Letture e riletture


30.1.05
Recensione inviata da Carlo (Lo Scaffale)
David Foster Wallace, Oblivion : Stories
In quarta di copertina un'illustre collega lo definisce "Moderno". Ecco l'aggettivo che meglio descrive il Wallace di Oblivion: stories. Tutto è contemporaneo, a volte pare perfino precederci.
È moderna la forma: l'abuso di acronimi e linguaggi tecnici (Mister Squishy), ai limiti dell'incomunicabile, codifica il primato dello scambio di dati sulla comunicazione, l'immedesimazione dell'uomo nel lavoro fino all'avulsione da sé; periodi lunghissimi, subordinate di una pagina e mezza verbalizzano i pensieri torrenziali, disorganici, sconnessi, il divagare dell'uomo contemporaneo, in un Molly's monologue joyceiano invertito, che non precipita nel riposo, ma incede lentamente lungo lo stretto divisorio che separa sonno e veglia, un'impronta onirica che solca ognuno degli otto racconti.
La frequente scelta della prima persona segna la claustrofobia della solitudine, amplifica il rimuginare della voce narrante, che parla a sé piuttosto che al lettore: ancora l'incomunicabilità, il vuoto a perdere, il monologo interiore dell'uomo nel métro.
Sono moderni i temi: le fobie, manie, leggende, orrori, che popolano le menti e le cronache contemporanee abitano anche le pagine di Oblivion: l'apatia con cui sono trattate è lo specchio della desensibilizzazione dell'uomo moderno di fronte all'inflazione del dolore, della sofferenza televisiva che sdogana quella reale fino a fondersi con essa (The Suffering Channel). Il colpo di scena scorre distrattamente tra le righe, il narratore pare non accorgersene, la distorsione passa inosservata, incolore e insapore: è ciò che accade ogni giorno per strada, tra le pagine, sullo schermo: l'Oblio.
C:\arlo (Lo Scaffale)



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