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3.10.04
Recensione inviata da Davide L. Malesi
In quella ch'è la bibliografia di Philip Roth, Operazione Shylock è - sventuratamente - un libro di cui si parla poco. Si parla molto de La macchia umana (per via del film con Anthony Hopkins, e Nicole Kidman, com'è logico); si parla sovente del Lamento di Portnoy (il libro della carriera, se così si può dire di uno scrittore come Roth, che di libri belli e importanti ne ha scritti diversi). Io naturalmente conosco bene Operazione Shylock. Sui margini delle pagine di questo romanzo (di cui posseggo la traduzione di Vincenzo Mantovani nell'edizione dei Tascabili Einaudi: con un bel dipinto di Emilio Tadini, Oltremare, in copertina), ho scritto fiumi di appunti: scene che mi sembrano particolarmente convincenti, dialoghi che m'intrigano alquanto, descrizioni che mi sono parse assai efficaci, e così via. Basti questo a dire che in Operazione Shylock ci sono tutte queste cose: scene ben fatte e ben scritte, eccellenti dialoghi (alcuni dei quali assai lunghi, ma non per questo meno interessanti, comunque mai noiosi) e notevolissimi brani di descrizione, tra cui un tour extraordinaire nei cosiddetti "Territori Occupati", vale a dire quelle zone della Palestina che si trovano sotto il presidio dell'IDF (Israeli Defence Force, cioè l'esercito israeliano). Ma non è questo il punto, oserei dire. Il punto è che Operazione Shylock è un libro importante, per diverse ragioni. La prima, e la più ovvia, è che si tratta di un romanzo incentrato su un dilemma: e di romanzi così ce ne sono in giro, purtroppo, sempre meno. Non voglio dire che siano spariti, o che manchino i dilemmi da cui prendere spunto: voglio dire che, per qualche ragione, molti scrittori oggi preferiscono dare risposte a quelle che sono le più banali domande suggerite dal senso comune, piuttosto che porre domande difficili, a costo di non saper trovare una risposta (incentrare un libro su un dilemma, in pratica, vuol dir questo). Bene, è un momento in cui la tendenza è questa, ed è (a mio avviso) una tendenza innegabile. Ci sono già stati, nella storia della letteratura occidentale, momenti siffatti: quello che stiamo attraversando è, dunque, l'ennesimo. Eppure, Operazione Shylock osa andare in controtendenza, e affrontare (anzi, "incentrarsi su", cioè avere nel suo fulcro narrativo) un dilemma, cioè una domanda che non trova risposte: cos'è l'Identità? E poi, esiste una cosa chiamata Identità? Operazione Shylock è (almeno all'inizio) la storia di un celebre scrittore ebreo, di nome Philip Roth, residente negli Stati Uniti, che un bel giorno si trova ad affrontare una circostanza ben strana: un altro Philip Roth, in tutto e per tutto simile a lui, si trova a Gerusalemme: di lì, si spaccia per lo scrittore Philip Roth e si serve della popolarità, nonché della credibilità, di questo scrittore per proclamare una bizzarra tesi politica, da cui - vien detto - potrebbe dipendere il destino della razza e della civiltà ebraiche (non vi dico in cosa consiste la tesi, perché è così folle e insieme intrigante che mi parrebbe un delitto quello di non lasciarvelo scoprire da voi). Ora, non v'è dubbio che al giorno d'oggi gli ebrei siano in pericolo costante (almeno quelli che vivono in Israele, minacciati dal terrorismo che non è, nel loro caso, uno spettro: ma una realtà quotidiana). E questa è la ragione per cui il "falso" Philip Roth sfrutta l'identità di un famoso scrittore, che è un fenomeno mediatico, che può parlare ai giornali e alle televisioni: per cercar di salvare, a suo modo, gli ebrei d'Israele. Ovvia deduzione del Philip Roth autentico: il "sosia" è un impostore che parla usando il suo nome, perciò deve recarsi laggiù e smascherarlo. Messa così, sembra