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15.12.03
Doppia recensione inviata da Gianpaolo Armani
Chi ama la Spagna non può prescindere da due romanzi che sono usciti recentemente. Paloma è tornata di Antonio Steffenoni (Marco Tropea editore, pp. 252. Euro 14) e Spagna di Maurilio Barozzi (Giunti, pp. 157. Euro 7,5). Seppur diversi, i due libri, con la loro ambientazione nella terra iberica, riescono a descrivere una Spagna mitica e gravida di storia, cogliendo appieno il senso di amore e morte che da sempre si lega indissolubilmente a quella terra. Cominciamo con la morte. Entrambi i romanzi hanno la morte come referente e protagonista. Ma se in Antonio Steffenoni la morte è intesa come un ultimo atto di speranza, una compagna di strada con cui abituarsi a convivere, pronta a comparire all'improvviso in una sorta di colpo di teatro ("Sono riuscito a prendere in giro la morte. Perché lei crede di avermi sorpreso, capisci? Deve aver creduto, in tutti questi anni che io parlassi sul serio quando […] ripetevo che i toreri sono soltanto gente che passa la vita a convivere con la morte perché non ha il coraggio di morire"). Un atto di speranza, di forza, di coraggio. Un gesto tragico quanto politicamente corretto, finalizzato ad uno scopo, che lascia in chi resta un'eredità importante e di lui un'immagine alta. In Maurilio Barozzi la morte è altro. È la disperazione di qualche cosa che può anche non lasciare niente, nemmeno impronte "sul polveroso sentiero". È un mistero senza risposta. È l'ineluttabile che rende l'esistenza umana "orfana della parte finale" dei progetti che si è data ("Proprio qui sta il cuore della faccenda. La sua diversità con l'uomo va ricercata non tanto nella differenza di materia, ma nella capacità onnipotente e inalienabile che la morte ha di portare a conclusione la propria incombenza, chiunque essa riguardi"). Amore. Ad una lettura immediata, i due romanzi parrebbero essere declinati essenzialmente al maschile. Torero il protagonista di Steffenoni; figlio di un allevatore, quello di Barozzi. Ma a ben guardare, pur non apparendo troppo, nei due romanzi sono le donne il motore immobile della vicenda, come interessanti - e spagnolissimi - sviluppi dell'epigrafe di un capriccio di Goya ("Volaverunt?"). Il ritorno di Paloma, la donna di cui "il Rosso" era innamorato, spinge il protagonista di Steffenoni al ritorno alle corride. La disperata ricerca della donna affascinante incontrata nel capodanno Duemila a Barcellona, porta il Samuele di Barozzi in Spagna per ben tre volte. Amore e morte, dunque, che trovano approdo proprio in una terra, la Spagna, dove i contrasti sono così marcati. Ma non solo amore e morte. Anche violenza. Due libri violenti, si può dire. Paloma è tornata ha una violenza insita nei personaggi: i franchisti che picchiano e torturano con scosse ai piedi e ai genitali gli oppositori. E poi li finiscono. Violentano le donne, uccidono le madri. Ma Antonio Steffenoni dà vita a protagonisti buoni. Che riescono a convogliare la propria violenza, la propria sete di vendetta (di per sé negativa) in una giusta causa. Spagna viceversa ha dei protagonisti né buoni né cattivi che però si muovono, seguendo le tracce del loro destino, in un contesto, in un ambiente, arido, aspro, a volte addirittura trucido. Maurilio Barozzi, con prosa affilata e precisa, crea nell'Andalusia (percorsa a cavallo), in Aragona e lungo il Camino di Santiago (coperto in bici) un ambiente primordiale e talvolta spigoloso. Pure alcuni dialoghi sono in spagnolo, quasi a riprodurre, nel medesimo tempo, una sonorità e un'ostilità. Un contesto scelto opportunamente per un confronto vita-morte nella patria delle corride; una narrazione che mischia abilmente la vicenda con la mitologia, sempre pronta ad affiorare dalle pagine di Spagna. Finiamo con la struttura. Qui i due romanzi sono diversissimi. Antonio Steffenoni sfilaccia la trama facendola procedere a singulti, colmandola di flashback