Letture e riletture |
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Questo è uno spazio pensato per chi dopo ogni lettura desidera condividere le proprie
impressioni o le proprie emozioni. |
17.4.05
Recensione inviata da Elisa Bolchi Edward M. Forster, Maurice (traduzione di Marisa Bulgheroni) La letteratura europea è piena di storie di passioni, più o meno celebri, a partire dagli amanti per eccellenza, Romeo e Giulietta, passando per Antonio e Cleopatra, per Darcy ed Elizabeth, Catherine e Heatcliff, Rosine e Figaro, per citare i primi che mi si affacciano alla memoria. Ma perché nessuno accenna mai a Maurice e Clive? Non è forse, quello narrato da E.M.Forster, un amore sincero, puro, descritto nel suo momento più estatico, quello della nascita, e prima ancora della consapevolezza, della presa di coscienza di sé? E non è solo la nascita dell'amore a essere magistralmente narrata nelle pagine di questo romanzo, ma anche la scoperta di cosa si è, si potrebbe dire del materiale di cui si è fatti. Il tutto, l'innamoramento, gli sguardi, l'iniziale stordimento, avviene con una naturalezza tale che ci sembra di averne già viste a milioni di storie simili e che prima o poi lui prenderà il sopravvento e la bacerà, e allora lei si abbandonerà tra le sue braccia. Ma qui non c'è lei. Non c'è lui. Entrambi gli amanti sono preda dello stesso tipo di passione, di amore e di tenerezza, l'uno consapevole, l'altro non ancora. Chi dovrebbe prendere una ferma decisione? Chi avrà il coraggio di amare ciò che non gli è permesso amare, chi si svelerà per primo un fuorilegge, poiché questo erano nel 1930 gli omosessuali in Inghilterra? Assistiamo alle carezze amichevoli, agli scherzi ingenui ma così carichi di erotismo da far rabbrividire e non attendiamo altro, arriviamo quasi a sussurrarlo... "bacialo!" Sfido qualsiasi lettore moralista e carico di pregiudizi a non infiammarsi nel leggere della notte in cui Maurice prende coscienza della propria sessualità, lo sfido a non saltare sulla poltrona nell'indescrivibile impazienza di vederli infine uniti in un abbraccio appassionato e carico d'amore, nel quale potranno riversare i loro cuori. E lo sfido a considerare tutto ciò fuori dal comune, o estraneo alla morale, o "invertito". Non lo credo possibile. Perché se tutti abbiamo versato qualche lacrima per i disgraziatissimi Romeo e Giulietta, se tutti abbiamo sognato che Cathy sposasse Heatcliff e vivesse felice con lui, se ci siamo consolati più volte nei molteplici matrimoni dei diversi romanzi di Jane Austen, allo stesso modo simpatizzeremo per i due amanti in questo romanzo perfetto, troveremo erotiche e stuzzicanti le poche e più che eleganti scene di sesso, troveremo inaccettabile il comportamento che il protagonista deve tenere verso la società. Molto delle tecniche narrative moderniste sono presenti, ma non preponderanti. Forster vi accenna, vi rimanda come in una discussione fra vecchi amici, coi quali non serve spiegare nulla, perché basta uno sguardo o una parola per alludere a un'intera situazione. Lo stile sapiente, misurato, ineccepibile, crea una prosa esemplare, dotta ma mai pretenziosa, delicata e pungente al tempo stesso. Forster ci ha lasciato questo romanzo in eredità, da pubblicare dopo la sua morte, forse perché non fu mai davvero pronto per esporre tutto ciò che sentiva, tutto ciò che era stato e che era divenuto. Elisa Bolchi 14.4.05
