Letture e riletture


29.12.04
Recensione inviata da Franco Gialdinelli
Robert Ford, Il Maestro (traduzione di Guido Calza e Alessandro Peroni)
Ogni tanto mi capita di comprare libri "al buio", nel senso di acquistarne senza sapere prima alcunché, né sul libro stesso né sull'autore.
Sinceramente però l'acquisto non è mai del tutto al buio: un'occhiata al risvolto della seconda di copertina col commento alla trama, una alla biografia dell'autore, una sfogliata più o meno a caso tra le pagine per capire un po' dello stile e del ritmo, bastano di solito a farmi un'idea che, devo dire, raramente poi risulta sbagliata.
Io sono musicista per hobby e del libro che ho appena finito di leggere mi ha attratto a suo tempo la copertina, la foto in bianco e nero e controluce delle mani di un direttore d'orchestra in uno dei gesti più classici: parallele con i palmi in basso e la bacchetta tra pollice e indice della destra; titolo: Il Maestro, di Robert Ford.
Un'intestazione in piccolo sulla copertina stessa recita: "Si può rappresentare la sensualità in modi diversi e Robert Ford, nel Maestro, scrive meravigliosamente del piacere viscerale di ascoltare e fare musica".
Io di solito odio le intestazioni in copertina, mi sanno di piazzista che cerca di venderti l'aspirapolvere a tutti i costi.
In questo caso però si trattava di musica, così mi sono spinto a guardare anche il commento.
Berlino 1989, nei giorni della caduta del Muro, in una scuola di musica s'intrecciano le storie di tre personaggi: il vecchio, grande e austero direttore d'orchestra, che dopo la guerra e il campo di concentramento si è applicato anima e corpo all'insegnamento e le cui lezioni sono più che altro successivi passi d'iniziazione; il giovane direttore americano, talentuoso ma afflitto da una grave insicurezza, che viene a studiare da lui; la sensuale ed enigmatica oboista fuggita dalla DDR.
Il rapporto amore-odio fra allievo e maestro, i travagli psicologici del giovane direttore, la sua storia con la ragazza, sfuggente, passionale e misteriosa... dei bei cliché, non c'è che dire!
Sfoglio qualche pagina al centro, qualche inizio di capitolo: nulla che brilli, sembra tutto uguale, sembra che non succeda granché, stile regolare, se non piatto.
La biografia parla di uno scrittore americano al suo esordio come romanziere: ha studiato musica a Yale e scrittura ad Austin e ha all'attivo anche qualche commedia e dei racconti.
Editrice Ponte alle Grazie, 286 pagine, € 14,00. Mica poco. Boh, che faccio? Lo prendo?
Lo prendo.
E lo leggo... praticamente tutto d'un fiato!
Perché Robert Ford scrittura e musica le ha studiate proprio bene entrambe: scrive in uno stile essenziale e regolare, ma i ritmi sono regolati al millisecondo in modo tale da non darti modo di staccare l'attenzione dalle frasi se non, e a malincuore, quando ti prende la stanchezza; in più conosce profondamente ciò di cui parla, cioè la musica e, soprattutto, i musicisti. Ford è poi indubbiamente un furbone: lo sfondo della Germania nei giorni che preludono la riunificazione è di per se stesso un canovaccio grandioso, su cui tessere una trama diventa facile, ma il suo grande merito è di aver corso il rischio di mettere in scena figure e situazioni che avrebbero potuto facilmente essere degli stereotipi, facendole invece risaltare come classiche; maledettamente difficile lavorare con gli archetipi senza cadere nel luogo comune, ma lui ci prova e ci riesce alla grande.
Bisogna ammettere che essere musicisti, anche dilettanti come il sottoscritto, aiuta molto nell'affrontare questo libro, che è comunque di lettura assolutamente non difficile, ma se volete godervelo appieno provate a leggerlo come un musicista ascolta la musica o come uno chef gusta un piatto: riconoscendo e assaporando il modo con cui l'artista gestisce le componenti dell'intreccio delle note per la musica, dell'impasto degli ingredienti nel caso della cucina e della trama delle parole per la letteratura.
Di certo ne verrà un valore aggiunto per una lettura comunque assolutamente piacevole e avvincente.
Franco Gialdinelli