e digressioni che lentamente fanno fiorire il filo rosso della vicenda fino al finale che offre al lettore la chiave completa di fruizione. Maurilio Barozzi avanza lineare in un plot apparentemente semplice ma che, nell'incedere della storia, affonda il lettore in una sorta di oscurità misteriosa che lo stesso lettore deve risolvere. Entrambi i libri, comunque, sono accumunati da una finzione di fondo: la trama complessa di Steffenoni che approda a chiara soluzione e, viceversa, la lineare semplicità di Barozzi che, quasi trascinata da incontrovertibili leggi cosmiche, sprofonda nel mistero. Due romanzi diversi ma che offrono, ognuno a proprio modo e con le proprie caratteristiche, due spaccati davvero interessanti della Spagna. G. Armani 4.12.03
Recensione inviata da contaminazioni Marco Santagata, Il maestro dei santi pallidi, Ugo Guanda Editore, 2003 No, questo romanzo non è un capolavoro. Letterariamente è opera di buon artigianato: il meccanismo narrativo funziona, anticipazioni e flash back sono al posto giusto, i dialoghi sono credibili, i personaggi sono sufficientemente tratteggiati. Del resto, l'autore è un professore: sa quel che fa e sa come farlo. Forse la scrittura manca un po' di ritmo. Ma, d'altra parte, chi può dire che cosa sia il ritmo narrativo? La letteratura funziona come la buona cucina: a parità di ingredienti, con identica preparazione, uno riesce a creare un piatto sopraffino, l'altro si limita ad una dignitosa pietanza. E comunque il merito maggiore di questo romanzo non consiste nella sua qualità letteraria, quanto nel suo essere, come dire, pregno di dottrina senza essere saccente. Santagata è uno specialista del periodo in cui la storia di Cinìn, il suo protagonista, è ambientata, e si sente. L'autore maneggia con disinvolta abilità questioni e suggestioni critiche di indubbio spessore e le trasforma in racconto. Il Quattrocento: epoca strana, non più medievale, ma sempre lontana dalle sirene della modernità, epoca in cui l'uomo scopriva se stesso, quasi con timore, e i pittori, sebbene ancora onesti artigiani e tenuti in conto relativo dai potenti piccoli e grandi del tempo, lentamente stavano conquistando la loro aura, si trasformavano in artisti, rivendicavano il proprio genio, la propria unicità. Un'epoca sospesa fra latino e volgare, percorsa da sperimentalismi arditi nella scrittura come nell'arte, incerta fra l'aulicità petrarchesca delle corti e la ruvida, concreta carnalità popolaresca. Classica e anticlassica a un tempo, fra Burchiello e Poliziano, fra Lorenzo e Savonarola, desiderosa di laicità ma sempre tentata dall'aspro rigorismo religioso del Medioevo. Le sue dame si consumavano sui versi del Petrarca e sui romanzi cavallereschi, e si identificavano con i martiri della Francesca di Dante. I languori poetici delle donzelle preludevano al gioco raffinato delle corti rinascimentali, ma nella sostanza mantenevano ancora il declinante profumo del gotico fiorito. Eppure in questi anni incerti fra passato e futuro si imponeva la travolgente scoperta della prospettiva. È stato detto che la prospettiva rinascimentale "ha inventato, nello stesso tempo, la tecnologia ad alta definizione, cioè la perfetta riproduzione del mondo, la copia che vorrebbe confondersi con l'originale, e la cornice-finestra, cioè la domanda sulla natura del quadro, la differenza fra copia e originale" (Iacono). Tecnologia ad alta definizione, già: la cosa, nei nostri tempi abituati a fronteggiare le sfide della realtà virtuale, tempi viziati dagli effetti speciali e dall'avvolgenza del Dolby surround, non fa impressione più di tanto. Ma attraverso gli occhi ammirati e stupiti di Cinìn, attraverso lo sguardo scandalizzato dei suoi committenti che non riescono a tollerare la straniante ambiguità dell'illusione prospettica, noi cogliamo per intero l'impatto sconvolgente della prospettiva al momento della sua affermazione, riusciamo a intuire la profonda emozione che doveva cogliere lo