Letture e riletture


30.10.02
Recensione inviata da TulipanoGiallo
Neve, di Maxence Fermine (traduzione in italiano di Sergio Claudio Perroni)
"La neve è una poesia.Una poesia che cade dalle nuvole in fiocchi bianchi e leggeri. Questa poesia arriva dalle labbra del cielo, dalla mano di Dio. Ha un nome. Un nome di un candore smagliante. Neve."
Ci sono libri che ti entrano dentro, perché parlano con le tue parole, e magari non sapevi di aver bisogno di ascoltarle finché non le hai lette in quei libri. Mi è successo un paio di volte nel corso della mia vita di lettrice, e di libri ne ho letti molti. Mi è successo ieri leggendo Neve, di Maxence Fermine. O meglio respirando l'atmosfera soffice e nivea di questo breve romanzo d'esordio di un giovane scrittore francese, che ha solo 30 anni eppure sembra possedere la saggezza del mondo, e sa dispensarla in modo sublime. Il libro ha una copertina bianca vergata di nero, e fa parte di una trilogia che comprende altri due libri ispirati al colore e alla sua assenza: Il violino nero e L'apicultore, rispettivamente nero e color oro.
Neve, è un libello di 106 pagine che come 106 fiocchi di neve, si adagiano leggere sul cuore del lettore e lo ricoprono di incanto e poesia. Ed in effetti il romanzo parla di poesia, e dell'amore, e della bellezza e della vita. C'è un giovane ragazzo di 17 anni che vive in Giappone alla fine del 19° secolo e sceglie di fare il poeta per "imparare a guardare il tempo che scorre". Ci sono gli haiku con la breve intensità dei loro versi. C'è un vecchio poeta e pittore, che un tempo era samurai, che ha trascorso la sua vita a sublimare con l'arte il ricordo di un amore perduto. C'è una donna bellissima sepolta nel ghiaccio. C'è una fune tesa e sospesa nell'aria, tra le vette dei monti e tra la vita e la morte. E c'è la neve, naturalmente. Candida e morbida, che leggera ammanta di bianco ogni cosa e svela il segreto di un'esistenza felice: l'amore. Che è amore sensuale. Che è amore per l'arte. E che è amore per la vita stessa. La storia si libra impalpabile e priva quasi di consistenza, senza che ciò la renda superflua o vana, tra l'ossessione del bianco e la magia del numero sette, secondo un ritmo che sembra un inno alla lentezza. Fermine con uno stile veloce e luminoso, traccia un percorso che si snoda alla ricerca del senso della vita, e parla di una vita di artisti che si scontrano con l'idea mistica del segreto della creazione artistica, che affrontano il problema del rapporto tra arte e vita, e colgono l'intreccio tra amore, morte ed arte e alla fine di questo viaggio, l'autore suggerisce che l'arte non può sostituirsi alla vita perché "l'amore è l'arte più difficile. E scrivere, danzare, comporre, dipingere, sono la stessa cosa che amare. Funambolismi. La cosa più difficile è avanzare senza cadere".
E alla fine l'amore trionfa nel candore smagliante di un inverno giapponese, in cui al bianco si mischia il colore e i protagonisti finalmente "si amarono l'un l'altro sospesi su un filo di neve".
Rosy




Sempre a proposito di libri nei libri, mi viene da rispolverare il ricordo di una felice scoperta pescata dagli scaffali della mai troppo benedetta biblioteca rionale:
Silvio Mignano, Una lezione sull'amore, 1999
Si tratta di un giallo letterario che vede l'investigatore scartabellare tra libri e manoscritti nel tentativo di risolvere il caso affidatogli. Un libro molto ben scritto, colto ma non pesante. Fedele al genere di cui accoglie con ironia alcuni stereotipi, li frantuma però nel raffinato doppio strato narrativo: il protagonista si trova a vivere una storia d'amore impossibile ma vivificante, rispecchiando modelli letterari esterni e interni al romanzo stesso.
Giulio Pianese, ovvero Zu



