Letture e riletture |
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4.12.03
Recensione inviata da contaminazioni Marco Santagata, Il maestro dei santi pallidi, Ugo Guanda Editore, 2003 No, questo romanzo non è un capolavoro. Letterariamente è opera di buon artigianato: il meccanismo narrativo funziona, anticipazioni e flash back sono al posto giusto, i dialoghi sono credibili, i personaggi sono sufficientemente tratteggiati. Del resto, l'autore è un professore: sa quel che fa e sa come farlo. Forse la scrittura manca un po' di ritmo. Ma, d'altra parte, chi può dire che cosa sia il ritmo narrativo? La letteratura funziona come la buona cucina: a parità di ingredienti, con identica preparazione, uno riesce a creare un piatto sopraffino, l'altro si limita ad una dignitosa pietanza. E comunque il merito maggiore di questo romanzo non consiste nella sua qualità letteraria, quanto nel suo essere, come dire, pregno di dottrina senza essere saccente. Santagata è uno specialista del periodo in cui la storia di Cinìn, il suo protagonista, è ambientata, e si sente. L'autore maneggia con disinvolta abilità questioni e suggestioni critiche di indubbio spessore e le trasforma in racconto. Il Quattrocento: epoca strana, non più medievale, ma sempre lontana dalle sirene della modernità, epoca in cui l'uomo scopriva se stesso, quasi con timore, e i pittori, sebbene ancora onesti artigiani e tenuti in conto relativo dai potenti piccoli e grandi del tempo, lentamente stavano conquistando la loro aura, si trasformavano in artisti, rivendicavano il proprio genio, la propria unicità. Un'epoca sospesa fra latino e volgare, percorsa da sperimentalismi arditi nella scrittura come nell'arte, incerta fra l'aulicità petrarchesca delle corti e la ruvida, concreta carnalità popolaresca. Classica e anticlassica a un tempo, fra Burchiello e Poliziano, fra Lorenzo e Savonarola, desiderosa di laicità ma sempre tentata dall'aspro rigorismo religioso del Medioevo. Le sue dame si consumavano sui versi del Petrarca e sui romanzi cavallereschi, e si identificavano con i martiri della Francesca di Dante. I languori poetici delle donzelle preludevano al gioco raffinato delle corti rinascimentali, ma nella sostanza mantenevano ancora il declinante profumo del gotico fiorito. Eppure in questi anni incerti fra passato e futuro si imponeva la travolgente scoperta della prospettiva. È stato detto che la prospettiva rinascimentale "ha inventato, nello stesso tempo, la tecnologia ad alta definizione, cioè la perfetta riproduzione del mondo, la copia che vorrebbe confondersi con l'originale, e la cornice-finestra, cioè la domanda sulla natura del quadro, la differenza fra copia e originale" (Iacono). Tecnologia ad alta definizione, già: la cosa, nei nostri tempi abituati a fronteggiare le sfide della realtà virtuale, tempi viziati dagli effetti speciali e dall'avvolgenza del Dolby surround, non fa impressione più di tanto. Ma attraverso gli occhi ammirati e stupiti di Cinìn, attraverso lo sguardo scandalizzato dei suoi committenti che non riescono a tollerare la straniante ambiguità dell'illusione prospettica, noi cogliamo per intero l'impatto sconvolgente della prospettiva al momento della sua affermazione, riusciamo a intuire la profonda emozione che doveva cogliere lo spettatore contemporaneo davanti a quel gioco creativo che sembrava alterare irrimediabilmente i confini fra realtà e finzione. Cinìn, senza saperlo, è l'uomo dei tempi nuovi. È un bastardo, sconosciuto persino a se stesso. Il mondo che lo circonda, un mondo piccolo, di meschini adulteri sublimati letterariamente, di signorotti locali che si fanno la guerra per un lembo di terra, di pittori artigiani, onesti lavoratori del colore simili più a piccoli imprenditori borghesi che all'immagine romantica dell'artista tutto genio e ispirazione, che contrattano sul prezzo con committenti avari e ottusi, non può comprenderlo e, alla fine, in un modo o nell'altro, lo rifiuta. Cinìn, l'illetterato, l'analfabeta, omo sanza lettere come Leonardo (che si definiva così, manifestando tutta la sua diffidenza per il sapere libresco e faceva unico riferimento all'esperienza), rischia di morire per quel rifiuto. Ma il destino lo salva: la corda, con cui ha deciso di impiccarsi dopo che, dall'ottusità della dama segretamente amata per tutta la sua vita, amata come si ama un sogno o una chimera, è stato costretto a distruggere l’affresco in cui aveva speso tutta la sua arte, e’ marcia. Cinìn e’ salvato e rifocillato dal suo antico compagno di giochi alla masseria, Tugnin, il figlio più piccolo del Massaro, l'uomo indifferente e brutale che lo aveva comprato, chissà dove, chissà da chi, quando era ancora un bambino. E nella franca risata di riconoscimento di Tugnin, che un tempo era stato il suo unico amico, Cinìn si riconcilia con la sua vita e con un futuro che gli appartiene per intero: a lui, Gennaro, Bastardin o Bastardone, divenuto per sempre il maestro dei santi pallidi. Lorenza Boninu
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