Letture e riletture


19.11.05
Recensione inviata da Matteo Ferrario
Bret Easton Ellis, Lunar park (traduzione di Giuseppe Culicchia)
"Sei una perfetta caricatura di te stesso". Così dice Bret Easton Ellis alla propria immagine riflessa nello specchio. Che a parlare sia l'autore di Lunar park, suo quinto romanzo, o l'alter ego che ne è il protagonista, mentre mi appresto alla lettura dell'ultimo capitolo sono tentato di credergli.
Sono appena reduce da trecento pagine in cui si è davvero visto di tutto: Bret che rievoca il suo passato con un ricorso all'intero repertorio sesso, droga, auto & rock'n'roll degno dell'autobiografia dei Mötley Crüe; Jay McInerney, apparentemente ancora vivo e apparentemente ancora scrittore, che si tuffa nudo in piscina e pippa coca nel garage di Bret; Bret che ha scoperto di avere un figlio; di più: Bret che approfitta della scusa del figlio e della pazienza di un'attrice sua ex con cui l'ha accidentalmente concepito e - da non credere - mette la testa a partito.
Lo scrittore maledetto - vecchio, amarissimo stereotipo, eppure mai abusato come in questo romanzo - smette di drogarsi o almeno ci prova. Sposa Jayne Dennis e oltre al proprio figlio naturale adotta la bambina avuta da Jayne con un produttore cinematografico. Dietro, lo si capisce da alcuni indizi buttati lì nella prima parte, c'è un rapporto irrisolto con la figura paterna, che un giovane Bret ha solo eluso grazie al successo.
Enigmatico, sfuggente quanto il romanzo che avrebbe dovuto ispirare, il figlio di Bret Easton Ellis è un formidabile dispositivo non sfruttato appieno. È un personaggio che alimenta i conflitti interiori di Bret e al tempo stesso dà l'impressione di essere l'unico in grado di risolverli. La sua assenza per larga parte della storia non fa che ingigantirlo e renderlo più incombente. Quando entra nel vivo di una scena, lascia il segno con brevi battute che - segniamoci questo verbo - disarmano Bret.
Sorta di Bartleby dodicenne e imbottito di psicofarmaci, il figlio di Bret Easton Ellis si chiama Robert: come suo padre, morto nel 1992. Nella ricerca di un rapporto con Robby, c'è una resa dei conti postuma con Robert Ellis, di cui Bret ha ereditato solo un roadster Mercedes color crema e dei vestiti di Armani troppo grandi, ma anche un destino di solitudine.
Lunar park è una ricerca di redenzione attraverso la scrittura. È l'opera di un autore arrivato al punto di non ritorno, che appicca il fuoco al mondo parallelo che ha creato nei suoi romanzi.

Questo, almeno, è ciò che sembra all'inizio. Fosse veramente così, sarebbe il meno dei mali. Ma poi arriva la sterzata horror.
Ellis l'aveva annunciato: questo romanzo è anche un omaggio alla figura di Stephen King. Qualche lettore può non aver gradito l'omaggio. Io non l'ho gradito. Ma andiamo avanti. Grande casa infestata in un sobborgo di lusso. Famiglia americana ultradepressa e in crisi minacciata da forze maligne. Autocitazioni: dal cane che si chiama Victor come il fotomodello di Glamorama al misterioso teen-ager di nome Clayton come il protagonista di Meno di zero (ma anche somigliante a un giovane Bret e travestito da Patrick Bateman per la festa di Halloween), passando per la scritta "Scomparire qui" (Acqua dal sole) che si materializza su un poster nella stanza di Robby.
In gran parte i "colpi di scena" sono telefonati con due pagine di anticipo. Del grande scrittore che fu si hanno notizie solo in un paio di capitoli: magistrale il terzo, la mattina, in cui Bret Easton Ellis rispolvera la sua ironia pungente e la sua capacità di lettura di un contesto sociale. Il resto, spiace dirlo, è uno sconclusionato pastrocchio che avrebbe la sua collocazione ideale in un palinsesto notturno di tarda estate, tra un Pet Sematary e uno Scream.

Così la pensavo prima di leggere le ultime poche pagine. Finito il romanzo, in nome dei vecchi tempi e di spettri ben più spaventosi di quelli che Ellis ha messo in scena in questo stanco fumettone, sono tentato di perdonargli tutto. Di aver scritto due romanzi in quindici anni, di cui il primo è un Mao II non del tutto riuscito (Glamorama) e il secondo (questo qui) è una cazzata, portata avanti a forza di scossoni e sbandate come nella guida di un ubriaco. Di aver visto il mio scrittore preferito intrappolato nei suoi anni Ottanta, come se negli anni Duemila non ci fosse bisogno di talenti come il suo. Di aver tirato a campare per trecento pagine.
Io, tutto questo, quasi quasi glielo perdono. Perché se c'è un segnale incoraggiante per il futuro di questo scrittore, se c'è ancora della vita e dell'onestà in quello che scrive, dobbiamo cercarlo in queste ultime dodici pagine di la fine.
Retorico, lamentoso, perfino incongruo rispetto al nucleo centrale del romanzo, questo epilogo è un'occasione per piangere le occasioni perse. Qui Robby ricompare, con le fattezze di Clayton o, se preferiamo, con quelle di un Bret diciottenne. O quasi. Il suo è lo sguardo di un ragazzo che è fuggito dal padre, ma che a differenza di Bret ha trovato il modo di disarmarlo. Robby riesce dove ha fallito Bret. La sua fuga è andata a buon fine perché ha avuto il coraggio di perdonare. Robby non avrà demoni da portarsi al seguito. Poteva essere un altro Bret.
Poteva essere anche un altro romanzo. O forse, addirittura, lo è e non ce ne siamo accorti. Bret Easton Ellis rimane un enigma. Ci lascia con la sensazione di aver solo intravisto qualcosa attraverso un velo. Se in American Psycho la conclusione invalida tutto lo svolgimento dell'azione nel romanzo, istillando il dubbio che fosse tutto nella testa di Patrick Bateman, in Lunar park il meccanismo è ribaltato: dopo trecento pagine che non si potevano prendere sul serio, la lettura finisce con la sensazione che qualcosa resti da dire. Qualcosa di realmente spaventoso. Roba da Bret Easton Ellis, non da Stephen King.
Matteo Ferrario



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