28.12.04
Recensione inviata da Ale Roots
Disturbo della quiete pubblica di Richard Yates (traduzione di Mirella Miotti)
Devo ringraziare la casa editrice Minimum Fax, che con la sua collana 'Classics' mi ha permesso di scoprire e apprezzare tra gli altri due fondamentali scrittori americani altrimenti praticamente introvabili in Italia: John Barth e Richard Yates.
Di quest'ultimo è Disturbo della quiete pubblica che, come il precedente Revolutionary road prova a fare luce sul lato oscuro del 'sogno americano', puntando i riflettori su un -apparentemente- normale rappresentante della middle class, il newyorkese John Wilder, sposato e con un figlio, che nonostante la sconfitta universitaria riesce a portare avanti una brillante carriera nel campo della pubblicità (il pubblicitario insoddisfatto è un po' un cliché del cinema italiano dai '90 in poi: ecco, Yates ci era già arrivato nel 1975) e che sembra destinato a una tranquilla vita di soddisfazioni professionali e gioie familiari. E invece il libro è proprio la storia dal progressivo allontamento di Wilder dalla normalità, normalità intesa sia come tranquillo menage familiare, sia come normalità e stabilità psicologica.
Qualche considerazione in ordine sparso.
Due temi trasversali alla vicenda: Wilder è praticamente un alcolizzato, ma un po' tutti i personaggi dei romanzi di Yates bevono molto -uno dei tanti spunti autobiografici che costellano il libro- l'alcool appare come un elemento necessario per la sopravvivenza, e, cosa rara in letteratura, anche gli Alcolisti Anonimi si dimostrano vani e inadeguati.
E poi il rapporto tra film e libri, tra cinema e lettura: io non sono la persona più obiettiva in questo, ma l'impressione è che Yates abbia velatamente voluto far passare il messaggio della superiorità della letteratura, dei libri, rispetto al cinema; è il cinema il pallino, il sogno di Wilder, ed è il cinema che lo porterà al collasso definitivo; e anche nella 'lotta' per la ragazza verrà sconfitto, lui che legge lentamente, e a cui questa difficoltà nella lettura ha già portato difficoltà e fallimenti, proprio da uno scrittore; anche Janice, la signora Wilder, è una forte lettrice (altra causa dei complessi, del senso di inadeguatezza di John), e alla fine lei comunque otterrà quello che cercava dalla vita: tutti aspetti che sembrano indicare nella parola scritta il cavallo vincente, e nel cinema una fonte solo di guai e illusioni.
Il romanzo è interamente scritto in terza persona, ma a venirci presentato, a parte le primissime righe, è esclusivamente il punto di vista di Wilder; questa tecnica si rivela particolarmente efficace nel rendere gli episodi di grave esaurimento cui il protagonista va incontro, il suo progressivo staccarsi dalla realtà: il lettore si trova a sua insaputa trascinato nel mondo di percezioni alterate e dissociazione di cui Wilder è vittima, e riesce a rendersene conto sempre con qualche istante di ritardo, e con un certo senso di spaesamento; queste sono sicuramente tra le pagine più riuscite del romanzo.
Parlando di pagine ben riuscite, impossibile non citare l'incipit e l'excipit del libro: tra i più fulminanti e efficaci che mi sia capitato di leggere.
Disturbo della quiete pubblica si apre con una telefonata di Wilder alla moglie; il marito chiama per dirle che quella sera non può tornare a casa, lei chiede spiegazioni, e lui dopo qualche farneticazione finalmente trova la forza per tirare fuori il groppo che ha dentro: "Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due".
Anche l'ultima scena (sto per descrivere dettagliatamente le ultime righe del libro, quindi se leggete oltre siatene consapevoli) vede protagonisti i due Wilder, oramai non più marito e moglie; lui è rinchiuso in una clinica psichiatrica della costa ovest, lei è in vacanza col nuovo marito, il miglior amico di John Wilder (questo delle coppie sposate di amici che finiscono per essere terreno di coltura per tradimenti e fallimenti matrimoniali è un altro dei temi tipici di Yates), e lo va a trovare. "John, non hai nessun progetto o... voglio dire... non hai mai pensato a quello che farai una volta uscito di qui?". Lui sembrò perplesso, come sei gli avesse proposto un indovinello. "Uscire di qui?", disse.
Scene efficaci e battute ad effetto: elementi senza dubbio molto cinematografici: d'altronde cos'è la storia di John Wilder, che insegue il sogno di un film e finisce definitivamente sconfitto, se non proprio la sceneggiatura del film stesso?
...ale...



