Letture e riletture


6.2.07
Recensione inviata da Carlo Giuseppe Diana
Erri De Luca, Tu, mio
Di Erri De Luca mi piace quel suo modo di raccontare delicato, attento alle parole, ad affiancarle, a disporle nel testo quasi fossero di vetro e rischiassero di infrangersi urtando fra loro. Mi piace la scrittura capace di "presa diretta" pur senza mai risultare banale; quel modo originale di raccontare il particolare, spogliato dalla noia della descrizione meticolosa. Anche il rapporto della scrittura con l'origine napoletana dell'autore e dei personaggi mi sembra curato in modo particolare e s'incentra più sulla descrizione dei gesti, dei luoghi, delle abitudini, che sulla più comune elaborazione del linguaggio dialettale, presente ma ridotta all'essenziale.
Il libro apre subito una grande finestra sul mare, meglio sarebbe dire sulle "cose di mare", viste e vissute da un adolescente nel pieno della sua crescita, della sua curiosità verso la vita, intrecciate ai suoi problemi, alle emozioni che si fanno particolari quando defluiscono da una storia ai limiti del fantastico, colorando il racconto con un arcobaleno di sensazioni gustose e molto delicate.
Anche il corpo del ragazzo è centro d'attenzione sia nella mutazione inverno/estate, attraverso il processo di adeguamento all'isola, espresso quasi in minuscoli sacrifici, "dazi della pelle pagati all'isola"; sia rispetto al cambiamento adolescenziale e non manca l'espressione dell'imbarazzo di fronte a quello stato intermedio dello sviluppo che rinvia a una sensazione indefinita del proprio corpo, appena uscito da una dimensione e in attesa che si apra l'uscio dell'altra.
Il primo personaggio a entrare in scena è anche il più umile, dal quale il ragazzo impara la pesca, riuscendo ad amarla attraverso l'osservazione dei gesti del pescatore Nicola, presentati nel movimento ritmico della poesia, capace di coniugarsi alla successione precisa dell'artigiano, che rimarca l'essenzialità conseguente al mestiere svolto per necessità di sopravvivenza. Nicola gli mostra la pesca mentre gli racconta la guerra, la sua guerra, quella di uomo modesto, dai sentimenti semplici, incapace di odio, costretto a essere considerato "nemico" che occupa la terra d'altri, da gente modesta come lui.
Questo spaccato costantemente aperto sulla guerra appena passata (siamo negli anni cinquanta) è anche il bel tentativo di raccontare la storia attraverso i diversi personaggi del libro (pescatore, zio, padre) offrendo una lettura legata ai singoli vissuti personali e recupera il gusto e il valore della oralità. È la storia che si tramanda con la voce di chi l'ha fatta, capace di sottrarsi ai meccanismi di istituzionalizzazione dei fatti rintracciabili nei libri, e alla generale regola per cui essa è raccontata dai vincitori. Il ragazzo cerca altro, è pieno di domande e non riesce a comprendere perché la sua gente si è dovuta difendere dai tedeschi, perché ha combattuto e vinto una guerra di liberazione per poi diventare serva degli americani. Il racconto traccia un solco definitivo fra le persone costrette a combattere guerre che non vogliono e di cui non comprendono il senso neppure quando le hanno vinte, e gli interessi politici ed economici in qualche modo rappresentati dalle istituzioni.
Il segreto di Caia/Hàiele è per tutti gli altri personaggi la finestra occulta sulla guerra, dove vi si affacciano solo due di essi che della guerra non hanno memoria, a parte i pochi ricordi di Hàiele, per lo più legati al rapporto col padre. Lo scenario di quella finestra è un groviglio di sentimenti. Grazie al corpo del ragazzo che ospita il fantasma del padre ucciso dai tedeschi, lei ancora bambina, Caia vive gli incontri con lui. Le emozioni giocate da Caia e dal ragazzo attraverso questa rappresentazione fantasmatica del racconto, si esprimono in un crescendo di potenza, ma sempre con una delicatezza attenta. Un obiettivo puntato sul particolare del gesto, sul movimento di una mano, sullo spostamento lieve delle dita, fra gli sguardi bassi e dentro quelli diretti, sopra carezze che sanno accogliere ferite, nei piedi scalzi e veloci della voglia di vivere, fino a riprendere lacrime conservate, mai versate su di un addio che segna vite nuove, sguardi larghi. Un addio che rappresenta uscite dai corridoi stretti, dai ricordi pieni d'angoscia di lei, ma anche dalla adolescenza inquieta del ragazzo che impara le cose degli adulti e una guerra che non ha vissuto, nella difficile prova d'essere padre. Un tratto pirandelliano, moreniano che De Luca propone col "gioco dell'altro", quale strumento di conoscenza e di crescita attraverso l'esperienza diretta e la presa in consegna dei costi dell'altro.
Un addio senza angoscia d'abbandono, di giovani vite liberate dai fantasmi, riconsegnate alle normali difficoltà della costruzione della propria esistenza.
Sul piano personale mi ha ricordato un po' la mia infanzia vissuta nel dopoguerra, in questa città non molto diversa da Napoli. I racconti degli adulti di quegli anni difficili tenevano famiglia e amici stretti attorno ai bracieri per ore. L'inverno passava dentro quei racconti quasi inosservato, per fermarsi invece vistoso a forma di mortadella sulle cosce nude dei ragazzini, conseguenza segnata sopra la carne tolta di colpo dal freddo dei giochi di strada e consegnata accanto al rosso della carbonella accesa nei bracieri.
Un calore umano che ho notato svanire con gli anni, via via che l'esigenza della ricostruzione, personale e sociale, piegava le persone sui propri interessi. Ma questo avveniva solo più tardi, mentre quel tempo lo ricordo povero ma pieno di protezione umana, donne che c'erano a ogni richiesta di un bambino, anche per rifiutare, ma c'erano. Le case, mai vuote, rappresentavano un centro caldo disponibile in ogni momento; sempre qualcuno ad accogliere un dispiacere, a curare un ginocchio sbucciato. Sempre una voce alla finestra per annunciare una merenda.
Carlo Giuseppe Diana



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