Letture e riletture


12.4.06
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Luciano Bianciardi, La vita agra, Rizzoli 1962
Opera dai molti punti di contatto con la biografia dello scrittore, e forse per questo tendente a dilungarsi in dettagli non indispensabili quanto a darne altri per scontati, La vita agra di Luciano Bianciardi è comunque un romanzo scorrevole e scritto in un bell'italiano: musicale, vivo e denso di toscanismi. Il dubbio che resta, una volta terminata la lettura, è semmai un altro: ma cosa aveva di tanto agro, la vita in questione? Lavorare cinque ore al giorno a delle traduzioni insieme alla tua ragazza, tu spaparanzato sul letto vocabolario alla mano, lei seduta a scrivere. Sveglia alle dieci, due o tre caffè in vari bar della zona, lettura quotidiano. Pennichella pomeridiana. Passeggiata serale. Rispettive letture. Verso mezzanotte si va a letto. D'accordo, un po' di ore settimanali vanno perse per dar retta a creditori, esattori e "tafanatori" vari, nonché per spartire i soldi delle sigarette, quelli per le rate del mobilio, quelli per il ginecologo della fidanzata, quelli che vanno alla moglie e al bambino rimasti al paese natio, ma tutto considerato, siamo onesti: sarebbe da metterci la firma.
Insomma, quello che prestando ascolto a contemporanei e studiosi della sua opera era motivo di frustrazione per Bianciardi - l'aver scritto un libro arrabbiato che non aveva fatto arrabbiare nessuno, anzi gli aveva dato il successo e spalancato le porte dei salotti buoni - è il principale limite di La vita agra: un romanzo astioso, forse, disilluso, ma tutt'altro che scomodo o eversivo.
Dopo un incipit piuttosto lento, che come altre parti del romanzo si abbandona a una digressione/sfoggio di erudizione non indispensabile al progredire della storia, veniamo calati in un'atmosfera di calda rievocazione autobiografica. Dopo aver seguito come giornalista le condizioni di lavoro dei minatori maremmani e le drammatiche vicende legate a un'esplosione di grisú in un pozzo, il protagonista abbandona moglie e figlio per trasferirsi a Milano. Il motivo è una non meglio precisata "missione", che prevede di far saltare, fisicamente o metaforicamente, "il torracchione di vetro e di cemento" da cui si è deciso delle sorti di quei minatori.
Presto accantonata a favore di una bohème vicina a I giorni di Clichy di Henry Miller, questa "missione" suona più come un espediente narrativo che una ragione di fondo dell'opera. Se ne riparlerà solo verso la fine, quando il narratore smetterà per un attimo di preoccuparsi delle bollette, delle "segretariette secche" che gli tocca vedere in centro ogni volta che va a consegnare il lavoro e del rischio di ammalarsi di bronchi senza copertura sanitaria, per abbozzare una terrificante utopia regressiva: fatta tabula rasa del settore terziario e del secondario, abolita la plastica, con un po' di impegno si riuscirà anche a dimenticare come si coltiva la terra. Si godrà dei suoi frutti spontanei. Anzi, ancora meglio: si rinuncerà al ferro. Le auto e gli altri utensili verranno abbandonati come carcasse ai bordi delle strade e scherzati dai bambini. In assenza di rasoi, gli uomini avranno barbe lunghe. Le donne saranno finalmente libere dai pregiudizi estetici dell'epoca e potranno ingrassare. Sarà una società di improvvisatori eloquenti e specializzati nell'arte di monologare per strada. Facendo a meno anche della carta, la letteratura sarà tramandata per via orale, e quindi sopravviveranno solo i capolavori.
In uno scenario simile, comunque più da incubo che da sogno, La vita agra non ci sarebbe pervenuto. Non sufficientemente convinto della strada imboccata, cerca di puntellare la "storia di vita vissuta" con inserti storici o sociologici che non bastano a farne un romanzo-pamphlet. Pochi dialoghi, e nemmeno memorabili. Un registro costantemente altalenante tra diario e invettiva qualunquista contro una Milano fatta di nebbia, traffico, supermercati, donnette smunte e iperattive. Bersagli più che condivisibili, quelli scelti da Bianciardi, ma è la scrittura a non essere sempre un'arma acuminata. Certo, il congegno tiene, e soprattutto nella seconda parte si volta pagina con una certa facilità. Manca però la magia. Mancano personaggi memorabili cui affezionarsi. Manca insomma la capacità, che invece hanno i romanzi di John Fante o dello stesso Miller, di partire da una storia piccola per affrontare a viso aperto i temi che contano.
Matteo Ferrario



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