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5.10.05
Recensione inviata da Silvia (Phoebe) Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni Khaled Hosseini è un medico americano. Anzi, no. Non è americano. È afgano. Cosa che, di questi tempi, negli Stati Uniti credo possa essere considerato quasi un reato. Eppure, proprio in quegli Stati Uniti di Bush, intolleranti e gretti, è diventato un caso letterario questo piccolo libro, il suo primo racconto. Khaled racconta una storia indimenticabile, commovente e straordinaria, ma priva di eroi. È quello che è, un canto epico di padri e figli, di amicizia e tradimento, di abissali capitolazioni e redenzioni coraggiose e sofferte. Di fughe e ritorni, fino al riscatto finale, toccante e inaspettato. Sullo sfondo la scomparsa nel nulla di un mondo, l'Afghanistan, che assiste impotente alla disintegrazione della sua millenaria cultura e al crollo di ogni certezza. Assiste con la rassegnazione disperata all'incedere della Storia, incarnata dai Sovietici prima e dai Talebani in un secondo tempo, fino ai disastrosi giorni nostri. La storia è narrata da Amir, figlio della ricca borghesia afgana, con un padre rispettato e amato da tutti per la sua probità morale e con una madre che è morta dandolo alla luce. Hassan è il servo hazara della sua famiglia, suo compagno di giochi e temibile cacciatore di aquiloni. Con la stessa minuziosa cura con cui Amir e Hassan bambini si preparavano all'evento più importante per i ragazzi di Kabul, la gara degli aquiloni, l'autore ritrae il mondo della sua infanzia e fa rivivere il calore di quella realtà sicura e ospitale per lui, dall'odore inebriante e inconfondibile della terra bruciata d'estate e dell'aria frizzante dell'inverno mista al sapore rassicurante del tè e delle spezie. Tuttavia questo romanzo non è solo un racconto della memoria, ferita dal presente orribile e sanguinario, ma l'affermazione della coscienza di un uomo. Un uomo normale, Amir, né pavido né eroico, né buono, né cattivo. Un uomo, solo un uomo. Che alla fine, però, non può più sfuggire al passato e deve fare i conti con i propri ricordi, le proprie sensazioni. Deve riempire vuoti che chiedono di essere colmati. Il viaggio che Amir intraprende verso la patria è prima di tutto un viaggio in se stesso, per confrontarsi e riscattarsi da quell'antica e dolorosa colpa, un blocco di ghiaccio represso dentro di lui, ma che non ha mai smesso di soffiare aria gelida sulla sua pelle. Un peso che Amir ha sopportato in solitudine nell'esilio americano, intrappolato nel suo stesso dolore. Al proprio destino Amir non può sfuggire, e la tragedia dell'Afghanistan si materializza in un sottofondo di voci stridenti e feroci apparizioni, mentre sulla scena si dispiega il mondo interiore di Amir e degli altri personaggi che incontra, fino alla risoluzione finale e all'espiazione della sua colpa. Un libro da leggere, anche per capire meglio un mondo sempre più vicino al nostro. Silvia (La stanza di Phoebe)
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