Letture e riletture


29.10.04
Recensione inviata da Piperita
Luigi Trucillo, Le amorose
Quando si leggono le poesie di Trucillo sembra di ricordarsi finalmente di qualcosa di sepolto molto a fondo. Si aspettava senza saperlo che delle parole ci riportassero a un'altra vita trascurata. E subito ci si sente giustificati nell'assecondare la propria sensibilità più sottile. Tanto basta per un libro di poesia, non vi pare?
Dalla postfazione di Nadia Fusini:
"C'è una felice ambiguità della poesia che consiglia una posizione guardinga rispetto a ogni interpretazione. A ogni atto, cioè, di appropriazione. La poesia educa piuttosto allo spossessamento, coltiva in noi il sentimento dell'espropriazione. Così, di fronte a Le amorose, che ho appena letto, io non so se le amorose sono le poesie, o le morose a cui le poesie sono rivolte. Donne che a volte hanno dei nomi proprii: Fulvia, Marcella, Annalisa. Altre volte anonime. Come le poesie stesse che non hanno titolo. Non sempre. So però che l'amore è un colloquio. E la poesia anche".
Piperita



21.10.04
Recensione inviata da Ale Roots
Philip K.Dick, Follia per sette clan
Traduzione di Vittorio Curtoni e Gianni Montanari (titolo originale: Clans of the Alphane moon)

Mi capita spesso che, parlando di libri, appena pronuncio la parola fantascienza, l'interlocutore storca il naso, inorridendo anche solo all'idea di leggere -nella sua visione delle cose- di alieni vermiformi, combattimenti tra astronavi o cose simili.
Ed è un vero peccato perché, liberandosi dai pregiudizi, all'interno della produzione fantascientifica si possono scoprire veri e propri gioielli nascosti.
È questo il caso di Follia per sette clan, opera considerata tra le minori di Philip K. Dick, capitatami fra le mani nella forma di un Urania del 1998, precisamente l'Urania numero 1344 nella traduzione di Vittorio Curtoni e Gianni Montanari; purtroppo qualche ricerca mi ha confermato il sospetto che questa fosse l'unica edizione mai apparsa in Italia, con la conseguente difficile reperibilità tipica di ogni Urania.
La trama in sé è decisamente complessa, inutile che tenti di riassumerla qua; più interessante può essere dare un'idea dello scenario in cui è ambientato il tutto: la Terra è decisamente Dick-style, con molti lati oscuri e la presenza "naturale" di psi (individui con spiccate e specifiche abilità mentali/soprannaturali), ma il fulcro del romanzo è su Alfa II, una luna di un altro sistema solare, su cui i terrestri avevano stabilito un ospedale psichiatrico (forse "manicomio" sarebbe una definizione più azzeccata), ma che circa 25 anni addietro si erano trovati costretti ad abbandonare a causa di una guerra interplanetaria.
I ricoverati dell'ospedale si ritrovano quindi liberi di evolvere e di cosituire una nuova civiltà, e contro ogni aspettativa, riescono a organizzarsi in una società sufficientemente stabile: gli abitanti della luna si dividono spontaneamente in sette diversi clan, ognuno dei quali si stabilisce in una diversa città che rispecchia la patologia dei suoi abitanti; così gli ebefrenici (che si autodefiniscono eb) vivono in una fatiscentissima bidonville chiamata Gandhiville e i maniaci (mani) fondano un insediamento ultra-militarizzato, l'Altura Da Vinci.
La psicologia dell'uomo, e le sue -cosiddette- malattie e deviazioni, è questo il filo che percorre il libro dalla prima all'ultima pagina, nell'intento di porre qualche domanda e provare a suggerire non risposte, ma perlomeno qualche riflessione.
Che immagine sempre affascinante, la mente umana, così profonda e complessa, che si rivolge verso sé stessa, e tenta di esplicare il suo stesso mistero.
- Sono pazzo? - chiese a Lord Running Clam. [...]
- "Pazzo" - rispose la creatura bavosa - è, strettamente parlando, un termine legale.