Recensione inviata da Dontyna Doctor Sex, T. Coraghessan Boyle (tradotto da Silvia Pareschi per Einaudi, 2004) Accade troppo spesso di giudicare un libro o un film dalla storia in sé o dai protagonisti. Invece un romanzo o una sceneggiatura sono ben riusciti quando producono una qualche reazione esterna, sia essa di rffiuto o ammirazione, verso la piccola porzione di realtà che gli autori vogliono proporre al pubblico. Durante tutta la lettura di Doctor Sex, di T.Coraghessan Boyle, io ho detestato il professor Alfred Kinsey e i suoi collaboratori. Nel libro, edito da Einaudi, la storia di questo dottore del Sesso è raccontata in prima persona da John Milk, giovane e mediocre studente di lettere, che in poco tempo si trova a fianco di Kinsey a raccogliere interviste per tutto lo stato dell'Indiana e poi altrove, evitando in ogni modo qualsiasi attività, persona, luogo, abitudine, opinione che secondo il suo amato professore avrebbe potuto "ostacolare il progetto". In sintesi, la tesi che difende Prok (professor Kinsey) è la seguente: l'uomo e la donna, in quanto animali umani, dovrebbero assecondare i loro istinti sessuali appena si manifestano, in qualsiasi modo, e il non farlo è solo sintomo di insicurezza sessuale, dovuta alle imposizioni della società, a un'educazione severa, alle abitudini familiari, che possono essere scavalcate solo se ci si lascia andare senza inibizioni. Questa corrente di pensiero potrebbe risultare molto attraente, se non fosse per un piccolo particolare cui Prok si è dimenticato di accennare: i sentimenti. Il sesso, l'atto sessuale, comportano inevitabilmente sentimenti verso l'altra persona: amore, rabbia, gelosia, timidezza, gioia, paura, compromesso. Come può ridursi tutto a un atto meccanico e razionale? Questo è banalizzare il sesso. Oppure, come in effetti il professor Kinsey intendeva dimostrare, è minimizzarlo a un comportamento scientifico, osservabile negli esseri umani come negli animali, con l'unica differenza che i primi hanno un bagaglio culturale e sociale che impedisce loro di esprimersi appieno. Già, ma i sentimenti? Le emozioni? Non si può affermare che l'uomo agisca solo d'istinto! Come tutti i grandi scienziati con grandi obiettivi, il dottor Sesso ha tralasciato tutto ciò che avrebbe potuto inquinare la sua ricerca, procedendo con un paraocchi che gli ha impedito di vedere al di là delle sue statistiche e misurazioni oggettive. Disprezzando i protagonisti, criticando le loro idee, ho finito per detestare anche il libro. Solo ora mi accorgo che l'autore ha inserito fin dall'inizio un personaggio che poteva costituire un po' l'ancora di salvezza per chi, come me, non sopporta le descrizioni semplicistiche della realtà. Il personaggio in questione è Iris, una donna finalmente, moglie di John Milk, che per tutta la storia mantiente un atteggiamento distaccato, polemico e ironico sulle convinzioni e il lavoro dello staff di Prok. Si rifiuta di fare da cavia e di farsi filmare durante l'attività sessuale, litiga con John perché non riesce a tirarsi fuori dall'influenza pressante del suo datore di lavoro su tutti gli aspetti della loro vita. E quella di Iris e Milk invece è proprio una storia d'amore, che al pari della ricerca e degli esperimenti, procede giorno dopo giorno, con intoppi, nuovi incontri ed esplosioni di passione. Con Iris l'amore diventa l'elemento centrale del romanzo, ci ricorda che non può essere escluso dalle relazioni interpersonali ed è l'unica cosa che alla fine rende davvero felici. Dontyna (Coffeeee pleeasee!!!!) 13.4.05
Recensione inviata da Renato Chet Baker. La lunga notte di un mito, di James Gavin (tradotto da Marco Rossari per Baldini Castoldi Dalai, 2004) Una biografia decisamente corposa del celebre trombettista: viene descritta tutta la sua vita, dalla nascita in Oklahoma fino alla morte ad Amsterdam. Va detto che Baker non ne esce bene: la mia impressione è che l'autore desiderava scrivere un'opera su un grande jazzista e dopo ricerche, interviste, testimonianze varie si è ritrovato fra le mani il materiale per scrivere quella che sembra la biografia di un drogato misogino piuttosto che quella di un musicista. Certo, Chet Baker era un drogato, ma era soprattutto un grande musicista, eppure non si ha questa