Letture e riletture


19.2.05
Recensione inviata da Anna
Virginia Woolf, La signora Dalloway (traduzione di Alessandra Scalero per Mondadori)
A mio avviso, c'è voluto coraggio a scrivere un libro, ambientato a Londra nel giugno del 1923, che si dipana nell'arco di una giornata all'inizio della quale Clarissa Dalloway dice che acquisterà lei stessa i fiori per il ricevimento che avrebbe dato quella sera.
Da quel momento in poi intravediamo la realtà attraverso fori di merletti, di trine; attraverso gli occhi di Rezia, un'italiana, moglie di un aspirante suicida, del signor Bentley che sta tagliando l'erba del suo prato inglese, del suo amico Peter e di tanti altri. La realtà allora assume gli stessi colori cangianti di un caleidoscopio, diventa un susseguirsi di fotogrammi. Senza transizione, si passa dal pensiero di uno al pensiero dell'altro e il tempo si dilata e accorcia, misurato dalla coscienza e dalla percezione dei singoli. Passato e presente s'intrecciano.
Lo si potrebbe leggere con una mappa di Londra in mano, e man mano che si attraversano i vari quartieri, stabilire l'appartenenza sociale dei personaggi che costellano il romanzo.
È certo che la signora Dalloway appartiene all'alta borghesia, che ai suoi ricevimenti partecipano uomini politici e che la cugina povera, Ellie Henderson, se ne sta in un angolo, da sola, per tutta la serata.
È Peter, il suo amico, a chiederle che cosa sono questi ricevimenti. Sono un'offerta, un'offerta alla vita.
Che cosa significava per lei quella cosa a cui dava il nome di vita? Oh, era difficile... Ecco Tizio che abita a South Kensington; e Caio da Bayswater; e Sempronio che abita, poniamo, in Mayfair. Ella aveva un senso perenne della loro esistenza; e sentiva che era sciupata; e che peccato si andava dicendo; se soltanto si potessero riunire. E li riuniva. E questa era un'offerta: combinare, creare. Ma un'offerta a chi?
Un'offerta per amore dell'offerta, forse...
Peter arriva dall'India, conosce molti anglo-indiani che quando sono a Londra soggiornano all'Oriental Club. In fondo nessuna parte del mondo è mai stata irraggiungibile.
Così come tutta questa storia è attraversata dal suono del Big Ben che si diffonde a cerchi concentrici, così ne è per l'attenzione, quasi celata, che Clarissa rivolge alla morte e al suicidio.
Non possiamo dimenticare che Virginia Woolf si è suicidata.
Anna



13.2.05
Recensione inviata da Sbloggata
Agota Kristof, La trilogia della città di K. (Traduzione di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana, Giovanni Bogliolo per Einaudi)
Vi sono storie e scritture che s'insinuano nella lettura con prepotenza, ne tracciano i contorni, ne definiscono le pause.
La trilogia della città di K. è uno dei libri più belli che io abbia mai letto. La scrittura è carnale, cruda, è più reale della realtà che descrive, non è visionaria, non si confonde con ciò che narra, è concreta, diretta, lontana dalla retorica, è spietata, e sostiene il ritmo scomposto della storia come raramente ho visto fare. Dalla scrittura a frammenti la narrazione sembra lentamente crescere per poi straripare in un delirio finale cui il lettore sembra essere stato preparato pagina dopo pagina.
L'intreccio dei tre racconti segna il percorso di lettura, traccia le direzioni della trama in un continuo avanzare e indietreggiare percorrendo i fili sottili di quell'unica vicenda che si scompone e ricompone nella più generale storia di una Nazione, di una città, di un paese, di una famiglia, di un bambino... di bambini.
La Seconda Guerra mondiale viene raccontata attraverso il Grande Quaderno d'infanzia di due gemelli in un imprecisato paese dell'Europa dell'est, lasciati a casa della nonna, a contatto con la fame, i bombardamenti, l'elaborazione di disumane strategie di sopravvivenza. Quaderno che rimarrà, nel proseguo della narrazione, a uno dei fratelli che nella città di K. continuerà a raccontare la sua vita, gli espedienti e le menzogne, al fratello lontano, riuscito a fuggire al di là della cortina.
Nell'ultimo racconto tutta l'abilità di Agota Kristof strariperà in quella grande menzogna finale sapientemente tessuta rimescolando la storia e le sue carte, confondendo i ricordi, le impressioni, distorcendo la memoria e fondendo i fatti reali e quelli inventati.
Ci si ritrova senza saperlo nella tragedia di un infanzia mancata, nell'assenza di una storia, nella perdita del senso.
Agota Kristof è nata nel 1935 in un piccolo villaggio dell'Ungheria, abbandonata nel 1956, in seguito alla repressione della rivoluzione ungherese da parte dell'esercito sovietico. Trasferitasi in Svizzera, dove tutt'oggi risiede, ha lavorato per cinque anni come operaia in una fabbrica, per poi scrivere e pubblicare racconti e romanzi in lingua francese.
"...la vita è un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione..."
Sbloggata



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