- Ero abituata a pensare di essere così... Mi capisci. Così completamente diversa dai miei pazienti. Loro erano malati, e io no. Adesso... - Divenne silenziosa.
(nota: è una psicologa che parla, rivolta al marito)
- Non c'è poi quella gran differenza - finì lui per lei.
- Tu non te lo senti dentro, no? Di essere sostanzialmente differente da me... Dopotutto i test dicono che tu sei sano di mente, e io no.
- È solo questione di gradi - disse lui, ed era proprio quello che intendeva.
Ma l'importanza dei temi trattati non tragga in inganno: Follia per sette clan è una lettura appassionante, veloce e avvincente, e chiusa l'ultima pagina vi ritroverete con la mente in movimento, e soddisfatti dello sforzo fatto per prendere in mano per una volta un romanzo di -brr- fantascienza.
...ale...



20.10.04
Recensione inviata da Simona Tavella
Il codice Da Vinci, Dan Brown

"...Era peggio che immorale, era scritto male." (Oscar Wilde)

Più vado avanti, più mi accorgo della profonda saggezza di quelle che con arroganza giovanile chiamavo sprezzante "frasi fatte". Per esempio: è inutile lottare contro il destino. Verissimo ahimè... da brava snob, ho sempre diffidato degli eventi editoriali, dei capolavori annunciati come tali ancor prima dell'arrivo in libreria, dei milioni di copie vendute in tutto il mondo e così, per mesi, non ho fatto che scappare, cambiavo strada al solo vedere in lontananza un sorriso, Quel Sorriso, ho cambiato canale rabbiosamente al solo sentire pronunciare un Nome, ho spesso scosso il capo ascoltando resoconti di notti in bianco in febbrile attesa del disvelarsi di segreti arcani. Fin quando, una settimana fa in libreria, me lo sono trovato davanti all'improvviso e ho capito che era arrivato il capolinea: disfatta, ho ceduto e ho comprato Il codice Da Vinci.
Cosa dire a mia discolpa? Cercavo un libro divertente, senza pretese, da leggere senza impegnare troppo i miei poveri neuroni; basta fare la schizzinosa per partito preso! Oltretutto la storia delle religioni mi ha sempre interessato, e sull'argomento ho letto di tutto, dai cosiddetti testi fondamentali alle saghe fantasy di Marion Zimmer Bradley. E allora? Allora il guaio è che Il codice Da Vinci non è un libro, ma una scommessa persa, una buona occasione mancata, perché l'argomento è interessante e avrebbe meritato una scrittura più curata, uno stile più omogeneo. Dan Brown, invece, ha buttato giù un patchwork di citazioni, di ripetizioni, di ovvietà, fatte passare per arcani svelati, di topos letterari che apparirebbero desueti anche alla buonanima di Salgari.
Ma procediamo con ordine: la storia si finge in Francia ai nostri giorni; il libro comincia con un feroce e inspiegabile assassinio nei corridoi notturni e deserti del Louvre (vi ricorda Belfagor? Anche a me, appunto...). Combinazione, a Parigi è appena arrivato, su cortese invito della vittima, un famosissimo studioso del simbolismo nella storia delle religioni, bello e affascinante, che si mette nei guai più assurdi alla velocità del fulmine (Indiana Jones? Già...) e siccome l'uomo assassinato, oltre a essere un'eminenza nel campo della storia dell'arte è un eccellente enigmista, prima di morire riesce a disseminare sulla scena del delitto una serie di indizi riconoscibili e interpretabili nelle intenzioni del defunto solo da sua nipote, eminente crittologa - ovviamente giovane, bella, spavalda e sicura di sé fino all'altrui esasperazione. La fanciulla e il clone di Harrison Ford si avventurano impavidi sul terreno minato della ricerca del Graal e, come da tradizione hollywoodiana consolidata, una serie di Cattivi Soggetti cercherà invano di fermarli. Ma tra scontri a fuoco, indovinelli a doppio senso e rebus disseminati in giro tra Francia e Inghilterra, il Graal si troverà dove meno ce lo aspettiamo, non senza avere fatto sudare ai nostri eroi le famose sette camicie.
In realtà, per interpretare gli indizi e procedere nella caccia al tesoro che Dan Brown ci propone, basta essere affezionati lettori della Settimana Enigmistica e/o di Astra, ma l'autore continua con indovinelli, rebus, anagrammi, simboli da interpretare, prove di logica dinnanzi alle quali sia la nipote sia Robert Langdon, professore di Simbologia Religiosa, rimangono esterrefatti e basiti come due imbecilli (ma come, la più promettente crittologa di Francia non riesce a riconoscere un manoscritto vergato da destra a sinistra se non dopo cinque pagine di ipotesi a vuoto?! E il miglior esperto di simboli d'America non sa che la stella di Davide è formata dall'intersecarsi di due triangoli che rappresentano il cielo e la terra?!? Per favore...); ma questo sarebbe il minore dei mali: il vero guaio a mio avviso è che la narrazione che in un thriller dovrebbe essere snella, asciutta, scorrevole, è frammentata e inframmezzata da spiegazioni appiccicate senza vera necessità e che all'apparenza non hanno altro scopo che quello di dimostrare al colto e inclito pubblico che Dan Brown si è documentato a lungo prima di mettere mano al libro.
Ora, i romanzi di fantasy sono spesso buffi, incongrui, a volte hanno trame ripetitive - parlo delle opere di M.Z. Bradley in particolare - ma mi hanno sempre divertito, riescono infatti partendo da leggende conosciute a creare situazioni godibili, senza per questo pretendere di insegnare o di stupire a tutti i costi chi legge. Il codice Da Vinci è pretenzioso, supponente, ma non aggiunge e non toglie niente a quanto è già noto ai più; la misoginia della chiesa cattolica non è un mistero, credo, per nessuno: non occorre essere studiosi di storia delle religioni per averne sentito parlare, così come basta avere seguito un po' di cronaca degli ultimi dieci anni per avere sentito parlare - male - a torto o a ragione dell'Opus Dei.
Peccato, ripeto, lo spunto era buono, sono incavolata come di fronte a un'orata freschissima cotta malamente da un cuoco frettoloso. Adesso poi, pare che dal libro si farà un film: che Monna Lisa abbia pietà di noi.
Simona