27.12.04
Contributo inviato da Milena
La versione di Barney, Mordecai Richler
Deve essere un libro invernale... anch'io lo lessi a dicembre, due anni fa. Superò con la lode la prova treno, categoria "ammazzaore". Sai quando hai 8 ore di treno ir da affrontare (per interderci rimini - milano andata e ritorno) e il libro te le converte in un piacere che annebbia qualsiasi degli innumerevoli disagi che una creatura umana può avvertire viaggiando su un treno delle ferrovie italiane? Ecco. È il caso della Versione di Barney!
Mi (La Nonna Volante)



21.12.04
Mordecai Richler, La versione di Barney
L'ho letto nella traduzione di Matteo Codignola, uscita nel 2000 per Adelphi (l'originale è del 1997).
È un libro bellissimo, commovente, divertente. Lo è dalla prima all'ultima parola, sebbene inizi con un'espressione ostile e termini con un'imprecazione. È la storia di una vita da adulto non cresciuto, la storia di un amore incommensurabile, la storia di una storia, del fatto di raccontarla e del modo di farlo.
Il protagonista di questa autobiografia divagante è Barney Panofsky, bilioso 67enne fanatico di hockey, goloso fino all'autodistruzione, tre volte sposato, tre volte padre, tre volte innamorato ma di una sola donna ("Miriam, mia adorata Miriam"). Canadese con radici ebraiche, conduce a Montreal una vita in palese contraddizione con i sogni del milieu artistico frequentato in gioventù durante la scapigliata esperienza parigina.
La scansione temporale, per quanto dichiarata nella datazione delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo, viene continuamente disattesa dal narratore, che salta di palo in frasca e da un periodo all'altro. Le digressioni, continue, spassose, drammatiche, evidenziano la discrepanza tra desiderio e realtà, le carenze affettive e i vuoti di memoria che sovvertono il meccanismo diaristico. Tristram Shandy è esplicitamente menzionato e in certi momenti la tortuosità narrativa, peraltro sempre godibilissima, gli si avvicina davvero.
È un raccontare figlio del paradosso: tra l'autore e il lettore si frappone il protagonista che scrive riproponendosi di far chiarezza sugli eventi, ma che si autodefinisce "un contaballe". Al suo primogenito Mike è affidato il compito di revisione del manoscritto, ma nemmeno le note che corredano il testo riescono a diradare le ombre di cui si ammanta la "verità", fino all'epilogo che fornirà nuove chiavi interpretative, non solo sull'intreccio ma sui livelli di lettura.
Un paradosso epistemologico che richiama la cultura yiddish, in grado di permeare la scrittura nel lessico, nello humour e anche nel ritmo, che è quello delle associazioni d'idee, capace di circonvoluzioni amaramente comiche come di portentose accelerazioni negli scambi dialogici, molto caratterizzanti.
Il tutto visto attraverso il velo acre di chi redige le proprie memorie patendo problemi di memoria e reagisce con rabbia sorda al peso della fisicità e del fallimento personale: "Io detesto quasi tutti quelli che conosco, ma nessuno quanto il molto disonorevole Barney Panofsky."
In realtà i temi toccati sono innumerevoli quanto le allusioni e le sfumature: per questo, oltre che per il piacere, è sicuramente un libro da leggere e rileggere.
Giulio Pianese, ovvero Zu



