Letture e riletture


13.9.04
Recensione inviata da Lorenza Boninu
Paola Mastrocola, Una barca nel bosco (Guanda, 2004)
È un romanzo. Scritto da una prof. Parla della paradossale sformazione (come qualcuno l'ha definita) di un ragazzino appassionato di letteratura, amante del latino, lettore di Verlaine, a contatto con le pochezze, le meschinità e il pressapochismo della scuola di oggi: il piccolo Gaspare Torrente, figlio di un pescatore, nato su un'isola, arrivato a Torino, con grande sacrificio dei suoi genitori, per studiare in un prestigioso liceo cittadino. Destinato a sentirsi, e ad essere, una barca nel bosco, come affettuosamente lo definisce la zia, o un extraterrestre, come lo soprannominano con implacabile crudeltà i compagni, che non capiscono i suoi dieci in latino, le sue scarpe fuorimoda, i suoi goffi tentativi di adeguarsi al conformismo dominante. Conformismo che gli stessi professori incoraggiano: con i loro fantasiosi "progetti accoglienza", le "Ore di Ascolto", il Latino "divertente", l'incessante invito a inserirsi, uniformarsi, aggregarsi che in mille modi diversi rivolgono al povero Gaspare, sempre più disorientato e stralunato. Il protagonista, crescendo, finirà per trovare un suo paradossale equilibrio, dando vita, quasi per caso, a un surreale "Boscomondo", un vero e proprio bosco che distende le sue fronde oltre i muri, il soffitto e il pavimento del suo appartamento torinese, un rifugio misterioso dove continuare a tradurre gli amati autori latini: non senza aver prima abbandonato timidi sogni di affermazione professionale (il posto cui aspirava gli viene sottratto da un vecchio compagno di liceo, naturalmente raccomandato) e aver ripiegato sulla più modesta gestione di un bar.

Questa, in sintesi, la storia. Storia che non manca di precisi agganci con la realtà. L'autrice, come ho detto, è un'insegnante e la sua aspra satira nei confonti di una scuola che non trasmette più cultura ma insegna solo un'opprimente, alienante mediocrità è per molti versi azzeccata. Eppure il libro non mi è piaciuto. Direi quasi che mi ha comunicato un sottile, spiacevole disagio. Perché chi l'ha scritto fa tuttora il mio medesimo mestiere e, in un modo o nell'altro, mi pare che non voglia bene ai suoi alunni. A scanso di improbabili equivoci deamicisiani, dirò che "voler bene" significa, in primo luogo, stimare i propri allievi e credere che si possa comunque cavar qualcosa da loro, anche a costo di trattarli male, se capita. E se per far questo occorre talvolta andare contro il sistema, si può fare. Ma la signora Mastrocola in questo caso ha preferito la strada letteraria. Si è costruita con la fantasia l'ipotetico allievo perfetto, quello che ogni insegnante di lettere appena appena onesta desidererebbe, e poi lo ha messo a contatto con un gruppo di supeficialotti borghesucci senza cervello e ha guardato che cosa sarebbe successo. Avrà esagerato i toni per amor di narrazione, evidentemente, ma alla fine non ha costruito dei personaggi, solo degli stereotipi.
Sarà che di stereotipi, comprendendo nella compagnia anche l'insopportabile figura del professore che si lamenta dei crudeli tempi moderni e tesse nostalgicamente le lodi della scuola del passato, ne ho piene le tasche. Sarà che i ragazzi veri con cui ho a che fare, con tutto il loro innegabile conformismo, il gergo, il look, le mode, la poca voglia di studiare ecc. ecc., non sono per niente stereotipati. Sarà che ti capita, più spesso di quanto si creda, l'allievo bravo e motivato, che va avanti anche se non è raccomandato e che, udite udite, riesce perfino a evitare di imbrancarsi. Sarà che la scuola di oggi fa schifo, ma quella che ho fatto io (tardi anni Settanta, per intenderci) non è che fosse il migliore dei mondi possibili, anzi. Sarà che il conformismo, e la conseguente omologazione, non sono un'invenzione dei tremendi "tempi moderni". Sarà che il protagonista, alla fine, risulta davvero un po' antipatico e anch'io, fossi stata una sua compagna di scuola, forse lo avrei scansato (e fossi stata una sua insegnante, in effetti, lo avrei esortato a scendere dal pero, o meglio, dal pioppo).
Ho chiuso il libro e l'ho messo da parte. Ci ho pensato parecchio, tuttavia. Perché è un testo pericoloso, uno di quelli catastrofici che, forse contrariamente alle intenzioni, ti spingerebbero a credere che, nello sfacelo generale, non ci sia più scampo per il talento e la passione. Macché. Invece di piantare un bosco in casa, Gaspare avrebbe fatto meglio ad andare a donne, forse. E poi a rimboccarsi le maniche e vedere se poteva fare qualcosa. Perché qualcosa si può sempre fare.
(Mi resta una curiosità: come hanno giudicato il libro alunni e colleghi dell'autrice?)
Lorenza (contaminazioni)



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