classi subordinate è magistrale), ma soprattutto di bellezza: quella dipinta, quella scritta, quella che si fa potere (come per Carl, rapper locale, il cui aspetto e carisma hanno forse un ruolo nel successo dei suoi versi), quella negata, quella scordata e riscoperta troppo tardi.
Né manca, la bellezza, nell'usuale perfezione ed equilibrio dei dialoghi, negli infiniti registri modellati sui personaggi (dallo Standard Black English alle forme pompose della dissertazione accademica, che spero non siano andati persi nella traduzione), nella prosa raffinata ma brillante che ha un valore - estetico, appunto - in sé, capace di intrattenere anche quando, di tanto in tanto, l'abbrivio della narrazione sembra sottrarsi al controllo dell'autore.
Carlo (Lo Scaffale)



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