Letture e riletture |
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15.10.02
Recensione inviata da TulipanoGiallo
Festa mobile di Ernest Hemingway. Festa mobile si apre con uno degli incipit più poetici che io abbia mai letto: "Poi veniva la brutta stagione. Alla fine dell'autunno, in un solo giorno, cambiava il tempo." Hemingway iniziò la stesura di quest'opera, che nelle sue intenzioni doveva essere un libro di memorie, nel 1958, ma l'interruppe per seguire i toreri Ordonez e Domiguin nelle arene spagnole, viaggio che gli ispirò il romanzo Un'estate pericolosa. Il suo suicidio del 1962 gli impedì di godere della gloria del suo romanzo più riuscito, (almeno secondo me). Il libro fu pubblicato postumo nel 1964 e diffuso in Italia dalla Mondadori nella traduzione di Vincenzo Mantovani con il titolo di Festa mobile, che fa riferimento ad un'intensa frase tratta dal romanzo stesso: "Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile." (Peraltro anche nella versione originale il titolo era A moveable Feast). In realtà Festa mobile è molto più di un libro di memorie. È il racconto della vita, gli incontri, gli amori, i tradimenti della "lost generation" a Parigi, la città dove secondo Sherwood Anderson "l'arte viene presa sul serio". Hemingway vi arrivò pronto ad assorbire come una spugna visioni sensazioni e suggestioni di quella città che fin dall'inizio del secolo, generosa e cosmopolita, aveva accolto generazioni di artisti stranieri. Gertrud Stein, che arrivata a Parigi quasi venti anni prima, una volta scrisse che "gli scrittori devono avere due paesi, quello al quale appartengono e quello in cui vivono veramente, (...) di cui si ha bisogno per essere liberi", riassumendo così le diverse motivazioni che spinsero gli intellettuali americani a trasferirsi per periodi più o meno lunghi nel vecchio continente. Tutti loro in un modo o nell'altro hanno reso omaggio alla capitale francese, ma nessuno è riuscito a rendere efficacemente il fremito e l'atmosfera vitale di questa patria dell'arte e delle lettere, dove la tradizione era così salda da permettere di apparire moderni senza essere diversi e dove l'accettazione della realtà era tale da concedere a chiunque l'emozione dell'irrealtà, come Hemingway. Nelle sue pagine ritroviamo o incontriamo Parigi, con i suoi bistrò, le sue vie, la sua gente. Hem rievoca la sua vita quotidiana di scrittore giovane ingenuo e promettente, tra il 1921 e il 1926, anno in cui lascia la moglie Hadley, che ha coniato per lui il diminutivo di Tatie, per la giornalista Pauline Pfeiffer, diviso tra la ricerca di ispirazione dalla prospettiva della terrazza di un caffè o dal panorama delle sue finestre al 74 di rue Cardinal Lemoine, l'amore dolce ed appassionato con sua moglie e gli incontri nei bistrot e nei cafè con Picasso, Joyce, Ezra Pound o col grande amico Scott Fitzgerald, divorato dall'alcool e dalla gelosia che la moglie Zelda nutriva verso il suo lavoro. Il libro è quindi una testimonianza tenera e frizzante di un'epoca straordinaria, di un'atmosfera irripetibile resa da un suo protagonista indiscusso, ma è soprattutto l'addio del grande scrittore americano, che rivela la sua infinita fragilità, al riparo dalla sua abituale dimensione mitografica. In ogni capitolo Hemingway ci conduce con sé, lungo i suoi tragitti, ne seguiamo le tracce e ne condividiamo gli umori, gli entusiasmi, la vitalità e persino la malinconia del ricordo, con cui celebra affettuosamente quegli anni ormai perduti, rivissuti attraverso il filtro della nostalgia che lo coglie, scrittore grande, stanco e deluso che guarda indietro agli anni in cui "eravamo molto poveri e molto felici". Rosy
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