Letture e riletture |
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20.10.04
Recensione inviata da Simona Tavella
Il codice Da Vinci, Dan Brown "...Era peggio che immorale, era scritto male." (Oscar Wilde) Più vado avanti, più mi accorgo della profonda saggezza di quelle che con arroganza giovanile chiamavo sprezzante "frasi fatte". Per esempio: è inutile lottare contro il destino. Verissimo ahimè... da brava snob, ho sempre diffidato degli eventi editoriali, dei capolavori annunciati come tali ancor prima dell'arrivo in libreria, dei milioni di copie vendute in tutto il mondo e così, per mesi, non ho fatto che scappare, cambiavo strada al solo vedere in lontananza un sorriso, Quel Sorriso, ho cambiato canale rabbiosamente al solo sentire pronunciare un Nome, ho spesso scosso il capo ascoltando resoconti di notti in bianco in febbrile attesa del disvelarsi di segreti arcani. Fin quando, una settimana fa in libreria, me lo sono trovato davanti all'improvviso e ho capito che era arrivato il capolinea: disfatta, ho ceduto e ho comprato Il codice Da Vinci.Cosa dire a mia discolpa? Cercavo un libro divertente, senza pretese, da leggere senza impegnare troppo i miei poveri neuroni; basta fare la schizzinosa per partito preso! Oltretutto la storia delle religioni mi ha sempre interessato, e sull'argomento ho letto di tutto, dai cosiddetti testi fondamentali alle saghe fantasy di Marion Zimmer Bradley. E allora? Allora il guaio è che Il codice Da Vinci non è un libro, ma una scommessa persa, una buona occasione mancata, perché l'argomento è interessante e avrebbe meritato una scrittura più curata, uno stile più omogeneo. Dan Brown, invece, ha buttato giù un patchwork di citazioni, di ripetizioni, di ovvietà, fatte passare per arcani svelati, di topos letterari che apparirebbero desueti anche alla buonanima di Salgari. Ma procediamo con ordine: la storia si finge in Francia ai nostri giorni; il libro comincia con un feroce e inspiegabile assassinio nei corridoi notturni e deserti del Louvre (vi ricorda Belfagor? Anche a me, appunto...). Combinazione, a Parigi è appena arrivato, su cortese invito della vittima, un famosissimo studioso del simbolismo nella storia delle religioni, bello e affascinante, che si mette nei guai più assurdi alla velocità del fulmine (Indiana Jones? Già...) e siccome l'uomo assassinato, oltre a essere un'eminenza nel campo della storia dell'arte è un eccellente enigmista, prima di morire riesce a disseminare sulla scena del delitto una serie di indizi riconoscibili e interpretabili nelle intenzioni del defunto solo da sua nipote, eminente crittologa - ovviamente giovane, bella, spavalda e sicura di sé fino all'altrui esasperazione. La fanciulla e il clone di Harrison Ford si avventurano impavidi sul terreno minato della ricerca del Graal e, come da tradizione hollywoodiana consolidata, una serie di Cattivi Soggetti cercherà invano di fermarli. Ma tra scontri a fuoco, indovinelli a doppio senso e rebus disseminati in giro tra Francia e Inghilterra, il Graal si troverà dove meno ce lo aspettiamo, non senza avere fatto sudare ai nostri eroi le famose sette camicie. In realtà, per interpretare gli indizi e procedere nella caccia al tesoro che Dan Brown ci propone, basta essere affezionati lettori della Settimana Enigmistica e/o di Astra, ma l'autore continua con indovinelli, rebus, anagrammi, simboli da interpretare, prove di logica dinnanzi alle quali sia la nipote sia Robert Langdon, professore di Simbologia Religiosa, rimangono esterrefatti e basiti come due imbecilli (ma come, la più promettente crittologa di Francia non riesce a riconoscere un manoscritto vergato da destra a sinistra se non dopo cinque pagine di ipotesi a vuoto?! E il miglior esperto di simboli d'America non sa che la stella di Davide è formata dall'intersecarsi di due triangoli che rappresentano il cielo e la terra?!? Per favore...); ma questo sarebbe il minore dei mali: il vero guaio a mio avviso è che la narrazione che in un thriller dovrebbe essere snella, asciutta, scorrevole, è frammentata e inframmezzata da spiegazioni appiccicate senza vera necessità e che all'apparenza non hanno altro scopo che quello di dimostrare al colto e inclito pubblico che Dan Brown si è documentato a lungo prima di mettere mano al libro. Ora, i romanzi di fantasy sono spesso buffi, incongrui, a volte hanno trame ripetitive - parlo delle opere di M.Z. Bradley in particolare - ma mi hanno sempre divertito, riescono infatti partendo da leggende conosciute a creare situazioni godibili, senza per questo pretendere di insegnare o di stupire a tutti i costi chi legge. Il codice Da Vinci è pretenzioso, supponente, ma non aggiunge e non toglie niente a quanto è già noto ai più; la misoginia della chiesa cattolica non è un mistero, credo, per nessuno: non occorre essere studiosi di storia delle religioni per averne sentito parlare, così come basta avere seguito un po' di cronaca degli ultimi dieci anni per avere sentito parlare - male - a torto o a ragione dell'Opus Dei. Peccato, ripeto, lo spunto era buono, sono incavolata come di fronte a un'orata freschissima cotta malamente da un cuoco frettoloso. Adesso poi, pare che dal libro si farà un film: che Monna Lisa abbia pietà di noi. Simona
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