10.10.04
Recensione inviata da Ale Roots
Infinite Jest, di David Foster Wallace
Ok, ho finito di leggere Infinite Jest. Quando esce Infinite Jest II?
Sinceramente neanch'io -fino a qualche centinaio di pagine prima- avrei potuto prevedere un commento "a caldo" di questo tipo, e invece a quanto pare a David Foster Wallace la magia è proprio riuscita, senza bisogno di colpi di scena alla Codice da Vinci, né di finali a sorpresa stile Dieci piccoli indiani.
Parlare di questo libro con chi non l'ha letto è una difficile impresa: inutile provare a riassumerne la trama o i temi, o a descrivere qua le caratteristiche dell'"esecuzione letteraria". Quello che viene chiesto è quasi un atto di fede: IJ richiede tempo e dedizione, ma sa ripagare con grandi soddisfazioni intellettuali.
Qualche mezz'ora dopo aver terminato la lettura, sono salito su un treno, e lì ho avuto modo di ripensare al libro, e al perchè mi avesse colpito così tanto. Ne sono usciti una serie di elementi e annotazioni, che ho scritto sulla prima cosa che mi sia capitata sottomano, le pagine bianche in fondo al Giovane Holden, che mi accompagnava pronto per essere letto. E, rivedendola ora, questa associazione ha davvero un suo perché: in fondo entrambi possono essere ricondotti al "genere" del romanzo di formazione, ed entrambi esprimono il senso di insoddisfazione e inadeguatezza di protagonisti, che in un modo o nell'altro mal si adattano alla società in cui sono immersi.
Provo a riprendere qua quelle considerazioni, espandendole solo quel tanto che basta a renderle comprensibili ad altri oltre che a me; sono pensieri slegati e senza un filo organico a tenerli insieme, tenetene conto mentre leggete.

