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19.12.02
Recensione inviata da matteoc
La lingua perduta delle gru di David Leavitt è una storia di persone che vogliono e devono comunicare. Devono dirsi qualcosa oppure farlo capire. Mostrare una realtà o spiegarla con le parole. Sarebbe un peccato limitarsi a descrivere una trama complessa, ma piana. Non riuscirebbe a mostrare appieno la tensione dei personaggi verso la comunicazione, l'amore, il loro nucleo familiare, costituito o ancora da creare, che rappresentano il motore degli eventi del primo fortunato romanzo dell'autore americano. Leavitt ci mostra una famiglia. Owen e Rose, due professionisti dell'editoria che hanno passato i cinquanta, e il loro figlio Phillip. Leavitt ce li introduce con dolcezza, lasciandoci per le prime pagine il compito di capire chi sia il protagonista. Dopo un po' si lascia perdere, sono a modo loro tutti protagonisti (nella postfazione dell'edizione Mondadori la Pivano afferma che la protagonista è Rose), insieme alle altre figure che lungo la strada entrano nella vita dei tre. Il cuore della vicenda principale parte da una improvvisata riunione familiare in cui Phillip confida ai suoi genitori di essere omosessuale. Non è al corrente però di non essere il solo in casa a dover condividere questo "segreto". È nei diversi coming out (termine inglese per definire la scelta di rivelare a qualcuno le proprie scelte sessuali, da non confondersi con outing che invece definisce il "pettegolezzo" che gli altri fanno su qualcuno rivelandone l'omosessualità) che si concretizza il desiderio di comunicare, consci delle conseguenze delle proprie azioni, dei protagonisti del romanzo. Come Jerene, coinquilina del fidanzato di Phillip, che dopo il suo coming out ha subito l'ostracismo dei genitori o Owen che non si risolve ad affrontare la questione con la moglie Rose, non desiderando barattare la sua vita sessuale con il rapporto con la donna che ha sposato. La vicenda che dà il titolo al romanzo la incontriamo nelle pagine centrali dove Leavitt ci presenta la vicenda del "bambino gru", un bambino che, abbandonato a se stesso in una casa di fronte ad un cantiere edile, ha imparato a giocare e a comunicare con il mondo esterno imitando i suoni e i movimenti delle gru. Se la traduzione di Delfina Vezzoli è inappuntabile dal punto di vista stilistico ho qualcosa da ridire riguardo alla traduzione del gergo omosessuale. Qua e là c'è qualche ragazzo "straight" tradotti come "regolare", quando invece in italiano si direbbe "etero", degli appuntamenti al buio ("blind dates") tradotti come "appuntamenti ciechi", una bollente "dark room", intraducibile ne convengo, che diviene una gelida "stanza sul retro" e un incomprensibile "è di punta", riferito ad un possibile fidanzato che suona tanto una traduzione ad dir poco metaforica di "he is a top", ovvero "è attivo" (contrapposto a "bottom" che invece sarebbe "passivo") in riferimento al ruolo assunto a letto. Del romanzo Tondelli nel suo Un weekend postmoderno scrive "Ci sono pagine bellssime, sequenze psicologicamente emozionanti, dialoghi commoventi e una garbata (forse è proprio il garbo la cifra stilistica di David Leavitt) concezione dell'amore come bisogno e sofferenza che ci fa riflettere, assorti. Ma c'è ancora tutta quell'attrezzeria bambinesca e infantile, fatta di programmi televisivi, filastrocche, canzonette, cartoni animati, libri illustrati, orsacchiotti e carte da parati Laura Ashley, che francamente troviamo insopportabile. E petulante". Concludo con la Pivano che (sempre nella postfazione) ascrive Leavitt non tanto alla letteratura omosessuale "modaiola" (mi si passi il termine e l'ardita interpretazione della Fernanda), ma invece ai classici dell'omosessualità come Gore Vidal, James Baldwin e Tennessee Williams. matteoc
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