Letture e riletture


13.2.05
Recensione inviata da Sbloggata
Agota Kristof, La trilogia della città di K. (Traduzione di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana, Giovanni Bogliolo per Einaudi)
Vi sono storie e scritture che s'insinuano nella lettura con prepotenza, ne tracciano i contorni, ne definiscono le pause.
La trilogia della città di K. è uno dei libri più belli che io abbia mai letto. La scrittura è carnale, cruda, è più reale della realtà che descrive, non è visionaria, non si confonde con ciò che narra, è concreta, diretta, lontana dalla retorica, è spietata, e sostiene il ritmo scomposto della storia come raramente ho visto fare. Dalla scrittura a frammenti la narrazione sembra lentamente crescere per poi straripare in un delirio finale cui il lettore sembra essere stato preparato pagina dopo pagina.
L'intreccio dei tre racconti segna il percorso di lettura, traccia le direzioni della trama in un continuo avanzare e indietreggiare percorrendo i fili sottili di quell'unica vicenda che si scompone e ricompone nella più generale storia di una Nazione, di una città, di un paese, di una famiglia, di un bambino... di bambini.
La Seconda Guerra mondiale viene raccontata attraverso il Grande Quaderno d'infanzia di due gemelli in un imprecisato paese dell'Europa dell'est, lasciati a casa della nonna, a contatto con la fame, i bombardamenti, l'elaborazione di disumane strategie di sopravvivenza. Quaderno che rimarrà, nel proseguo della narrazione, a uno dei fratelli che nella città di K. continuerà a raccontare la sua vita, gli espedienti e le menzogne, al fratello lontano, riuscito a fuggire al di là della cortina.
Nell'ultimo racconto tutta l'abilità di Agota Kristof strariperà in quella grande menzogna finale sapientemente tessuta rimescolando la storia e le sue carte, confondendo i ricordi, le impressioni, distorcendo la memoria e fondendo i fatti reali e quelli inventati.
Ci si ritrova senza saperlo nella tragedia di un infanzia mancata, nell'assenza di una storia, nella perdita del senso.
Agota Kristof è nata nel 1935 in un piccolo villaggio dell'Ungheria, abbandonata nel 1956, in seguito alla repressione della rivoluzione ungherese da parte dell'esercito sovietico. Trasferitasi in Svizzera, dove tutt'oggi risiede, ha lavorato per cinque anni come operaia in una fabbrica, per poi scrivere e pubblicare racconti e romanzi in lingua francese.
"...la vita è un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione..."
Sbloggata



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