Letture e riletture


9.1.06
Riflessioni inviate da Silvia Colangeli
Lo sbrego di Antonio Moresco
La Letteratura non è un mito!
"Io non ho mai letto niente". Proprio così comincia il saggio di Antonio Moresco sulla lettura, commissionatogli e edito dalla Scuola Holden di Alessandro Baricco.
"Per me leggere non è leggere" continua qualche riga dopo. Non è qualcosa che si fa nei ritagli di tempo, prima di andare a letto, in metropolitana o in autobus, seduti semplicemente in poltrona. È qualcosa di più per Moresco. Di misterioso, di incredibile: "quella cosa che da qualche parte c'è, anche se non so cos'è". Afferma di volersi avvicinare il più possibile, attraverso questo saggio, a quella cosa inspiegabile.
Leggere è un'attività prettamente umana, scaturita da un processo culturale iniziato migliaia di anni fa. Ma ancor prima, sostiene Moresco, frutto di un'evoluzione biologica, se non addirittura chimica: "quando si sono formati gli elementi primari che hanno dato vita al nostro pianeta, sono sorti i componenti chimici che, nell'arco di miliardi di anni, sono diventati infine la materia fluida a cui abbiamo dato nome di inchiostro che lascia il segno su una superficie di carta".
Per meglio farci comprendere la straordinarietà e allo stesso tempo l'assurdità che spinge gli uomini a stare fermi di fronte a un oggetto inanimato e stratificato senza fare assolutamente nulla, Moresco adotta il punto di vista di un cane: "Cosa cavolo gli sarà successo", par domandarsi il bassotto di Moresco, osservandolo di fronte a un libro a gambe spalancate: "Eppure non sembra morto!".
La misteriosità di questa azione umana, questa morte apparente, viene condensata da Moresco nella parola impiegata come titolo: sbrego, termine altrettanto criptico. Cercando sul programma Thesaurus i suoi sinonimi, scopro che egli ha voluto condensare in "sbrego" tutti i significati possibili del termine. Leggere è infatti un'esperienza esaustiva (sbrigo), un corrosivo grattare (sfrego), qualcosa che incanta (strego).
Moresco confessa di aver iniziato relativamente tardi, di essere un cosiddetto "lettore forte" soltanto da alcuni anni; dimostrazione che non è mai troppo tardi per cominciare. D'altronde, egli è già emblema della speranza di ogni aspirante scrittore di arrivare alla pubblicazione: ha esordito a quarantatre anni con un romanzo intitolato proprio Gli esordi.
Fatica molto per ricordare il primo libro letto; evento che, in quanto a rivelazione e piacere, paragona alla prima volta che si è chiuso in bagno a masturbarsi. Fu un libro di Salgari, gli sovviene d'improvviso, un titolo non più in commercio, introvabile, che leggeva clandestinamente in seminario (in uno sperduto convento vicino a Mantova), fingendo di meditare su Ave Maria e Padre Nostro, in un periodo della sua rocambolesca vita in cui era stato conquistato da una fervida fede religiosa, così come sarà poi per il grande ideale comunista.
Dopo aver concluso la telefonata con il suo redattore, Dario Voltolini, anch'egli scrittore e volto noto dell'editoria contemporanea, avergli ripetuto più volte di non poter scrivere un saggio sulla lettura, poiché in realtà egli non crede di aver mai letto niente, il telefono squilla di nuovo. È proprio Emilio Salgari all'altra parte della cornetta. Voltolini possiede una serie di voci campionate, ipoteticamente appartenenti agli scrittori che sa amati da Moresco; le usa per incalzarlo a scrivere questo libro. Dopo Salgari, infatti, sarà la volta di Stendhal, Cervantes, Céline... il saggio è costruito sul ritmo di queste chiamate dall'aldilà, dal paradiso degli scrittori.
Quando pensiamo ai grandi autori, quelli citati da Moresco, complice anche il modo in cui li abbiamo studiati a scuola, pensiamo a loro come a dei mostri, personaggi leggendari, storici, mitici, le cui opere hanno un carattere quasi sacro. Pur riconoscendo in questo modo la loro grandezza, allo stesso tempo non facciamo che disumanizzarli, allontanarli, decretarli davvero morti e sepolti. Il complesso di inferiorità che soggiace a questo pensiero, ci spinge a non sentirci mai pronti per affrontarli.
Moresco, invece, immagina di parlare al telefono con Stendhal. Di aver piacevolmente conversato con Kafka davanti a una birra, di aver bevuto vodka con Cechov, mangiato una fetta di torta ai lamponi preparata dalla Dickinson. Così, scopriamo che questi mostri della letteratura erano ancor prima uomini e donne, che grossomodo avevano i medesimi problemi della nostra vita quotidiana, che amavano, soffrivano, che, proprio come noi, hanno fatto errori e sopportato rimpianti. Le loro opere diventano confessioni, svelamenti, spesso grandi superamenti di sé, ancor prima che capolavori letterari.