"Lui in Persona", anche detto "La cicogna matta", o "La cicogna triste", Incandenza senior, padre di Hal e sposo della Mami, è una delle figure più costantemente presenti nel corso del libro, benché non possa prendere parte attivamente alle vicende narrate, visto che si è macabramente suicidato (facendosi esplodere la testa nel forno a microonde, sic) ben prima dell'"Anno Del Pannolone Per Adulti Depend" in cui sono situate quasi la totalità delle vicende narrate (se la memoria non mi sta giocando brutti scherzi, l'unica eccezione è proprio la prima "scena", quella del tentativo di ammissione al college di un irriconoscibile Hal). Presente nei ricordi dei figli, e presente attraverso i suoi lavori, i suoi film. Egli, o meglio, lui, era infatti un regista cinematografico, un artista geniale ed eccentrico. E, come si intuisce man mano che si procede nella lettura, è proprio l'ultima delle sue opere, Infinite Jest, l'elemento chiave che tiene unite le decine di trame che si intrecciano.
In diversi punti si descrivono e analizzano le sue produzioni, le sue sperimentazioni, così all'avanguardia da essere aprés-guarde, in un susseguirsi continuo di stoccate satiriche ora alle cricche degli artisti contemporanei, ora all'apparato della critica. Si intravede un parallelo fra le strutture dei film di Incandenza e la struttura del libro stesso: a un certo punto il dicorso si concentra sui figuranti, sulle comparse che a centinaia compaiono anonimi in ogni film: differenziandosi da tutti gli altri, nei suoi film i figuranti hanno il dono della parola, non sono solo mute presenza scenografiche, a costo di inficiare con questa scelta la comprensibilità di ciò che dicono o fanno i personaggi principali. E allo stesso modo è nel libro, dove sono decine le figure, le vite, le storie che si alternano, e l'attenzione, lo spazio che viene dato a ciascuna di queste non è in nessun modo proporzionale all'importanza del ruolo che tale figura va a ricoprire nel mosaico generale.
Accennavo ai personaggi del libro: è innegabile che la gran parte, direi tutti, sono personaggi "anomali", non ci sono uomini comuni o persone normali; le storie che si portano dietro sono strane, forti, vicino -se non oltre- ai limiti dell'irrealtà. Eppure DFW riesce a fare in modo che tali "assurdità" risultino incidentali, e, anche se i presupposti potrebbero esserci, si ha la minima impressione di star leggendo un romanzo "fantastico", o di fantascienza, anche se le caratteristiche sono quelle di un'ucronia in piena regola.
Personaggi "estremi", e che lo stesso riescono a portare all'identificazione: non in quello che sono o in quello che fanno, ma nel nucleo del loro malessere, in quella "inadeguatezza" rispetto alla società che li affligge e segna le loro vite; società (americana, occidentale) che viene sottoposta a una critica spietata e su più fronti, ma mai direttamente, sempre e solo attraverso gli effetti (nefasti) che ha sulle persone. E per fare questo le vite dei personaggi sono descritte minuziosamente, a un livello di dettaglio quasi maniacale, spesso una quasi-cronaca minuto per minuto delle loro azioni, dei loro spostamenti, senza però mai esprimere neanche il minimo giudizio di merito: nelle pagine i fatti, le interpretazioni sono tutte a carico del lettore.
"Wallace fa parte, insieme a Dave Eggers e alcuni altri, dei nuovi americani post-post-moderni, perfino post-bee (Bret Easton Ellis). Funambolici, teneri e crudeli (sì sì), fluviali, sfottenti, ipercolti, hanno la pretesa di raccogliere tutta l'eredità e di raccontarci ancora la vita (tutta) e l'America. Ci riescono anche." (hal)
Così qualcuno che se ne intende davvero mi descriveva questa recentissima corrente letteraria, di cui Infinite Jest rappresenta forse l'esempio massimo e più significativo.

