Letture e riletture |
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31.3.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana Non ora, non qui di Erri De Luca Come in altri lavori di De Luca, l'ultima guerra mondiale è lo sfondo del racconto. Una famiglia borghese precipitata nella povertà non si arrende, e nel periodo postbellico della ricostruzione trova la forza di riemergere a un'antica agiatezza. La vicenda segna un primo passaggio con il trasloco della famiglia da un quartiere povero di Napoli a uno più agiato, nella nuova casa più comoda, a una vita migliore. Il figlio più grande (ragazzino di nove anni) vive questo cambiamento tanto desiderato dai genitori, frutto d'una ostinata volontà di recuperare la migliore condizione sociale persa, come la rottura d'una continuità di vita e di abitudini e la morte di una parte di sé. La sorellina sembra invece trovare in quel cambiamento aspetti positivi e nuova curiosità. Il racconto è affidato al figlio più grande, balbuziente, poco espansivo, schivo, dotato di una particolare sensibilità che gli consente di cogliere gli aspetti più delicati nel difficile mondo che vive da bambino e da adolescente, ma anche quelli più sottili e spesso contraddittori nel rapporto con la madre, cuore della narrazione. Il figlio ha sessant'anni quando racconta e conduce il lettore fin dentro le pieghe più nascoste del rapporto materno. Lì si annidano le normali incomprensioni generazionali alle quali se ne aggiunge una particolare, a debito della balbuzie, distanza che la madre crede di colmare con interpretazioni del comportamento e delle parole del figlio, spesso in dissonanza con la volontà del ragazzo. In verità, la donna sembra vedere un altro figlio e tanto la balbuzie quanto il carattere taciturno del giovane le offrono una costante occasione per rappresentare, attraverso l'equivoco e il malinteso, più il figlio desiderato che il suo ragazzo reale. Il risultato è la definitiva sottrazione della parola del figlio, sostituita, soffocata da quella materna che palesa, forse, il desiderio frustrato della madre. È questa anche l'amarezza che lievemente traspare in chi narra, mai disgiunta dal trasporto quasi magico che incatena il ragazzo alle parole materne, vera scenografia nella immaginazione del figlio, tanto intensa da essere percepita come reale. Il ragazzo sembra vivere dentro le parole della madre e provare quelle stesse sensazioni ed emozioni che animano i personaggi dei racconti materni. La narrazione colora sempre più intimamente quel rapporto che De Luca rappresenta attraverso un gioco ottico e una prospettiva quasi filmica, sovrapponendo e scomponendo le dimensioni dell'immagine e del tempo. I due soggetti - la madre e il figlio - sono entrambi fissati in una foto, con il figlio piccolo all'interno di un autobus che guarda la madre in procinto di attraversare la strada. Dietro quel finestrino si snoda tutto il racconto del figlio che parla all'immagine della madre e il tempo-immagine sembra in movimento solo per chi narra. La fiabesca dimensione del tempo-immagine rende madre e figlio coetanei in un punto della narrazione, dilatandosi fino a consentire al secondo di trovare la sua stessa morte attraverso il ricordo, dentro le parole della madre. Un sottile gioco di fusione dell'immagine e del tempo che l'autore ci regala con il racconto dentro il racconto. Per tutta la narrazione il figlio rimane una parola mancata. Egli è la parola della madre, luogo in cui spende l'intera vita e colloca la sua morte. Carlo Giuseppe Diana 30.3.07
Recensione inviata da Armando Giuliani Una bellissima sorpresa. Un libro spassoso e delizioso, nella sua semplicità ed eleganza. Parlo di Il più grande calciatore del mondo di Renato De Rosa, pubblicato da Limina. Intanto non è scritto in forma tradizionale, ma tutta la storia è narrata utilizzando ipotetiche testimonianze, articoli di giornale oppure trascrizioni di trasmissioni televisive. È come se l'autore ricostruisse la vicenda del protagonista attraverso un'inchiesta, raccogliendo interviste e documenti, tutti divertenti. La storia è quella di Giulio Capriata, un toscano che alla bella età di trentaquattro anni viene scoperto e portato alla Juventus, perché è capace di calciare la palla alla perfezione, anche se non ha proprio un fisico da atleta. I guai iniziano quando Capriata si trova a tu per con tifosi, giornalisti, compagni, avversari, medici: la sua semplice dignità turba gli equilibri basati su affari, denaro e ignoranza. Così altrettanto velocemente diventa prima un idolo e poi un personaggio ingombrante. Il finale è bellissimo e inaspettato. La bellezza del libro, che piacerà pure a chi non ama il calcio, sta anche nel messaggio di semplicità che trasmette. Credo di non esagerare se scrivo che questo libro abbia tutte le carte in regola per diventare un piccolo cult-book, considerato anche che il suo autore è un esordiente. Armando
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