18.12.04
Recensione inviata da E.M.
Per consolarsi dal senso d'estraniamento e di sfasamento temporale che ci ammorba durante il periodo natalizio consiglio la lettura di Babbo Natale giustiziato di Claude Levi-Strauss (traduzione di Clara Caruso per Sellerio).
Queste poche paginette (77) mi han riconciliato con l'idea del Natale perché ne illustrano i collegamenti non tanto con la tradizione cattolica, quanto con il culto pagano ben più antico e radicato delle stagioni, dove per pagano s'intendono tutti quei riti propiziatori all'alternarsi delle stagioni, comportamenti che tanto più hanno valore quanto più sono ripetuti, ritualizzati, resi riti.
L'inverno è l'inferno, il ritorno dei morti, il ritorno temuto alla morte, alla sospensione dalla vita, necessario per far germinare le sementi e consentire il ripetersi ciclico della vita. È quindi essenziale che i riti più importanti si celebrino nel periodo fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera.
Lungo un millennio, elementi molto antichi sono stati rimescolati ed elaborati con l'aggiunta di nuovi che perpetuano e rafforzano il rito: i saturnali (durante i quali si facevano doni ai bimbi, non solo quello a cui di sicuro avete già pensato), il culto degli alberi - da qui l'albero di natale e il vischio, e via discorrendo.
Ho scoperto anche perché si fanno i regali ai bimbi - e perché è bello e importante farlo.
Si scopre come davvero le ragioni apparenti che attribuiamo agli avvenimenti sono spesso molto diverse dalle cause effettive: dietro le figure mascherate delle diverse tradizioni si celano i morti, così come i regali a parenti, amici e bambini erano originariamente destinati al culto dei morti. Nella percezione arcaica della realtà i bimbi rappresentano per la società quello che le sementi costituiscono per l'agricoltura, la rinascita della vegetazione. Rivestono così il ruolo di mediatori all'interno della rappresentazione sociale della contrapposizione vita/morte.
Babbo Natale è ricondotto, attraverso una serie di collegamenti lunghi un millennio, al culto di Saturno e ai festeggiamenti dei Saturnali romani (tra il 17 e il 23 dicembre) dove gli eccessi sono un "elemento costitutivo dell'economia del sacro... spezzano la barriera fra uomo società natura e dei; aiutano la circolazione della forza".
Babbo Natale è un re, perché vestito di rosso, è anziano ed evoca l'autorità benevola degli anziani, ma è la divinità di una sola fascia d'età della popolazione: peccato che la reale differenza tra babbo natale e una divinità vera e propria è che gli adulti non credono in lui anche se spingono i più piccoli a farlo.
È, infatti, per tutti un vero rito di passaggio e iniziazione il mistero svelato della vera identità di babbo natale (come sempre, il disvelamento dei segreti consente agli adulti di accogliere nella loro comunità l'adolescente).
Così, da un paio d'anni a questa parte al comparire delle prime luminarie in città, rileggo velocemente questo librettino, per aiutarmi a sfrondare il "periodo natalizio" dal suo fastidioso aspetto consumistico, e a concentrarmi su quello godereccio!
firma [Love is a Virus]



15.12.04
Recensione inviata da Franco Gialdinelli
Ho appena terminato di leggere un testo sulla storia della scienza di uno dei più famosi divulgatori scientifici, John Gribbin: L'avventura della scienza moderna (traduzione di T.Cannillo per Longanesi, 620 pagg., € 26,00).
Gran parte della prima metà del libro è costituita dalle biografie degli scienziati, intrecciate con la storia delle loro scoperte, ma da lì in poi l'autore stesso dichiara di essere costretto a trattare più sommariamente le biografie per occuparsi maggiormente delle scoperte; questo perché a un certo punto della storia della scienza "... danza e danzatori finiscono per confondersi". In effetti, quando si lavora in maggior numero su una cosa, la paternità delle scoperte si diluisce fra più persone, conseguenza questa del fatto che, mentre fino a un certo periodo storico (facciamo massimo fino a Darwin, tutta la prima metà dell'ottocento) solo i benestanti potevano permettersi il lusso di un'istruzione tale da consentire loro di fare scienza (anche un'istruzione scolare era già moltissimo), in seguito, con il progredire della scolarizzazione - e della comunicazione - di massa, anche persone non ricche potevano studiare abbastanza bene da riuscire a fare scoperte scientifiche importanti: già Alfred Wallace, che per pochissimo non bruciò a Darwin la teoria dell'evoluzione per selezione naturale, era assolutamente un proletario. Questo ha in seguito comportato che un oscuro impiegato dell'ufficio brevetti svizzero, cui una tesi di dottorato per l'ammissione a una prestigiosa scuola era stata respinta poco tempo prima, arrivasse poi a dover chiedere pubblicamente perdono a Newton per aver, con solide argomentazioni matematiche e fisiche, demolito in un soffio il concetto di assolutezza dello spazio e del tempo proclamato più di due secoli prima dal grande scienziato inglese e che era ancora allora, inizio '900, uno dei pilastri delle fisica moderna.
Questa cosa per me è grande e importante, perché dimostra che, magari molto lentamente, nel corso dei secoli la cultura e il sapere si sono allargati a una fascia sempre maggiore di persone, e siccome ritengo che la via per l'emancipazione della gente di tutto il mondo dalla povertà e dalla guerra passi obbligatoriamente per la presa di coscienza che solo la cultura può dare, vuol dire che il mondo di oggi è comunque migliore di quello passato e che ci sono grandi spazi per migliorare. Magari ci serviranno tempi lunghi, ma quelli attuali non mi sembrano davvero peggiori di quelli andati.
Il libro è comunque bellissimo e godibilissimo.
Franco G.



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