25.10.02
Segnalazione inviata da TulipanoGiallo
A proposito della "rubrica" libri nei libri, cito La pietra di luna di Wilkie W. Collins, il primo romanzo poliziesco moderno, in cui la voce narrante, il maggiordomo, mentre si inoltra nei dettagli del giallo fa continuo riferimento al Robinson Crusoe di Defoe, che considera come una guida spirituale in cui trovare ogni soluzione e consolazione ai problemi che l'assillano.
Rosy




22.10.02
Recensione inviata da PProserpina
Senza sangue di Alessandro Baricco
Sono rimasta per almeno 30 secondi immobile a fissare la pagina bianca. L'ultima pagina, quella con cui termina ogni libro. È finito, mi son detta, e non capivo cosa significasse in realtà la parola finito. Così? Impossibile. Non è finito e forse non è mai iniziato.
La storia della guerra e della vendetta, di una bambina assorta nel suo mondo ovattato, rimasto tale grazie a chi l'aveva salvata ignorandola. Il libro ha una postura fisica, una posizione "magica", fetale e perfettamente allineata, un po' in bilico ma indiscutibilmente affascinante. Una donna dai capelli bianchi in cui non si rispecchia subito l'ombra del sangue versato, dal padre e del padre. Di quel fratello bambino con un fucile in mano.
È finito e son passati secondi ed ancora interminabili secondi, prima che io avessi il coraggio di chiudere il libro. La testa ancora immersa in quelle parole, il tempo fermo, il fiato mai ripreso. Come se avessi inspirato alla prima parola ed espirato solo dopo i 30 secondi di pagina bianca, l'ultima. Possono essere fatali quei 30 secondi, perché le parole non ti ossigenano più e quel che resta è svegliarti e capire che è finito. Ripetere lentamente la parola È F I N I T O, assaporarne ogni lettera, sentirsi scorrere nelle vene quel che c'era e ora non c'è più. È finito, ma non per sempre.
Baricco si dimostra come sempre un esperto delle parole, capace di sorprendere e lasciare senza fiato. Dopo la diversità e difficoltà del romanzo City, che ha lasciato insoddisfatti molti palati, Senza sangue è il ritorno di Baricco narratore di luoghi sospesi tra il passato ed il presente, tra la polvere lasciata dalla scia della Mercedes ed il silenzio di una fattoria in fiamme. È tornato Baricco con i monologhi frenetici e le pause inaspettate, il Baricco che sa usare le parole, e le usa bene.
Senza sangue è un flash, ti abbaglia e sparisce. Come una bambina appesa ad un qualcosa che non è quel che pensi. Come una guerra, ma una guerra diversa.
Proserpina




