Letture e riletture |
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6.6.04
Recensione inviata da Alice Avallone Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche (a cura di Giovanna Spendel per Mondadori) L'infido connubio di acque e di marmi che oggi ha nome Leningrado e che nacque come San Pietroburgo, più familiarmente Piter, ebbe origine dal capriccio di un autocrate che volle prevalere sulla natura oltre che sugli uomini, e decise di costruire la capitale del proprio impero in una fangaia, esposta a maree, glaciazioni, alluvioni, tempeste di neve e periodici affossamenti. Il sogno di Pietro il Grande, che pose la prima pietra nel 1703, non fu abbandonato dai suoi successori, malgrado i lamenti e recriminazioni sull'infamia della località scelta; a Caterina II, che deplorava gli effetti del clima feroce sulla sua salute, un cortigiano altrettanto costipato rispose che non era colpa di Dio se gli uomini insistevano a costruire la capitale di un grande impero in un luogo destinato dalla natura a dimora di orsi e lupi. Nella prima metà dell'Ottocento, Pietroburgo era ormai sostanzialmente la città che possiamo ammirare oggi. Si estendeva su una superficie di un centinaio di chilometri quadrati, dispiegandosi a ventaglio lungo le braccia ramificate della Neva e comprendendo sei grandi isole naturali, una artificiale e una quantità di isolotti. Scenario immenso e grandioso, fondale ideale per le escogitazioni dei romanzieri: lo scintillo della Corte, il tumulto della metropoli, le imponenti quinte neoclassiche e barocche, il tocco esotico delle cupole a cipolla ortodosse, la babele di costumi russi ed ucraini, lettoni ed ebrei, finni e samoiedi, i mercanti tedeschi e i musicisti francesi, le uniformi sgargianti della guardia imperiale e le pellicce sontuose delle signore, le notti bianche d'estate, quando il sole non scende mai oltre la linea dell'orizzonte, e i cupi mesi invernali quando il giorno è poco più di un protratto crepuscolo; i ponti e i canali, la Neva gelata, le immense nevicate. Una città anfibia e teatrale, una Roma da Disneyland trapiantata fra le brume del Nord. Dostoevskij colse di questa strabiliane scenografia solo gli aspetti più cupi. La sua Pietroburgo è triste, grigia, umida, buia, percorsa da personaggi tormentati e straziati, umiliati e offesi, vili e meschini, vittime e delinquenti. Un'umanità sofferente e penosa, minata da tare palesi o nascoste, insidiata da mali morali e materiali preferibilmente vissuti senza colpa, un catalogo di miserie dilatato per migliaia di pagine al termine delle quali il lettore è in preda a una profonda sensazione di angoscia... Ed è in questa surreale città che vive Nastenka, una brunetta assai graziosa, con la nonna. A far da sfondo, una Neva color carta da zucchero e la fatale balaustra che accoglie i tristissimi slanci amorosi del Sognatore e i soprassalti della fanciulla diciassettenne. Il Sognatore resta da solo in città, senza amici, senza conoscenti, poiché in tanti anni che vive lì non è riuscito a crear alcun legame. Gli unici contatti da lui instaurati sono con i palazzi, con le strade di Pietroburgo. Il suo vivere distaccato dalla realtà, in un mondo etereo, termina quando, su un ponte della città, gli appare Nastenka, che diventa per lui l'essenza preziosa di quattro notti di illusioni, di compassione prima e poi di folle e innegabile amore. E a concludere tutto, ecco "Mattino", quasi a significare che la bellezza e il fascino delle notti era ingannevole e il risveglio è spesso una delusione. Lei era promessa a un altro giovane, che compare alla fine, frantumando la Vita del Sognatore. Alice Avallone
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