Una corrente che utilizza strumenti letterari nuovi e narcisisti, potenti ma difficili da gestire, tali che se non supportati da abbondanti dosi di talento si rivelano pericolose armi a doppio taglio, in grado di scoraggiare anche il lettore più bendisposto.
Una delle techiche, dei virtuosismi (per dirla nel loro gergo, dei "guarda-mamma-senza-manismi", più utlizzati è il ricorso all'autoreferenzialismo esplicito, il libro che narra di sé stesso, in una meta-letteratura difficile da domare senza rischiare l'autostrangolamento. Eggers nel suo illuminante Opera struggente di un formidabile genio ne fa ampio uso, e Wallace stesso sovente ci gioca volentieri (un esempio su tutti, in Verso Occidente l'impero dirige il suo corso), ma non in IJ.
O meglio, non è assolutamente presente l'autoreferenzialismo "classico", in cui esplicitamente l'autore scrive della propria opera, ma l'intero volume è percorso da un'autocitazione più sottile: nel romanzo Infinite Jest è il video "segreto", dotato di un appeal letale, vero protagonista del libro, libro che idealmente potrebbe arrivare a calamitare il lettore coinvolto, chiudendolo in una gabbia invisibile nella quale nulla sembra più interessante a confronto della lettura di Infinite Jest. E l'anello si chiude.
Parlavo prima di strumenti letterari potenti ma rischiosi, ed è davvero innegabile che di rischi l'autore se ne sia presi davvero a profusione: un romanzo di 1300 pagine, decine di personaggi dalle vite strane e difficili da comprendere, altrettante sotto-trame che si intrecciano, un linguaggio spesso tecnico, amplissimi approfondimenti "fuori tema", digressioni, flashback, elenchi. Parrebbe non proprio il libro da leggere 'al volo' per tre fermate di metropolitana, e probabilmente è così, ma vederne solo l'unicum ultra-complesso, significherebbe perdersene un aspetto fondamentale.
L'intero romanzo è un susseguirsi di scene "indipendenti", composte da protagonisti e situazioni differenti: tutte in qualche modo collegate, ma apprezzabili pienamente anche come entità a sé stanti, mini racconti, bozzetti incredibili e geniali (e non riesco a non citare quella che a mio parere è un'invenzione assolutamente formidabile: il wargame dell'Eschaton, e la cronaca della partita che lo porterà alle estreme conseguenze -nell'edizione italiana Fandango da pagina 429 a pagina 457- se devo definirmi 'stupefatto' una sola volta nella vita, ecco è davanti a quelle pagine).
A questo punto di questa pseudo-recensione, totalmente slegata e lacunosa, dovrebbe esserci un pensiero conclusivo, una sintesi della mia opinione su questa opera geniale; ma mi dico, se neanche Wallace stesso ha avuto il coraggio di creare un "finale" per il suo libro, come posso sperare di riuscirci io?
...ale...



6.10.04
Recensione inviata da Barbara Delfino
Henry D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi (traduzione di Piero Sanavio per BUR)
L'incontro con lo scrittore americano Henry D. Thoreau è stato casuale; errare in sua compagnia sulle sponde del lago Walden, molto piacevole. Ho letto Walden ovvero vita nei boschi su commissione di N.; a fine lavoro ci siamo scambiate un grazie, lei per averle letto e relazionato il libro delle vacanze, io per avermi fatto conoscere una personalità di cui ignoravo totalmente l'esistenza.
Walden può essere considerato un vero e proprio esperimento: trascorrere due anni (1845-1847) sulle sponde di un lago immerso nella Natura (quella con la N maiuscola) per mostrare ai contemporanei quanto bastasse poco per vivere. In questo periodo l'autore/protagonista trasforma concetti astratti in regole pratiche, traducendo quando necessario un'idea astratta in politica. L'opera stessa è idealmente divisa in due parti: la prima teorica con conclusioni esemplari tra le quali la mia preferita suona così: "io, nella mia maniera di vivere, avevo per lo meno il vantaggio che la mia vita stessa era divenuta il mio divertimento e che non cessava mai d'essere nuova. Era un dramma in molte scene e senza fine. Se, infatti, ci guadagnassimo sempre da vivere regolando la nostra vita secondo l'ultima e migliore esperienza, non ci si annoierebbe mai".
La seconda parte vede invece l'applicazione dei concetti teorici, espressi precedentemente, alla vita quotidiana. Il tutto si concretizza nel rifiuto per il lavoro sistematico in favore del vagabondaggio e nello studio dell'uomo della natura praticando una sporadica attività di agricoltore, in quasi completa solitudine.
Le critiche dei contemporanei sono state talvolta contraddittorie, ma l'importanza dell'opera fu subito riconosciuta, portando il console di Liverpool dell'epoca a definire il suo modo di vita "critico di ogni altro modo di vita approvato".
Barbara Delfino