Questo processo di smitizzazione trova il suo culmine, e mezzo più efficace, nella derisone caricaturale di alcuni evidenti difetti fisici: "I baffetti del cazzo" di Salgari, la voce nasale di Stendhal, i suoi occhi "conficcati in quel testone scimmiesco tutto pieno di riccioli e di basette arricciate col ferro", Kakfa e le sue enormi orecchie a sventola, "formidabili sculture ossee ai lati della testa". Queste prese in giro finiscono per distruggere l'idea dello scrittore specchio e immagine della grandezza e bellezza delle sue opere. Melville non era altro che un ex mozzo, Faulkner uno "sbarellone", Walt Whitman un "pederasta vagabondo", Flaubert "un meraviglioso bietolone normanno che non aveva paura di stare fermo a trapanare la vita". Un "povero nevrotico epilettico ed ex deportato" scrive Delitto e Castigo, I fratelli Karamazov, "un effeminato buono a nulla" scrive La recherche, un irlandese "sradicato alcolizzato e un po' debosciato" scrive l'Ulisse, "una testa di cazzo austriaca piena di sé come un uovo" scrive L'uomo senza qualità, un impiegato di banca "molto, molto imbrillantinato" scrive La terra desolata. Nei confronti di Céline Moresco non ha ritegno né alcuna pietà. "Gente fuori posto che aveva sbagliato tutto" scrisse grandi capolavori.
Il senso di questa operazione distruttiva, a mio avviso, sta nel trasformare la letteratura in un incontro; per questo Moresco afferma di non aver mai letto nulla in vita sua. Egli ha solamente incontrato altri esseri umani.
Sebbene in realtà non abbia mai bevuto una birra insieme a Kafka, leggendo Il Castello, Il Processo, le Lettere a Milena, è come se l'avesse fatto. E Kafka diviene un "dolce amico", sempre pronto a cogliere il punto nevralgico di ogni cosa, "l'amico più grande, indistruttibile". Moresco racconta di "sentirsi a casa" tra le sue frasi, nelle sue "parole semplici, indiscutibili, impenetrabili, limpide", sensazione che ha provato soltanto con Leopardi. In un momento di sconforto, descritto nel saggio, che in alcune parti assomiglia più a uno scritto autobiografico, confessa di voler morire bruciato con I Canti nella tasca dei jeans; una vecchia e usurata edizione Zanichelli che porta sempre con sé. "Leopardi è stato l'amico della giovinezza e dell'intera vita. Il primo ed ultimo amore".
Così, anche la lettura viene depurata da tutti quei luoghi comuni che la fanno apparire noiosa, statica, un'attività culturalmente alta e appartenente solo a certi ceti sociali, qualcosa da fare in salotto alla luce di una bella lampada, bevendo una tazza fumante di the. Moresco confessa di aver letto i più bei libri, di aver fatto gli incontri che hanno cambiato la sua vita, seduto su un water, su una moquette impregnata di piscio, con le trappole per topi che scattavano nel silenzio della notte.
"Ci sono libri, o per meglio dire universi fatti intravedere per un istante in qualche fugace forma alfabetica, talmente ricchi che non se ne può perdere un palpito, una parola, un respiro. Io non lo so, ma certe volte, da qualche piccola cosa narrata, mi arriva, mi si apre una fessura che mi fa intravedere [...]".
Così come immagina di esser potuto andare d'accordo con Kafka, Cechov e Cervantes, dalla sola lettura delle loro opere, è altrettanto certo che con altri autori non avrebbe fatto che litigare, pur amando profondamente i loro romanzi o poesie. Con le donne, invece, ne è certo, avrebbe avuto meno problemi. Avrebbe amato "la ferina" Emily Bronte, scrittrice ribelle "con la faccia da lupa e da cagna della letteratura", trovato adorabile Virginia Woolf, non appena abbandonato "quel gheriglio di signora intellettuale vittoriana e modernista con la puzza al naso e un po' snob", e anche l'altra Emily, "l'americana", la Dickinson, quella "donnina nevrastenica e combattente", piena di solennità, tenerezza e pensiero.
Soltanto davanti a Goethe, Dante e Shakespeare, Moresco stesso dimostra di soffrire di quel complesso d'inferiorità di cui noi tutti soffriamo, ciò per cui credo abbia scritto questo libro: per tentare di estinguerlo. Egli non se la sente di parlare al telefono con "quel letterato di corte di sessant'anni, tronfio, che si spostava irrigidito come un busto, che ha scritto una cosa così profonda e così leggera, e così atroce come Le affinità elettive".
L'incontro con questi grandi autori e opere del passato lo porta inevitabilmente, e in modo assai facile, a inveire contro "la merda" pubblicata negli ultimi decenni. "Tutte queste povere larve vestite che dirigono collane editoriali, coi loro omologhi che scrivono libri consentiti e richiesti, obbedienti allo spirito del tempo e ai suoi conformismi e alle sue piccole gratificazioni medianiche ed economiche, morti viventi, feti normalizzati e allevati, con le loro piccole carriere, le loro scalate [...]". Moresco confessa di trovarsi più a suo agio con gli extracomunitari che ogni notte bivaccano sbronzi sugli scalini del Duomo di Milano, piuttosto che con tutta quella gente che gira intorno ai libri.
Dopo aver descritto questo quadro nero dell'editoria contemporanea, egli specifica immediatamente, a scanso di equivoci, di non aver comunque smesso di credere nella letteratura, da sognatore, da stupido, da stupido sognatore qual egli è.
Al popolo degli stupidi sognatori Moresco dedica questo libro.
Silvia Colangeli



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