15.10.02
Recensione inviata da TulipanoGiallo
Festa mobile di Ernest Hemingway.
Festa mobile si apre con uno degli incipit più poetici che io abbia mai letto: "Poi veniva la brutta stagione. Alla fine dell'autunno, in un solo giorno, cambiava il tempo."
Hemingway iniziò la stesura di quest'opera, che nelle sue intenzioni doveva essere un libro di memorie, nel 1958, ma l'interruppe per seguire i toreri Ordonez e Domiguin nelle arene spagnole, viaggio che gli ispirò il romanzo Un'estate pericolosa. Il suo suicidio del 1962 gli impedì di godere della gloria del suo romanzo più riuscito, (almeno secondo me). Il libro fu pubblicato postumo nel 1964 e diffuso in Italia dalla Mondadori nella traduzione di Vincenzo Mantovani con il titolo di Festa mobile, che fa riferimento ad un'intensa frase tratta dal romanzo stesso: "Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile." (Peraltro anche nella versione originale il titolo era A moveable Feast).
In realtà Festa mobile è molto più di un libro di memorie. È il racconto della vita, gli incontri, gli amori, i tradimenti della "lost generation" a Parigi, la città dove secondo Sherwood Anderson "l'arte viene presa sul serio". Hemingway vi arrivò pronto ad assorbire come una spugna visioni sensazioni e suggestioni di quella città che fin dall'inizio del secolo, generosa e cosmopolita, aveva accolto generazioni di artisti stranieri. Gertrud Stein, che arrivata a Parigi quasi venti anni prima, una volta scrisse che "gli scrittori devono avere due paesi, quello al quale appartengono e quello in cui vivono veramente, (...) di cui si ha bisogno per essere liberi", riassumendo così le diverse motivazioni che spinsero gli intellettuali americani a trasferirsi per periodi più o meno lunghi nel vecchio continente. Tutti loro in un modo o nell'altro hanno reso omaggio alla capitale francese, ma nessuno è riuscito a rendere efficacemente il fremito e l'atmosfera vitale di questa patria dell'arte e delle lettere, dove la tradizione era così salda da permettere di apparire moderni senza essere diversi e dove l'accettazione della realtà era tale da concedere a chiunque l'emozione dell'irrealtà, come Hemingway. Nelle sue pagine ritroviamo o incontriamo Parigi, con i suoi bistrò, le sue vie, la sua gente. Hem rievoca la sua vita quotidiana di scrittore giovane ingenuo e promettente, tra il 1921 e il 1926, anno in cui lascia la moglie Hadley, che ha coniato per lui il diminutivo di Tatie, per la giornalista Pauline Pfeiffer, diviso tra la ricerca di ispirazione dalla prospettiva della terrazza di un caffè o dal panorama delle sue finestre al 74 di rue Cardinal Lemoine, l'amore dolce ed appassionato con sua moglie e gli incontri nei bistrot e nei cafè con Picasso, Joyce, Ezra Pound o col grande amico Scott Fitzgerald, divorato dall'alcool e dalla gelosia che la moglie Zelda nutriva verso il suo lavoro.
Il libro è quindi una testimonianza tenera e frizzante di un'epoca straordinaria, di un'atmosfera irripetibile resa da un suo protagonista indiscusso, ma è soprattutto l'addio del grande scrittore americano, che rivela la sua infinita fragilità, al riparo dalla sua abituale dimensione mitografica. In ogni capitolo Hemingway ci conduce con sé, lungo i suoi tragitti, ne seguiamo le tracce e ne condividiamo gli umori, gli entusiasmi, la vitalità e persino la malinconia del ricordo, con cui celebra affettuosamente quegli anni ormai perduti, rivissuti attraverso il filtro della nostalgia che lo coglie, scrittore grande, stanco e deluso che guarda indietro agli anni in cui "eravamo molto poveri e molto felici".
Rosy




13.10.02
Segnalazioni inviate da Francesca Marchei
L'autore più sconcertante e stilisticamente più intrigante che mi sia capitato di leggere è senza dubbio l'inglese Rupert Thomson. L'ho scoperto per caso: curiosando in libreria tra i volumi in inglese, ho scelto Soft, un romanzo che si è rivelato estremamente originale, sia per il tema - i meccanismi occulti della pubblicità - sia per il modo in cui è scritto.
Lo stile unico di Thomson, ricco di dettagli e incredibilmente efficace nelle descrizioni di ambienti e stati d'animo, l'ho apprezzato ancora di più nel secondo libro che ho letto, The book of revelation (in italiano, A nudo, Passigli, trad. Chiara Gabutti). È la storia di un ballerino di talento e di successo che esce di casa, ad Amsterdam, per comprare le sigarette alla sua donna, e viene rapito. L'esperienza cambia ovviamente tutto il corso della sua vita, e soprattutto il suo modo di percepire e vivere i rapporti con gli altri. Uno dei commenti in quarta di copertina descriveva il libro come intellettualmente intrigante e visceralmente avvincente, e non potrei trovare parole più adatte. Non crea solo tensione e curiosità, come un classico ''giallo'', ma coinvolge il lettore forse più di quanto un lettore medio non voglia generalmente lasciarsi coinvolgere, rendendolo profondamente partecipe degli eventi e delle impressioni vissute dal protagonista. Le atmosfere sono sempre magistralmente costruite, non ci sono cadute di ritmo o vuoti di trama, si ha l'impressione che non ci sia una sola parola mancante o di troppo, e che l'autore riesca a dosare gli effetti con grande sensibilità.
Anche The insult, sempre di Thomson, ripropone una vicenda quanto mai curiosa. È la storia di un uomo che diventa cieco dopo che un ignoto aggressore gli ha sparato alla testa. Per quanto il suo medico non gli lasci nessuna speranza, a un certo punto lui ricomincia a vedere, e la trama si sviluppa in un clima sempre in bilico tra ironia e angoscia, speranza e disperazione, ineluttabilità del destino e potere della volontà individuale.
Un piccolo avvertimento: nelle critiche, l'aggettivo più ricorrente è ''disturbing'' e non è un caso: i libri di Thomson effettivamente turbano e disturbano, catturano e trascinano, coinvolgono e sconvolgono, e soprattutto non prevedono un rassicurante finale chiuso. Ma chi ''rischia'' non resta deluso.
Francesca