spettatore contemporaneo davanti a quel gioco creativo che sembrava alterare irrimediabilmente i confini fra realtà e finzione. Cinìn, senza saperlo, è l'uomo dei tempi nuovi. È un bastardo, sconosciuto persino a se stesso. Il mondo che lo circonda, un mondo piccolo, di meschini adulteri sublimati letterariamente, di signorotti locali che si fanno la guerra per un lembo di terra, di pittori artigiani, onesti lavoratori del colore simili più a piccoli imprenditori borghesi che all'immagine romantica dell'artista tutto genio e ispirazione, che contrattano sul prezzo con committenti avari e ottusi, non può comprenderlo e, alla fine, in un modo o nell'altro, lo rifiuta. Cinìn, l'illetterato, l'analfabeta, omo sanza lettere come Leonardo (che si definiva così, manifestando tutta la sua diffidenza per il sapere libresco e faceva unico riferimento all'esperienza), rischia di morire per quel rifiuto. Ma il destino lo salva: la corda, con cui ha deciso di impiccarsi dopo che, dall'ottusità della dama segretamente amata per tutta la sua vita, amata come si ama un sogno o una chimera, è stato costretto a distruggere l’affresco in cui aveva speso tutta la sua arte, e’ marcia. Cinìn e’ salvato e rifocillato dal suo antico compagno di giochi alla masseria, Tugnin, il figlio più piccolo del Massaro, l'uomo indifferente e brutale che lo aveva comprato, chissà dove, chissà da chi, quando era ancora un bambino. E nella franca risata di riconoscimento di Tugnin, che un tempo era stato il suo unico amico, Cinìn si riconcilia con la sua vita e con un futuro che gli appartiene per intero: a lui, Gennaro, Bastardin o Bastardone, divenuto per sempre il maestro dei santi pallidi. Lorenza Boninu 3.12.03
Recensione inviata da Gus
Clara Miccinelli, Carlo Animato - Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto [Sperling & Kupfer 2003 - pp. 311 euro 12,50] Un originalissimo thriller italiano che nulla ha da invidiare ai maestri anglosassoni del brivido, ricco di sorprese e colpi di scena da mozzare il fiato agli amanti del genere. Questo Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto l'ho trovato un entusiasmante giallo storico ambientato in Perù, Spagna e Vaticano tra '500 e '600. In breve, la storia, tratta da antichi manoscritti inediti e cronache coeve, racconta la vita vera e avventurosa di Blas Valera: è un meticcio peruviano che fu tra i primi a diventare missionario gesuita nella sua terra, nato da madre inca e padre spagnolo (frutto bastardo d’uno stupro da parte d'un conquistador). Blas entra nella Compagnia di Gesù, per poter meglio aiutare la sua gente disgraziata e oppressa dalla protervia spagnola, ma il suo spirito indomito è un pericolo per gli invasori, e così il vendicativo Generale dei gesuiti lo esilierà proprio nella Spagna che da sempre contesta. Qui di Blas si perde ogni traccia, eccetto la sua tomba, in un piccolo cimitero di Malaga. E qui s'incontrano, casualmente pare, due personaggi che tentano di ricostruirne l'enigmatico passato, alla ricerca delle sue carte compromettenti (contro personaggi del calibro di Cristoforo Colombo e Francisco Pizarro) e dei suoi mille segreti: sono il grande inquisitore Juan de Mariana e l'eretico Ruiruruna, amico d'infanzia di padre Valera, che proprio sulla sua tomba sta premeditando uno sconcertante omicidio... Il tema è originale; i personaggi, credibili; gli ambienti, suggestivi; il plot, intrigante. Così tra sospetti e mezze verità, marrani ritrovati cadaveri e inquietanti lettere anonime, i due protagonisti affrontano temi fondamentali come il conflitto tra bene e male, l'ambigua e duplice natura dell'uomo, il senso della giustizia. E mentre il destino tesse la sua vischiosa ragnatela proprio lì, fra le lapidi di quel piccolo cimitero andaluso, la suspence mi ha inchiodato pagina dopo pagina, mentre preparava un'inquietante, duplice, insospettata sorpresa... Che non vi dico qui, naturalmente! gus
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