3.10.04
Recensione inviata da Davide L. Malesi
In quella ch'è la bibliografia di Philip Roth, Operazione Shylock è - sventuratamente - un libro di cui si parla poco. Si parla molto de La macchia umana (per via del film con Anthony Hopkins, e Nicole Kidman, com'è logico); si parla sovente del Lamento di Portnoy (il libro della carriera, se così si può dire di uno scrittore come Roth, che di libri belli e importanti ne ha scritti diversi). Io naturalmente conosco bene Operazione Shylock. Sui margini delle pagine di questo romanzo (di cui posseggo la traduzione di Vincenzo Mantovani nell'edizione dei Tascabili Einaudi: con un bel dipinto di Emilio Tadini, Oltremare, in copertina), ho scritto fiumi di appunti: scene che mi sembrano particolarmente convincenti, dialoghi che m'intrigano alquanto, descrizioni che mi sono parse assai efficaci, e così via. Basti questo a dire che in Operazione Shylock ci sono tutte queste cose: scene ben fatte e ben scritte, eccellenti dialoghi (alcuni dei quali assai lunghi, ma non per questo meno interessanti, comunque mai noiosi) e notevolissimi brani di descrizione, tra cui un tour extraordinaire nei cosiddetti "Territori Occupati", vale a dire quelle zone della Palestina che si trovano sotto il presidio dell'IDF (Israeli Defence Force, cioè l'esercito israeliano). Ma non è questo il punto, oserei dire.
Il punto è che Operazione Shylock è un libro importante, per diverse ragioni. La prima, e la più ovvia, è che si tratta di un romanzo incentrato su un dilemma: e di romanzi così ce ne sono in giro, purtroppo, sempre meno. Non voglio dire che siano spariti, o che manchino i dilemmi da cui prendere spunto: voglio dire che, per qualche ragione, molti scrittori oggi preferiscono dare risposte a quelle che sono le più banali domande suggerite dal senso comune, piuttosto che porre domande difficili, a costo di non saper trovare una risposta (incentrare un libro su un dilemma, in pratica, vuol dir questo). Bene, è un momento in cui la tendenza è questa, ed è (a mio avviso) una tendenza innegabile. Ci sono già stati, nella storia della letteratura occidentale, momenti siffatti: quello che stiamo attraversando è, dunque, l'ennesimo. Eppure, Operazione Shylock osa andare in controtendenza, e affrontare (anzi, "incentrarsi su", cioè avere nel suo fulcro narrativo) un dilemma, cioè una domanda che non trova risposte: cos'è l'Identità? E poi, esiste una cosa chiamata Identità?
Operazione Shylock è (almeno all'inizio) la storia di un celebre scrittore ebreo, di nome Philip Roth, residente negli Stati Uniti, che un bel giorno si trova ad affrontare una circostanza ben strana: un altro Philip Roth, in tutto e per tutto simile a lui, si trova a Gerusalemme: di lì, si spaccia per lo scrittore Philip Roth e si serve della popolarità, nonché della credibilità, di questo scrittore per proclamare una bizzarra tesi politica, da cui - vien detto - potrebbe dipendere il destino della razza e della civiltà ebraiche (non vi dico in cosa consiste la tesi, perché è così folle e insieme intrigante che mi parrebbe un delitto quello di non lasciarvelo scoprire da voi). Ora, non v'è dubbio che al giorno d'oggi gli ebrei siano in pericolo costante (almeno quelli che vivono in Israele, minacciati dal terrorismo che non è, nel loro caso, uno spettro: ma una realtà quotidiana). E questa è la ragione per cui il "falso" Philip Roth sfrutta l'identità di un famoso scrittore, che è un fenomeno mediatico, che può parlare ai giornali e alle televisioni: per cercar di salvare, a suo modo, gli ebrei d'Israele.