11.10.02
Ci sono libri nei libri... e recensioni all'interno dei romanzi.
Un esempio lo trovo in Manuel Scorza, La danza immobile (di cui parleremo un'altra volta):
- In uno di questi libri di autore ignoto ho letto le avventure di un certo Don Chisciotte della Mancia, un gentiluomo a cui l'eccessiva lettura dei libri di cavalleria aveva prosciugato il cervello. Immaginandosi cavaliere errante, seguito da un certo Sancio Panza, prodigo di proverbi e di bricconate, li vidi andarsene per il mondo a raddrizzar torti. Allora io non sapevo che ci sono così tanti malvagi nel mondo che l'idea di sbaragliarli è follia. Prodigiose dovevano essere le loro imprese, se gli editori vi avevano consacrato quattro numeri che per me furono altrettante settimane durante le quali arsi di impazienza. Li lessi senza capire. Morto dal ridere assistetti all'episodio dei mulini a vento. Soffocandomi col fazzoletto per evitare che dalle mie sghignazzate mia madre si accorgesse che leggevo i suoi libri in solaio, vidi la battaglia dei montoni, e tante altre avventure. Non capii, naturalmente, le profondità del libro ma cominciai a sospettare che dietro le farse del volo del magico Clavilegno o della farsa dell'isola Barataria, la ragione non stava dalla parte di chi si pretendeva saggio ma dalla parte dei pazzi. Anni dopo ho ritrovato, insieme alle copertine corrispondenti, le riviste che recavano il riassunto dell'Ingenioso Gentiluomo Don Chisciotte della Mancia. E seppi che l'uomo che l'aveva scritto in un carcere, era Cervantes.



1.10.02
Contributo inviato da aa bb
L'uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami
(traduzione dal giapponese di Antonietta Pastore, 2001 per Baldini & Castoldi)
...dagli alberi intorno arrivava costantemente il verso di un uccello, stridente come se qualcuno stesse avvitando qualcosa. Noi lo chiamavamo l'uccello-giraviti. [...] Il suo vero nome non lo sapevamo, non sapevamo neanche che aspetto avesse. Ma questo all'uccello-giraviti era indifferente, ogni giorno veniva sugli alberi lì intorno a stringere le viti del nostro piccolo mondo tranquillo.
[...] "Uccello-giraviti?" ripetè lei sbalordita guardandomi in faccia. "Che razza di roba è?" "Un uccello che gira le viti", risposi. "Ogni mattina in cima ad un albero gira le viti del mondo e fa ghiiiiiiiiiiiiii."
[...] "È un uccello che viene ogni giorno davanti a casa mia, si mette sull'albero dei vicini e fa ghiiiiiiiiiiii. Però nessuno l'ha mai visto."
Prima delle vacanze estive, di passaggio a Milano per lavoro, sono andato ai giardini vicino Porta Venezia, rubando 5 minuti al mio mestiere.
Grazie a Haruki Murakami ho riconosciuto il richiamo dell'uccello giraviti e su una panchina ho ripercorso i fili della rete che mi avevano permesso di ascoltarlo... Una telefonata, ok per una riunione, una levataccia, un aereo, un giornale in aereo, una recensione letta e subito dimenticata per ricomparire nuovamente davanti ad una copertina in una libreria in un altro aeroporto... Un'altra telefonata, un'altra riunione, la voglia di avere 5 minuti per recuperare la mente, un giardino...
I libri aiutano...
uno di passaggio




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