Letture e riletture |
|
Questo è uno spazio pensato per chi dopo ogni lettura desidera condividere le proprie
impressioni o le proprie emozioni. |
19.6.04
Meir Shalev, La montagna blu, (traduzione di Elena Loewenthal per Frassinelli)
Un romanzo legato alla terra. Terra da bonificare e dissodare, terra in cui mettere radici e seppellire i morti. L'ambientazione è quella della Terra d'Israele, non ancora Stato, che accoglie con la sua generosa asperità l'ondata di pionieri sciamati dalla Russia all'inizio del secolo scorso. Attraverso storie individuali ancora permeate dal sentore della libertà di chi non ha confini né regole prestabilite, ma accomunate dai limiti o dalla grandezza della condizione umana, si sviluppa la doppia valenza dell'opera, che è insieme racconto di vicende particolari e simbolo di temi universali. La narrazione procede dal punto di vista di Baruch, eterno enorme bambino, orfano cresciuto dal mitico nonno ch'è figura imprescindibile per l'intera comunità e ancor più per il nipote, il cui corso del vivere continuerà a determinare anche dopo la sua dipartita. Tre generazioni contribuiscono e assistono alla crescita del villaggio senza però riuscire a mutarne la sostanza profonda, quella che trae l'essenza della sua connotazione dalla terra stessa. Terra che nutre, terra che chiama. Terra destinata all'agricoltura, terra usata per la sepoltura. Più del raccolto, redditizia sarà la raccolta di morti: quelli tornati a farsi inumare al Riposo del Pioniere. Legati alla terra, tutti, uomini e donne di questo romanzo agricolo. Legati alla terra che produce, alla terra causa ed effetto del vivere, alla terra che sfianca e uccide, alla terra simbolo e materia, che accoglie abbraccia e infine seppellisce. Dalla terra ci si stacca esclusivamente grazie all'amore, solo grazie ad esso il pensiero si libra e l'animo si fa leggero. L'amore viene mostrato in diverse accezioni e quasi nessuno sembra farvi eccezione, sia pure con diverse sfumature gustative che vanno dall'innocenza dell'amore innato tra infanti alla delusione dell'abbandono, dalla dolcezza spirituale dell'entusiasmo monogamico adorante a quella palatale di colei che abbandona il marito per un apicultore, dal sale delle lacrime per il distacco violento a quello per il rimpianto mai sopito, dal rassicurante sapore antico della dedizione tra nonno e nipote, con il salto di una generazione mutilata, a quello squieto ma divertito dell'insaziabile adulterio. Lo sfondo storico è vago: si sa di guerre lontane e di conflitti vicini, entrambi in grado di venire a strappare le carni vive nel cuore del villaggio. I pionieri, eroi della natura, si confrontano con una realtà fatta di terra e fango, di lotta contro le paludi, di fame, che la mitopoiesi del ricordo fa trascolorare in età dell'oro. Come nei midrash, il mito e la leggenda si fanno quotidianità e vengono osservati con mente raziocinante e non impressionabile dall'osservatore privilegiato che ne diviene voce narrante. Così, le persone restano tali, anche se sapevano far rifiorire magicamente un'intera coltivazione o portare in spalla un toro di diversi quintali. Di quelle figure, la comunità pare conservare il rimpianto più che il ricordo. L'atteggiamento rispecchia un rapporto conflittuale con il passato che in qualche modo coinvolge tutti i personaggi, i quali non riescono a staccarsi da ciò che è stato per accogliere e vivere pienamente ciò che è. Paradigmatica in tal senso la figura di Meshulam, ossessionato fino al feticismo e oltre, quando tentando di ricreare la palude, l'antica nemica, attua l'insano meccanismo di chi in fondo vuole ritrovare la sofferenza per sentirsi vivo. La montagna blu, presenza incombente ma mai invasiva, è una sorta di firmamento immobile, protezione ma anche isolamento. Al suo cospetto si susseguono costruzione e disfacimento, incanalamento e pazzia, dottrina e ribaltamento, regola e sregolatezza. Non vi si sfugge: e chi non è toccato dal salvifico amore può sottrarsi al fallimento solo mediante un abnorme distacco, possibile solo nella deformazione di chi anziché vivere in proprio racconta il vivere altrui e poi seppellisce tutti, come il romanziere quando chiude il cassetto. Giulio Pianese, ovvero Zu
HOME - Scrivimi ARCHIVIO agosto 2002 settembre 2002 ottobre 2002 novembre 2002 dicembre 2002 gennaio 2003 febbraio 2003 marzo 2003 aprile 2003 maggio 2003 giugno 2003 luglio 2003 agosto 2003 settembre 2003 ottobre 2003 novembre 2003 dicembre 2003 gennaio 2004 febbraio 2004 marzo 2004 aprile 2004 maggio 2004 giugno 2004 luglio 2004 agosto 2004 settembre 2004 ottobre 2004 novembre 2004 dicembre 2004 gennaio 2005 febbraio 2005 marzo 2005 aprile 2005 maggio 2005 giugno 2005 agosto 2005 settembre 2005 ottobre 2005 novembre 2005 dicembre 2005 gennaio 2006 febbraio 2006 aprile 2006 maggio 2006 giugno 2006 luglio 2006 agosto 2006 settembre 2006 ottobre 2006 novembre 2006 dicembre 2006 gennaio 2007 febbraio 2007 marzo 2007 aprile 2007 maggio 2007 giugno 2007 luglio 2007 agosto 2007 settembre 2007 ottobre 2007 novembre 2007 dicembre 2007 gennaio 2008 febbraio 2008 marzo 2008 aprile 2008 maggio 2008 giugno 2008 luglio 2008 agosto 2008 settembre 2008 ottobre 2008 novembre 2008 dicembre 2008 gennaio 2009 febbraio 2009 marzo 2009 aprile 2009 maggio 2009 giugno 2009 ottobre 2009 novembre 2009 agosto 2010 gennaio 2011 luglio 2011 dicembre 2011 aprile 2013 luglio 2013 agosto 2014 maggio 2016 settembre 2016 ottobre 2016 novembre 2016 luglio 2020 dicembre 2022 |
|