facile: ma poi, quando il "vero" Philip Roth incontra il Philip Roth "fasullo", le cose si complicano e il Philip Roth "vero" si domanda: "Chi è mai, costui? Perché sfrutta il mio nome, la mia fama di scrittore, per uno scopo politico? E soprattutto, non rappresenta costui forse un'alternativa a me stesso?" Vale a dire: il Roth "falso", d'accordo, è un impostore; ma se il Roth "vero" avesse voluto, avrebbe potuto forse intraprendere la strada di quello "falso", per propagandare quella certa tesi politica, anzi dedicarvi l'esistenza. E, si chiede il Roth "vero", se fosse il sosia ad aver ragione? Vale a dire, se il futuro della razza e della civiltà ebraiche potessero essere salvati solo nella maniera proposta dal falso Philip Roth? Quale dei due Philip Roth sarebbe più "vero"? Quello che si gode gli agi e le soddisfazioni di un'esistenza da scrittore di successo, o quello che rischia tutto - anche se è un "tutto" che non gli appartiene - per cercare di salvare gli ebrei, e l'ebraismo, e tutto ciò che esso rappresenta? Vale a dire: è vero ciò che è vero, o è più vero ciò che è giusto? Ce ne sarebbe abbastanza, anche così, per leggere il romanzo. Ma c'è di più. Il Philip Roth "vero", preso da questo dilemma, esplora - come in una sua privata discesa all'inferno - i volti, non sempre gradevoli, di ciò che significa "essere ebreo". Perché, ancor prima di stabilire se la tesi del falso Philip Roth può salvare gli ebrei, bisogna capire se gli ebrei meritano di essere salvati. Ed è un discorso che si potrebbe fare per qualsiasi cultura, e che anche a noi esponenti della presunta cultura cristiano-occidentale (che tanto appassiona Oriana Fallaci), farebbe bene: prima di organizzarci per ammazzare quanti arabi dobbiamo ammazzare per "salvarci", non dovremmo forsi capire se meritiamo di "salvarci" a loro spese? (Posto che il concetto di "salvezza", in questo caso, sia quello giusto). È quello che fa il "vero" Philip Roth - insieme, narratore e protagonista - in questo libro, interrogando i personaggi che man mano incontra sulla sua strada e venendone interrogato a sua volta: personaggi che sono, ciascuno, un interlocutore di una precisa "realtà": c'è l'israeliano pacifista e antisionista, il sionista convinto e oltranzista, l'arabo affascinato dalla cultura ebraica cresciuto negli Stati Uniti, una donna - un tempo antisemita - che, innamoratasi del "falso" Philip Roth, ha fatto sua la causa della "salvezza" degli ebrei, e così via. E qui Philip Roth scopre, di volta in volta, che ognuno dei personaggi che incontra è prigioniero di una sua verità, di una sua visione del mondo, e incapace di metterla in discussione: per lui, esiste solo ciò che crede - o meglio, ciò che vede. Le "altre versioni" della realtà vengono, inevitabilmente, scartate, evitate, negate, respinte: il sionista non può credere alla verità dell'arabo, e a quella di nessun altro, non tanto perché "lui è un sionista", ma perché ognuno di noi costruisce la propria identità attorno a una visione del mondo: e negare quella visione del mondo, significa negare anche quell'identità. Di nuovo il dilemma dell'Identità, appunto. Un romanzo inquieto, dunque, quello di Philip Roth. E per questo, a mio avviso, un romanzo avvincente e intrigante. Io li amo, i romanzi incentrati su un dilemma. Perché, vedete, se uno vuol scrivere per enunciare verità e proclamare la sua fede (politica, religiosa, quello che è), a mio avviso, farebbe meglio a non scrivere romanzi. Scriva trattati filosofici, pamphlet, discorsi. Il romanzo è, di per sé, una materia inquieta: che merita tutta l'incertezza che un narratore è capace d'infondervi. Almeno, in base alla mia modesta opinione. Davide L. Malesi (licenziamento del poeta)
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