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20.5.05
Recensione inviata da Maria Rizzo La nuova Sicilia di Paulu Piulu Ritengo la letteratura siciliana la più ricca, varia e complessa dell'Italia unita. Non mi riferisco a quella formato esportazione o epigonale di Simonetta Agnello, ma a quella che, partendo dai fondatori Capuana, Verga e De Roberto, annovera nomi come Pirandello, Brancati, Vittorini, Quasimodo, D'Arrigo, Lampedusa, Sciascia, Bufalino, Russello, Bonaviri, Consolo, Camilleri... e qualcun altro che probabilmente mi sfugge. Dico questo per dare l'idea dell'importanza di un libro come Paulu Piulu di Giorgio Morale, scrittore nativo di Avola (Siracusa) trapiantato a Milano. Il romanzo, appena pubblicato dall'editore Manni, dopo tanta letteratura siciliana riesce ancora a dire qualcosa di nuovo sulla Sicilia. Quella di Paulu Piulu è una Sicilia primitiva e innocente, passionale e delicata, che la scrittura di Morale variamente modulata sa ricreare, seguendo col suo periodare il nascere e svolgersi delle emozioni nelle loro più sottili sfumature. Alcuni capitoli hanno un avvio perentorio: "La vera estate cominciava quando scoppiava il canto delle cicale e vinceva ogni cosa. Ovunque c'erano alberi, le fronde risuonavano, enormi sonagli agitati dalla campagna al cielo...", "Quell'inverno fu assai ricco di muschi e licheni, corse e inzaccheramenti...". Il resto non è da meno. L'opera è definibile come un romanzo di formazione e l'età prescelta per dar conto della formazione di Paolo (Paulu in siciliano) è l'infanzia. Il romanzo racconta infatti la formazione di Paolo ("Paulu Piulu" è l'inizio della filastrocca che i genitori cantavano al bambino), nella prima parte in una specie di giardino incantato (ogni infanzia ha un giardino incantato, malgrado gli inevitabili squallori puntualmente registrati nella realtà) costituito dalla fabbrica, con lo spiazzo e i campi attorno, dove il padre lavora e fa il guardiano. In modo molto indovinato la prima parte del libro termina con l'abbandono della fabbrica da parte della famiglia, per Paolo una sorta di cacciata dall'Eden, per il trasloco in una sognata casa "normale" che non dà la felicità tanto attesa. Dopo l'emigrazione dei genitori, Paolo va a vivere prima in un pessimo collegio, dove rimane per breve tempo, e poi viene accolto dai nonni, perché, istintivamente legato al suo ambiente e alla sua cultura, rifiuta di seguire la famiglia in un altro Paese. Infanzia è un'altra parola chiave del libro: non ho letto, dopo le indimenticabili pagine delle Confessioni di Ippolito Nievo sulla vita di Carlino al castello di Fratta, pagine come queste in cui l'infanzia sia stata così fedelmente e magicamente ricreata, pur essendo quest'età negli ultimi tempi abbastanza presente nella letteratura. Parlerei, per Paulu Piulu, anche d'infanzia in senso leopardiano, per come dell'infanzia viene mostrata la capacità di farsi interrogare dal mondo e di darvi risposte fantastiche. Poi c'è in Paulu Piulu la società siciliana colta in un momento storico (gli anni '50/'60 del '900) che ancora si proietta sul nostro presente. Ci sono le problematiche del lavoro, dei soldi, dell'emigrazione, ricostruite in pagine quasi "materiche", che trasmettono odori, sapori, voci, visioni, impressioni tattili del fango, della pioggia, degli stenti: "Entrare era stato come entrare in un purgatorio di penuria e disagio... Spesso bisognava piazzare recipienti per raccogliere l'acqua che filtrava dalle tegole e aspettare che finisse quel gocciolio metallico, da cui si diffondeva tanta umidità, che tutta l'aria, i muri, le stoffe, il pane, tutto sembrava bagnato". Tutto questo non è presentato in modo sociologico, la scrittura di Giorgio Morale non ha nulla di cronachistico. Attraverso flash successivi e con un uso moderno e sapiente del montaggio, l'autore ci immette subito nella vicenda, in cui storie e Storia sembrano davvero congiungersi. Maria Rizzo
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