Ovvia deduzione del Philip Roth autentico: il "sosia" è un impostore che parla usando il suo nome, perciò deve recarsi laggiù e smascherarlo. Messa così, sembra facile: ma poi, quando il "vero" Philip Roth incontra il Philip Roth "fasullo", le cose si complicano e il Philip Roth "vero" si domanda: "Chi è mai, costui? Perché sfrutta il mio nome, la mia fama di scrittore, per uno scopo politico? E soprattutto, non rappresenta costui forse un'alternativa a me stesso?" Vale a dire: il Roth "falso", d'accordo, è un impostore; ma se il Roth "vero" avesse voluto, avrebbe potuto forse intraprendere la strada di quello "falso", per propagandare quella certa tesi politica, anzi dedicarvi l'esistenza. E, si chiede il Roth "vero", se fosse il sosia ad aver ragione? Vale a dire, se il futuro della razza e della civiltà ebraiche potessero essere salvati solo nella maniera proposta dal falso Philip Roth? Quale dei due Philip Roth sarebbe più "vero"? Quello che si gode gli agi e le soddisfazioni di un'esistenza da scrittore di successo, o quello che rischia tutto - anche se è un "tutto" che non gli appartiene - per cercare di salvare gli ebrei, e l'ebraismo, e tutto ciò che esso rappresenta? Vale a dire: è vero ciò che è vero, o è più vero ciò che è giusto?
Ce ne sarebbe abbastanza, anche così, per leggere il romanzo. Ma c'è di più. Il Philip Roth "vero", preso da questo dilemma, esplora - come in una sua privata discesa all'inferno - i volti, non sempre gradevoli, di ciò che significa "essere ebreo". Perché, ancor prima di stabilire se la tesi del falso Philip Roth può salvare gli ebrei, bisogna capire se gli ebrei meritano di essere salvati. Ed è un discorso che si potrebbe fare per qualsiasi cultura, e che anche a noi esponenti della presunta cultura cristiano-occidentale (che tanto appassiona Oriana Fallaci), farebbe bene: prima di organizzarci per ammazzare quanti arabi dobbiamo ammazzare per "salvarci", non dovremmo forsi capire se meritiamo di "salvarci" a loro spese? (Posto che il concetto di "salvezza", in questo caso, sia quello giusto). È quello che fa il "vero" Philip Roth - insieme, narratore e protagonista - in questo libro, interrogando i personaggi che man mano incontra sulla sua strada e venendone interrogato a sua volta: personaggi che sono, ciascuno, un interlocutore di una precisa "realtà": c'è l'israeliano pacifista e antisionista, il sionista convinto e oltranzista, l'arabo affascinato dalla cultura ebraica cresciuto negli Stati Uniti, una donna - un tempo antisemita - che, innamoratasi del "falso" Philip Roth, ha fatto sua la causa della "salvezza" degli ebrei, e così via. E qui Philip Roth scopre, di volta in volta, che ognuno dei personaggi che incontra è prigioniero di una sua verità, di una sua visione del mondo, e incapace di metterla in discussione: per lui, esiste solo ciò che crede - o meglio, ciò che vede. Le "altre versioni" della realtà vengono, inevitabilmente, scartate, evitate, negate, respinte: il sionista non può credere alla verità dell'arabo, e a quella di nessun altro, non tanto perché "lui è un sionista", ma perché ognuno di noi costruisce la propria identità attorno a una visione del mondo: e negare quella visione del mondo, significa negare anche quell'identità. Di nuovo il dilemma dell'Identità, appunto.
Un romanzo inquieto, dunque, quello di Philip Roth. E per questo, a mio avviso, un romanzo avvincente e intrigante. Io li amo, i romanzi incentrati su un dilemma. Perché, vedete, se uno vuol scrivere per enunciare verità e proclamare la sua fede (politica, religiosa, quello che è), a mio avviso, farebbe meglio a non scrivere romanzi. Scriva trattati filosofici, pamphlet, discorsi. Il romanzo è, di per sé, una materia inquieta: che merita tutta l'incertezza che un narratore è capace d'infondervi. Almeno, in base alla mia modesta opinione.
Davide L. Malesi (licenziamento del poeta)



1.10.04
Interrogativo posto da Sebastiano
Ti chiedo se ti è capitato di leggere qualcosa dello scrittore americano Richard Bach. Ho letto con fatica le prime 95 pagine del suo Illusioni - Le avventure di un Messia riluttante edito da BUR (nella traduzione di Bruno Oddera); è talmente stupido che l'ho gettato con gioia nel cestino della carta straccia. L'editore lo presenta come "Il nuovo libro dell'autore del Gabbiano Jonathan Livingston".
Sebastiano35

Per principio non getterei mai via un libro, piuttosto lo regalerei alla biblioteca rionale. Però non ho mai letto Richard Bach. Qualcuno sa rispondere?
Zu



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