impressione leggendo la sua biografia. Si tratta comunque di un gran bel libro, scritto molto bene: sembra un romanzo. Lui non voleva fare altro che suonare il suo strumento e cantare e sperare di lasciare qualcosa di buono dal punto di vista musicale. Questo sforzo è la cosa più bella. Stare qui a discuere perché ha fatto questo o quest'altro, o cos'altro avrebbe potuto fare, che senso ha? Io lo so cosa direbbe lui: "Di che state parlando? Tutti fanno degli sbagli. Cos'hanno i miei di tanto peggio di quelli degli altri? Lasciatemi in pace!" La maggior parte delle persone non ci provano nemmeno, non arrivano da nessuna parte, non vivono. Chet era un bugiardo, un imbrglione, un figlio di puttana, ma almeno lo ha fatto. Milioni di persone a Wall Street vanno in bagno e si bucano con su il loro bel vestito e con molta meno rilevanza nelle loro vite. È l'assenza di anima contro l'anima. Ed è per questo che le persone gli gravitavano intorno. Lui sapeva davvero dove si dirigeva spiritualmente. Chet era uno spirito libero, il che significa che era in contatto con il suo spirito. (Ruth Young)Renato (night passage) 11.4.05
Recensione inviata da Elisa Bolchi Non occorre essere campioni di scacchi per apprezzare la fattura di una scacchiera in ebano e rovere, dalle pedine intagliate a mano e lucidate ad arte e rimanerne affascinati, allo stesso modo non occorre essere scacchisti per apprezzare l'opera prima di Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg. Non occorre, ma aiuta. Dire che questo libro non parla d'altro che di scacchi sarebbe come affermare che gli scacchi sono un gioco come un altro, un passatempo qualsiasi. La storia di Tibory, di Frish e di Hans è una storia dettata da regole rigide e complesse, da piccoli spostamenti e mutazioni che sono però in grado di far crollare un impero. Il gioco degli scacchi domina la narrazione e un appassionato giocatore ne potrà assaporare le mosse, ne potrà accarezzare i pezzi con la mente, ma forse non abbastanza, la stessa variante di Lüneburg non viene mai descritta, le mosse non sono mai narrate, le caselle le sappiamo percorse da diversi pedoni senza mai conoscere il gioco preciso - mi chiedo se questo potrebbe irritare o scocciare un buon giocatore o se invece questa incertezza gli permetterebbe di compiere voli di fantasia ben più articolati, immaginando nella propria mente partite complesse ed estenuanti. I brani puramente scacchistici non sono, però, il merito reale di quest'opera, sebbene ne rappresentino una larga percentuale. Il libro arriva al suo pieno sviluppo, non solo narrativo ma anche stilistico, nella seconda parte, quando la drammaticità della storia si fa largo con forza nella sicura realtà della scacchiera. Quello che in un primo momento avrebbe potuto sembrare un giallo si rivela essere un omaggio alla memoria, un'elegante metafora della vita che nel secolo appena trascorso giunse a perdere ogni consistenza e ogni dignità in quel dramma sovrumano che fu l'olocausto. Il gioco stesso degli scacchi diventa allora uno strumento di morte o di salvezza, e nulla appare strano, tutto può assumere una logica in un luogo come un campo di concentramento, che di logica è completamente privo. Il romanzo è un chiasmo perfetto, le pedine della narrazione nella seconda parte trovano un riscontro perfetto nella prima, e quando ogni pezzo del puzzle viene collocato nella giusta casella tutto assume i colori giusti, tutto torna e quello che proviamo non è solo angoscia, rabbia, incredulità, ma anche una certa soddisfazione. Un libro che inizia in sordina e che in più punti sono stata tentata di abbandonare, ma che si scopre poi perfettamente architettato e che rivela nelle pagine finali uno stile accurato, attento, elegante. Un'incredibile opera prima. Elisa Bolchi
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