Letture e riletture |
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impressioni o le proprie emozioni. |
21.12.04
Mordecai Richler, La versione di Barney L'ho letto nella traduzione di Matteo Codignola, uscita nel 2000 per Adelphi (l'originale è del 1997). È un libro bellissimo, commovente, divertente. Lo è dalla prima all'ultima parola, sebbene inizi con un'espressione ostile e termini con un'imprecazione. È la storia di una vita da adulto non cresciuto, la storia di un amore incommensurabile, la storia di una storia, del fatto di raccontarla e del modo di farlo. Il protagonista di questa autobiografia divagante è Barney Panofsky, bilioso 67enne fanatico di hockey, goloso fino all'autodistruzione, tre volte sposato, tre volte padre, tre volte innamorato ma di una sola donna ("Miriam, mia adorata Miriam"). Canadese con radici ebraiche, conduce a Montreal una vita in palese contraddizione con i sogni del milieu artistico frequentato in gioventù durante la scapigliata esperienza parigina. La scansione temporale, per quanto dichiarata nella datazione delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo, viene continuamente disattesa dal narratore, che salta di palo in frasca e da un periodo all'altro. Le digressioni, continue, spassose, drammatiche, evidenziano la discrepanza tra desiderio e realtà, le carenze affettive e i vuoti di memoria che sovvertono il meccanismo diaristico. Tristram Shandy è esplicitamente menzionato e in certi momenti la tortuosità narrativa, peraltro sempre godibilissima, gli si avvicina davvero. È un raccontare figlio del paradosso: tra l'autore e il lettore si frappone il protagonista che scrive riproponendosi di far chiarezza sugli eventi, ma che si autodefinisce "un contaballe". Al suo primogenito Mike è affidato il compito di revisione del manoscritto, ma nemmeno le note che corredano il testo riescono a diradare le ombre di cui si ammanta la "verità", fino all'epilogo che fornirà nuove chiavi interpretative, non solo sull'intreccio ma sui livelli di lettura. Un paradosso epistemologico che richiama la cultura yiddish, in grado di permeare la scrittura nel lessico, nello humour e anche nel ritmo, che è quello delle associazioni d'idee, capace di circonvoluzioni amaramente comiche come di portentose accelerazioni negli scambi dialogici, molto caratterizzanti. Il tutto visto attraverso il velo acre di chi redige le proprie memorie patendo problemi di memoria e reagisce con rabbia sorda al peso della fisicità e del fallimento personale: "Io detesto quasi tutti quelli che conosco, ma nessuno quanto il molto disonorevole Barney Panofsky." In realtà i temi toccati sono innumerevoli quanto le allusioni e le sfumature: per questo, oltre che per il piacere, è sicuramente un libro da leggere e rileggere. Giulio Pianese, ovvero Zu
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